parti precedenti si trovano in:

I. 8 aprile 2013 ore 18:42 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA: UN DELIRIO “A DUE”. parte 13-14

 

II. 11 aprile 2013 ore 06:51 CHIARA, ULTIMA PARTE, n.15/16

 

III. 28 APRILE 2013 ORE 18:24 PARTE 18-19/// UN “DELIRIO A DUE” (CON IL “MIO”  ZAPPAROLI) ANNULLA QUELLA SOLITUDINE DA “PIETRA CHE ROTOLA SU UN MARCIAPIEDE DI SQUALLORE” E MI APRE AL SOGNO DI UNA RIVOLUZIONE CULTURALE PLANETARIA E ALLA PASSIONE DELLA SPERANZA IN UN MONDO “DI PERSONE”, FINI NON MEZZI.

 

IV.  4 MAGGIO 2013 ORE 08:45 ULTIMA PARTE LIBRO CHIARA: UN DELIRIO A DUE E SVILUPPI: PARTE XX- XXIII

 

V. 10 maggio 2013 ore 07:37 ultima parte libro di chiara: dal ricordo del mezzadro. (Parte IV)… “si origina una parte mia in cui sono autogenerata” cap. XXIV-XXVII

 

VI .  10 giugno 2013 ore 07:24 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA/ CAP. XVIII-XXX “COME CONSEGUENZA DELL’EPISODIO DEL MEZZADRO CAMBIA IL MODO DI VEDERE MIO PADRE”

 

 

VII.   UN’IDENTITA’ POSSIBILE-

27 luglio 2013 ore 09:30 VII. un’identita’ possibile e la violenza della fine del delirio //UN ALTRO PEZZO DEL LIBRO DI CHIARA (PRIMA STESURA)

 

 

 

VIII.  Un’identità da strabico, un occhio ad ovest ed uno ad est

(parti XXXV-ILVI)- libro chiara, ultima parte (prima stesura)

10 agosto 2013 ore 16:41 LIBRO CHIARA, ULTIMA PARTE (CAPP. 35-46) —UN’IDENTITA’ DA STRABICO, UN OCCHIO A OVEST ED UNO A EST

 

 

IX.  un’identità a  due, vis à vis

 

 

Nell’ultima crisi il delirio si è modificato nella sua struttura interna perché è diventato un delirio a due: l’immagine del terapeuta infatti era attore e protagonista del delirio tanto quanto me.

Penso che questo sia successo perché per la prima volta, in questa nuova terapia, sono uscita da quel terribile isolamento che ha caratterizzato la mia vita.

Per me, la caratteristica fondamentale della malattia mentale è l’isolamento cui viene costretto un individuo che si fabbrica addirittura un codice mentale tutto suo che gli impedisce la comunicazione con gli altri. Ma in questa esperienza di delirio “partecipato”, diciamo così, sono in parte sfuggita a quella che considero la più terribile tra le caratteristiche della malattia mentale. Il mio terapeuta non mi ha lasciato andare sola per il mare aperto.

Per parlare di questa esperienza mi viene spontaneo rivolgermi a lei come se le dovessi raccontare una fiaba. Alcune volte mi sono sentita, ai tempi della terapia, la sua Sherazade, anche se non ho mai avvertito in lei alcuna minaccia di tagliarmi la testa; ha al contrario sopportato il mio amore con molta rassegnazione.

 

 

Nella terapia con lei, che è stato il mio ultimo analista, in Italia, dopo il mio ritorno dal Brasile, più malata di com’ero partita, il mio mondo interno era cambiato.

 

Lei mi aveva mandato in Brasile con una diagnosi di simbiosi: dovevo fare analisi e stare il più lontano possibile dalla famiglia per curarmi.

 

Al mio ritorno nell’ottantasei mi aveva parlato di “ simbiosi focale”, della possibilità cioè di ridurre la simbiosi ad un punto, un “focus” appunto, senza bisogno di curarla totalmente cioé farla sparire.

Forse una chiarificazione della sua diagnosi d’allora.

 

La simbiosi focale – mi aveva spiegato – permette alla persona di sopravvivere autonomamente, e lo può fare perché quel lembo della mente, nella quale l’io non sopravvive se non incollato ad un altro, lo alimenta continuamente come un fuoco benefico che non si spegne mai.

