Roberto Festorazzi, Gli Usa e il Duce. Mussolini e la caccia ai dollari –AVVENIRE  7 NOVEMBRE 2015 + Fabrizio Finzi, ANSA.IT  – 2 MARZO 2024 -MARZIO BREDA E STEFANO CARETTI (EDITORE SOLFERINO 2024 ), Gli Usa e il Duce. Giacomo Matteotti

 

 

 

AVVENIRE  7 NOVEMBRE 2015
https://www.avvenire.it/agora/pagine/dollari-

 

Gli Usa e il Duce. Mussolini e la caccia ai dollari


Roberto Festorazzi

 

​Ancora prima della marcia su Roma il Duce cercò di garantirsi l’appoggio dei capitali americani.

 

Con poche distinzioni tra le amministrazioni repubblicane e quelle democratiche, il sistema politico, l’industria culturale e l’opinione pubblica americani fiancheggiarono Mussolini per quasi vent’anni: dalla sua ascesa al potere, con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, praticamente fino all’entrata in guerra del gigante a stelle e strisce, nel dicembre 1941.

 

Un grande ruolo, nell’indurre i presidenti Usa a tenere la barra ferma nella posizione di sostegno al Duce e al suo regime, venne giocato dalla vasta comunità degli immigrati di origine italiana – bacino elettorale che nessuno statista accorto poteva inimicarsi –, i cui umori e sentimenti volgevano a netto favore dell’esperimento fascista.

 

Il colpo di Stato delle camicie nere del 1922, per cominciare, venne preceduto da uno strano colloquio tra il Duce e l’ambasciatore americano in Italia, Richard Washburn Child, che più tardi avrebbe vestito i panni del biografo americano del capo del fascismo. Quell’anomala visita al diplomatico aveva tutto il sapore di un tentativo di ricevere l’avallo preventivo del governo di Washington all’assalto al cuore delle istituzioni da parte degli squadristi. Da quanto accadde poi, si ha ragione di credere che quell’accordo vi sia stato.

 

Il nuovo governo fascista, che nella sua prima fase fu liberista in economia e si resse sul sostegno del libero Parlamento, divenne infatti il volano degli investimenti dei grandi capitali statunitensi nella PenisolaI presidenti repubblicani Warren G. Harding, Calvin Coolidge ed Herbert Hoover si preoccuparono anzitutto di mandare a Roma rappresentanti e negoziatori in grado di garantire le migliori intese con il dittatore. Oltre al già citato ambasciatore Child, altri personaggi chiave dell’approccio distensivo con Roma furono il ministro del Tesoro e il segretario di Stato dell’amministrazione Coolidge, rispettivamente Andrew Mellon e Frank Kellogg, ma anche il banchiere Thomas William Lamont, direttore della J.P. Morgan, e il capo della diplomazia del successivo governo Hoover, Henry Stimson.  A tale proposito, pare che la corrente di fiducia, e di simpatia, che si instaurò tra Hoover e Mussolini, fosse dovuta anche al fatto che il capo della Casa Bianca aveva avuto un padre fabbro come il Duce. A Lamont, in particolare, si dovette il successo ottenuto negli accordi per la sistemazione del debito che l’Italia aveva contratto con gli Stati Uniti durante la Grande Guerra.

 

La cifra da saldare venne fissata in 2 miliardi e 42 milioni di dollari. Nel momento in cui il conte Volpi di Misurata, il piraña finanziario del governo Mussolini, staccò un assegno di 5 milioni di dollari, a saldo della prima rata del debito, sullo Stivale piovve un maxiprestito della Banca Morgan da 100 milioni di dollari. Il rovescio della medaglia fu che il governo italiano dovette sganciare una tangente da 4,5 milioni di dollari.

 

Vettore degli investimenti Usa in Italia fu la Banca italiana di sconto di Angelo Pogliani.

 

I capitali d’oltreatlantico furono impiegati soprattutto nel campo delle opere pubbliche, per l’ammodernamento della rete infrastrutturale del Paese: da quella ferroviaria a quella portuale. Un grande ruolo lo giocarono i programmi per l’elettrificazione. Nel 1929, gli investimenti americani ammontavano a 66,5 miliardi di dollari. Una forte presenza di capitali Usa si registrava nei settori della lavorazione dei metalli leggeri, non ferrosi, come l’alluminio, lo zinco e il rame, con una grande ricaduta sull’industria navale, aeronautica e ferroviaria. Tra le molte società coinvolte in attività economiche pubbliche e private, figuravano la Ford, l’Allied Machinery, la Westinghouse, e la National Cash Register, azienda produttrice di registratori di cassa e macchine contabili. Una ‘buccia di banana’, sulla quale Mussolini rischiò seriamente di rompersi l’osso del collo, fu il caso Matteotti.

 

Il leader socialista, infatti, al momento di essere rapito e ucciso da sicari prezzolati del ministero degli Interni, aveva pronto un dossier in cui denunciava l’intreccio affaristico intervenuto nelle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento petrolifero in Italia. L’americana Sinclair Oil, al prezzo di una tangente da un milione di lire, si era aggiudicata l’affare, operando quale prestanome della compagnia Standard Oil, il colosso saldamente custodito nei forzieri dei gruppi finanziari Rockefeller, Mellon, Morgan, Guggenheim.

 

Forse lo stesso Mussolini non era stato posto nella condizione di conoscere che la Sinclair non fosse cosa diversa dalla Standard Oil. La convenzione tra la società americana e lo Stato italiano alla fine venne invalidata, ma ci vollero anni perché il regime fascista sottraesse il settore energetico ai tentacoli delle grandi compagnie straniere. 