Lì, in quel punto della mente, vivevo in braccio a mia madre, mio padre e mia sorella.

Ma proprio quest’aspetto, se lasciato stare, permette alla persona di sentirsi autonoma. Questo è, almeno, quello che avevo capito io.

Senza questa possibilità della mia mente, non mi avrebbe mandato tanto lontano.

 

Oggi, che sono passati trent’anni dalla sua diagnosi di allora, so che in una piccola area della mia anima vivo in una culla dove ho bisogno di essere accudita. In quest’area posso esistere solo se ho l’assoluta certezza che le persone che vi hanno accesso mi vogliono veramente bene.

Di questo devo avere l’assoluta sicurezza.

Altrimenti questa parte deve vivere murata.

E’ questo uno dei vertici da cui guardo questa parte: nel racconto ne userò altri, diversi da questo o anche in contraddizione, perché in questo mondo sotterraneo la coerenza è un filo così sottile che a volte scompare.

 

 

E’ perché la mia mente contiene questa parte che, a mio parere, posso diventare pazza: lì, in quest’area, c’è una voragine buia – invece di un pezzetto di identità – un’angoscia di annichilimento- invece di un tessuto mentale- un panico senza nome- invece della possibilità di un linguaggio. A diciotto mesi, il rapporto simbiotico con mia madre si è violentemente spezzato e, lei, per me, è sparita come fosse stata inghiottita da un lupone nero.

Questa è, per me, l’origine di quest’area.

Negli anni questa parte si è accresciuta tutte le volte che ho provato un abbandono, e abbandono erano per me cose grandi come la totale assenza, ma anche cose molte piccole come uno sguardo non dato. L’effetto di questi molteplici abbandoni era sempre lo stesso: mi guardavo in uno specchio immaginario, che stava dentro di me, e non scorgevo nessuna immagine. Mi prendeva allora molta angoscia che trovava sollievo nel descrivere minutamente sul quaderno di turno cosa sentivo precisamente in quel momento.

 

E’ perché ho quest’area “simbiotica” che non posso stancarmi né sottopormi a stress eccessivi, perché il mio io deve poter avere la tranquillità e l’energia disponibile per accudirla.

La funzione del mio io è, soprattutto, di filtro e di trasformazione degli stimoli: se questa funzione viene a mancare, come succede sistematicamente nel periodo che precede una crisi, questa parte rimane invasa da un linguaggio che le è alieno e che la porta ad un panico cosmico.

Vorrei spiegarmi, anche se le semplificazioni sono sempre un po’ ridicole: se una persona a me cara non mi guarda perché giustamene concentrata in altro, e magari io quel giorno non sto bene, il linguaggio “alieno” da evitare è la mancanza di amore, l’abbandono; al suo posto, il mio io deve raccontarmi la storiella:

“ Questa persona ti vuole bene, ma come sai oggi è molto preoccupata ecc. ecc.” e ripeterla finché questa parte testona la capisca.

 

 

 

 

Questa parte della mia mente ha avuto una sua evoluzione con il passare del tempo.

Ha contenuto la parte più drammatica del rapporto con mia madre, un rapporto che non poteva avere una reciprocità perché mia madre era quasi sempre l’attrice ed io quasi sempre l’esecutrice o meglio la spettatrice.

 

Oggi c’è, invece, con mio marito, una riconosciuta vulnerabilità a due, un tremore soffuso uno per l’altro, che ci porta insieme ad un bisogno di proteggere e di essere protetti. Così la mia culla originaria si è trasformata in una culla a due.

Questo, naturalmente, quando va tutto bene, ma tutti noi sappiamo che “anche nelle migliori famiglie non sempre va tutto bene”.

In questa mia parte così fragile è stata introdotta un’aria di soavità che non ha prezzo, anche se c’è voluta una crisi di mania e una lunga depressione.

 

 

La crisi cui faccio riferimento è l’ultima crisi di mania che ho avuto e risale al giugno del ’94. Avevo già terminato l’analisi da qualche anno e svolgevo alcune attività nello studio del Prof. Zapparoli.

Era morta mia madre da quasi un anno e, anche se apparentemente ero rimasta tranquilla, lo sconquasso interno era stato grande.