 

Con l’avvento del New Deal rooseveltiano, ossia la risposta dei pubblici poteri alla depressione seguita al tracollo del 1929, si registrò un’altra, significativa sintonia tra Roma e Washington. Il Duce considerò infatti, con discorsi e interventi anche sulla stampa d’oltreoceano, l’esperimento dell’amministrazione democratica come una variante americana del corporativismo fascista. L’intervento dello Stato nell’economia, anche in Italia, a partire dal 1930, divenne una necessità: il fascismo seminazionalizzò il sistema bancario e diede vita all’Iri. La fase liberista del regime si era esaurita.

 

 

 

ANSA.IT  – 2 MARZO 2024–19.43 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/approfondimenti/2024/03/02/giacomo-matteotti-il-nemico-di-mussolini-storia-di-unamnesia_d3c13ccb-50a6-4d85-a596-38f8ee48c060.html

 

Giacomo Matteotti, il nemico di Mussolini, storia di un’amnesia

Nel centenario della morte sul difensore della democrazia

ANSACheck

 

 

Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato - Marzio Breda,Stefano Caretti - copertina

IL NEMICO DI MUSSOLINI – GIACOMO MATTEOTTI, STORIA DI UN EROE DIMENTICATO DI MARZIO BREDA E STEFANO CARETTI (EDITORE SOLFERINO, PP 288 EURO 18,00) 

 

 

 

 

Una storia ricca di dati e documenti per spazzare via non solo “amnesie”, come scriveva Norberto Bobbio, ma anche per contrastare tentativi sempre più frequenti di revisionismo storico di una figura che determinò la nascita dell’antifascismo come lo intendiamo oggi e come lo interpreta la Costituzione.

“Il nemico di Mussolini, storia di un eroe dimenticato” ripercorre la storia personale di Giacomo Matteotti e i tragici accadimenti che portarono alla morte del parlamentare socialista rapito sulle sponde del Tevere nel giugno 1924.

Scritto dal giornalista del Corriere della sera Marzio Breda e dallo storico Stefano Caretti il volume riporta al centro della scena le responsabilità di Benito Mussolini nel rapimento e nell’omicidio di Matteotti. Un delitto assolutamente politico che aprì le porte alle “fascistissime” leggi degli anni seguenti che cementarono il regime.

I timori di Bobbio erano fondati: cent’anni dopo il delitto, il nome di Matteotti sembra sopravvivere quasi soltanto grazie alla toponomastica, cioè alle 3.200 vie e piazze a lui dedicate dopo la Liberazione. Rimane il mito del suo sacrificio ma si è persa nelle generazioni la sua figura di intellettuale e politico. Il libro ricorda il suo ruolo di difensore della democrazia e propugnatore di un socialismo riformista e “dal volto umano”. Un oblio, ricordano gli autori, favorito anche dalla sinistra, dalle divisioni interne alla famiglia socialista e dalla lunga egemonia culturale del Pci, che lo avversava.

 

Anche gli storici trovarono difficoltà a farsi pubblicare saggi sulla vicenda Matteotti mentre all’estero, paradossalmente, era più studiato che in patria.
Matteotti fu un politico diverso, serio, colto e cosmopolita, conosciuto e stimato in Gran Bretagna, in Belgio, Olanda, Francia, Germania, Austria. Non a caso il suo omicidio ebbe risonanza mondiale e ne scrissero fra gli altri George Orwell, Stefan Zweig e Marguerite Yourcenar.

 

Eletto in Parlamento a soli 33 anni, si dedicò alla politica nazionale, scontrandosi con il fascismo nascente.

Fondò con Turati il Partito socialista unitario – divenendone segretario -, convinto com’era che all’Italia servisse un socialismo riformista d’impronta socialdemocratica. In pochì anni intervenne ben 108 volte in Parlamento sui temi più diversi ma la sua denuncia più famosa resta quella del 30 maggio 1924, nella quale elencava brogli, abusi e violenze alle urne, chiedendo l’invalidazione del voto che aveva dato il potere ai fascisti. Discorso dopo il quale il dittatore si attivò affidando a un gruppo di squadristi il compito di eliminarlo.

Come puntualmente avvenne solo 10 giorni più tardi.
Ora, in questi ultimi decenni le celebrazioni e gli studi su Matteotti si sono quasi sempre concentrate sul suo martirio e molto marginalmente sui processi. E questo è forse anche la causa dell’amnesia collettiva sulle responsabilità del fascismo, o meglio del duce. Resta il fatto che il delitto Matteotti è un caso chiuso continuamente riaperto. E questa labilità interpretativa sarebbe stata favorita dal fatto che mancava la “pistola fumante”, la prova regina.

Tra ambiguità storiografiche, nostalgie revisioniste per minimizzare il ruolo di Mussolini, la sua figura si è persa, sbiadita ad arte. Ciò è avvenuto dando credito in particolare alla tesi (una falsa pista veicolata dal regime già negli anni Venti) di una “tangentopoli in camicia nera” per un affare petrolifero in realtà mai concluso, che avrebbe coinvolto finanzieri, alti gerarchi e forse addirittura la casa reale.

Matteotti avrebbe scoperto questo scandalo e sarebbe stato pronto a denunciarlo: per questo sarebbe stato ucciso. Una tesi che gli autori smontano nel libro attraverso un’interpretazione rigorosa dei fatti, oltre che con documenti inediti, nel tentativo di dare piena luce ai 39 anni “senza respiro” di Matteotti.

 

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  1. Chiara Salvini scrive:

    chiara, adesso non sono in grado di citarli, ma ci sono altri libri, uno per es. del Mulino ( Il delitto Matteotti. Canali Mauro. Mulino, 2004 ) che sostiene la tesi opposta- Vuol dire per lo meno che il dibattito tra gli storici è aperto.

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