In quella parte della mia mente (che non so se chiamare simbiotica o di fallimento della simbiosi) si erano spente tutte le luci e di quel vuoto di immagini io avevo paura.

Quello che mi aspettava era un lungo periodo di trasformazioni nel quale avrei faticosamente appreso la reciprocità, ma quella mia parte non conosceva la parola “attesa”: morto il sole intorno a cui ruotava, ne esigeva subito un altro.

Quello che ho fatto io allora – lo capisco solo oggi- è stato sostituire mia madre con il mio terapeuta, per il quale sono stata presa da profonda passione.

 

 

 

 

 

8 aprile 2013   pubblico sul blog anche la parte 14 (tutta fino a 15 escluso)

 

14. Il mio amore per lei non era solo ricerca di un partner per la simbiosi, non era solo bisogno di un sostituto vivo di mia madre che era morta. Quello che non sapevo allora era che la mia terapia, già conclusa, aveva invece bisogno di una “conclusione ferma” che non c’era stata e che questa conclusione era legata all’idea di padre che era rimasta incompleta.

Lei, vivo, veniva così a rappresentare, nel delirio, tutta la mia famiglia che non c’era più.

 

 

Anche lei era il direttore di un’équipe in questa crisi, ma mi ero avvicinata alla reciprocità, che tanto bramavo, e il mio delirio la rappresentava.

 

Lei si sottoponeva all’esperimento tanto quanto me, ne soffriva come io ne soffrivo, e con me delirava, eravamo nella stessa barca, solo che lei remava da capitano e io da marinaio.

 

“ O Capitano! Mio Capitano “, il nostro viaggio tremendo è appena cominciato (da Whitman).

 

Anche lei non era pronto a questo nuovo mondo che pareva schiudersi, anche lei era portatore di una cultura di dominio e di sopraffazione.

Anche se non solo.

Lei poteva vivere in due stadi diversi senza sentirne la contraddizione.

Era ben adattato.

 

In questo nuovo mondo sarebbe diventato un dovere essere felici.

Aver piacere.

Essere accolti e accogliere gli altri.

Essere trattati come persone.

Non più pacchetti, “dei fini e non dei mezzi”.

 

 

Il delirio nasceva dai miei rapporti attuali, anche se l’io forte che sentiva quell’angoscia di spaesamento, come una fiammella viva gettata nel firmamento, e andava avanti, aggrappandosi ad ogni minima cosa per continuare il suo lavoro, era il mio io dell’infanzia.

 

Ritrovavo una sicurezza e una determinazione che dall’adolescenza non avevo più posseduta.

 

Incastrata da anni in rapporti non reciproci, il delirio era uno specchio rovesciato: vivevo in lui tutto quello che non potevo vivere nella vita reale.

 

In lei ho creduto di vedere un “tu” possibile e mi sono sentita

“ insieme” come non mi era mai stato possibile prima.

Solo con lei ho superato anni e anni di incomprensione, un tunnel di pietra grigia dal quale credevo di non uscire mai più, di non vedere mai più la luce.

 

 

 

Con lei ero Euridice che usciva dal mondo dell’Ade, ma lei non si era mai voltato indietro, sapeva che ero con lei e non si lasciava prendere da dubbi.

 

Vivevo in uno stato ben rappresentato da questi versi di Rilke:

 

Raccolta in sé e come trasognata,

non pensava a colui che le era innanzi,

né alla strada su verso la vita.

Era raccolta in sé, e la impregnava il suo stato di morte.

Se un frutto è pregno di dolcezza e d’ombra,

quella sua grande morte la colmava,

così nuova che nulla lei coglieva.

 

Ma lei mi aveva tenuto per mano con fermezza e “simpatia” lasciandomi vivere “la mia morte” per quattro lunghi anni fino a quando io stessa non ne avevo potuto più.

 

Parlava poco e aveva sempre l’aria di dire cose importanti.

Molte le ricordo, anche se le cose che lei mi diceva sono ancora oggi molto confuse.

Lei mi ripeteva che non sopportavo di sentire di aver bisogno di qualcosa, che non volevo provare piacere perché avrei dovuto accettare che il piacere finisce: queste sue frasi sono fonte di angoscia oggi, così come lo erano allora; io non potevo capire, tutto era troppo difficile per me.

Quello che mi succedeva era che le vivevo come un attacco, come una forma di disprezzo, quindi come un abbandono e, questo, proprio da lei, non potevo sopportarlo.

Queste sue frasi sono tutte così schizzate di nero che ancora oggi non posso “leggerle”.

 

Ricordo invece molto bene -perché lo capisco bene – che “non volevo veder nascere la Primavera”. Questo lo capisco bene perché sapevo della mia vita passata in gramaglie, espiando colpe mai commesse, tutta incentrata intorno al dolore; invece il diritto alla Primavera significava il diritto a star bene, ad essere felice.

Il diritto alla Primavera significava il diritto alla felicità con Mario, anche se allora non lo sapevo.

 

 

Alla fine, dopo tanti anni, lei era stata la mia salvezza.

 

Forse perché l’avevo fabbricato con le mie mani.

Era così e non era così.

 

Avevo intravisto un altro nella sua differenza da me.

Aveva dissipato le mie nebbie.

 

E avevo vissuto una relazione con lui.

Di questo ero certa.

 

Mi ero dovuta adattare alla sua personalità così lontana da tutte le persone da me conosciute.

 

Anche ai suoi scatti d’ira.

Due volte.

Pochi, ma c’erano stati.

 

Alle sue illuminazioni improvvise che mi sconcertavano e mi fornivano un nuovo modo di vedere.

E una meta.

Ma non i vari passi, a partire dalla mia realtà del momento, per raggiungerla.

Questi me li ero dovuta costruire da sola.

 

Da sola, insieme a lei e, a volte, da sola, senza lei.

 

 

 

Ma era ugualmente vero che non  ero uscita da me stessa.

 

Questo mio delirare sulla reciprocità aveva la funzione di un mito cui tendere che mi nascondeva il fatto che ero io che non ero riuscita ad uscire completamente dal mio cerchio, ammesso che qualcuno mai esca completamente dal suo cerchio.

Questo delirio in cui lei non era un generico “altro” cui rivolgersi, ma un vero protagonista, qualcuno che era quasi importante come me, rappresentava il grado di apertura all’altro che avevo raggiunto nella terapia, ossia qualcuno che è là, fuori di noi, indipendentemente da noi, con reazioni e movimenti propri, ma attento ai nostri bisogni: lei delirava con me perché ad ogni istante stava con me in funzione di accudimento. Ma era “accanto” a me, “con” me, non là alto sullo “schermo” come accadeva nei precedenti deliri.

 

 

E’ anche vero che lei mi aveva tirato fuori da un’autentica prigione, una prigione in cui mi ero incatenata, un tunnel grigio di cui non mi accorgevo, e sulle cui pareti, le continue immagini del mondo e delle persone che sorgevano, erano appena un vago riflesso di me stessa.

 

 

Così tanti anni di malattia – la prima depressione seria mi era arrivata, come un pacco improvviso, a dodici anni – mi avevano costruito una fortezza dove mi ero barricata per resistere.

 

Dovevo vivere concentrata su me stessa per spiare i primi segni d’allarme.

Dovevo farmi una facciata normale per non destare sospetti.

 

A nessuno avrei potuto raccontare quelle sensazioni catastrofiche che mi attraversavano, di cui non sapevo venire a capo.

 

 

15. Ma una volta avevo provato a raccontarmi.

Una brutta delusione d’amore a quindici anni, un abbandono che era una riedizione di cose antiche, mi aveva fatto sentire perduta, fuori dal mondo degli altri e senza più un mondo mio.

 

La mia crisi di depressione si esprimeva in termini teologici.

 

Sentivo di non poter più credere in Dio e mi ero rivolta ad un sacerdote.

Ma anche lui, così capace d’accoglimento, non aveva potuto capire.

 

Quello che io non sapevo esprimere era che “l’essere” mi aveva abbandonato perché io ero crollata dentro.

 

Un’implosione.

 

Ero solo frammenti che raggruppavo malamente con la forza di volontà.

 

Un’impalcatura che doveva tenermi in piedi, ma dentro un vuoto catastrofico, perché la mia spina dorsale si era spezzata.

 

Evidentemente la mia vita fino allora, apparentemente così normale, con successi scolastici, nella musica, nel ballo, nel canto era stata costruita su un vuoto, come una palafitta senza pali.

 

Ero una farfalla ridiventata bruco e faticavo ad abituarmi ad una vita di miserie e d’ incapacità.

 

 

 

 

 

“ Mi sento come se un’invasione di cavalli selvaggi fosse passata dentro di me.

Sono come un terreno brullo e lacerato che, nella sua miseria, non può sperare salvezza in se stesso, ma mi trovo in una regione così remota dove nessuno può penetrare, neanche lo sguardo di Dio.

Mio Dio, pensare a te mi dà solo sofferenza.

Ho delle rivolte dentro, fisiche e spirituali, contro me stessa e contro tutti, come degli sforzi di vomito.

E’ persino incredibile come una persona possa essere sola, una solitudine che ti fa volgere la faccia contro il muro per non vedere neanche te stessa.

Io non riesco ad esprimere quello che provo: se potessi vomiterei la mia anima.

Vedi, mio Dio, non posso venire neanche in Chiesa, perché accettarti significherebbe togliermi dal mio abbrutimento e insieme a te dovrei affrontare tutta la realtà e ne rimarrei travolta.

La mia non è viltà, è un’impossibilità fisica ad affrontarla, insieme con la mia anima, è tutto il mio corpo che si rivolta.

Poter esprimere la mia rivolta con un urlo infinito che travolgesse ogni ragione, sarebbe la mia salvezza”. ( quaderno, 12-12-‘61)

 

 

 

 

 

Questo passo, che mi è venuto in mente improvvisamente, e che sono andata a ripescare – allora avevo diciassette anni – documenta la frammentazione del mio io e l’angoscia di annichilimento che sentivo.

 

Più avanti dico “ E’ come obbligare un ghigliottinato a camminare senza testa”…

 

A parte il linguaggio “pulp”, quest’immagine esprime quanto profondamente fossi regredita perché era proprio la testa e le sue funzioni che se n’erano andate. Sentivo la ragione un impaccio più che un’àncora di salvezza, e vedevo nella pazzia un’uscita per una catastrofe interna così grande, come se slittare per la tangente avesse potuto salvarmi dal dovere che sentivo di mantenermi in vita.

 

Una strada qui solo intravista, ma che, in seguito, sono stata costretta ad imboccare anche se sempre con molto tremore.

Qui la vedevo come una liberazione, in seguito mi è apparsa come una tremenda costrizione.

 

Di questa esperienza mi è rimasto dentro, per tanti anni, il terrore di impazzire, e insieme la sensazione che questo destino fosse già scritto, in attesa solo dell’occasione propizia.

 

Forse, la prima volta che sono impazzita, sono impazzita anche per tutte le volte che non era riuscita a farlo perché, nel mio mondo, la parola “pazzia”  semplicemente non esisteva: ci sarebbe voluto – tra le tante condizioni che mancavano – lo scioglimento da tutta una situazione familiare in un modo che, allora, mi era impossibile.

 

Ho potuto farlo solo andando a Milano per l’università e quando la terapia con lo psicologo mi aveva ormai sradicato dal mio ambiente e dalla sua cultura così concreta e piena di buon senso, di sano realismo.

 

Lo psicoanalista cui mi sono rivolta al mio ritorno dal Brasile in Italia nell’’87, mi parlava del diritto di impazzire, anche se non sono certa di aver capito cosa volesse dire.

Nella mia testa la pazzia è sempre stato qualcosa da impedire ad ogni costo perché, ad ogni crisi, la probabilità di avere una ricaduta, aumenta enormemente: dopo la mia prima crisi, dopo il lungo periodo di depressione che ne è seguito, non è passato un anno che sono ricaduta in un’altra crisi di mania e per ragioni più futili, diciamo, che la prima volta..

 

Ad ogni crisi si introduce una nuova vulnerabilità in un sistema già vulnerabile, come se la ferita non avesse avuto il tempo di cicatrizzarsi, perché questo può avvenire solo in tempi molto molto lunghi, ammesso che possa mai avvenire.

 

Dopo aver vissuto la mia – finora-  ultima crisi di mania nel ’94, mi sono venuti dei dubbi su questa mia convinzione così netta, anche se forse non saprò dirli chiaramente: ne parlo verso la fine di questo racconto:  questo periodo così difficile è stata vissuto da me non come una distruzione, ma come fosse una tappa di crescita necessaria per liberarmi di tante immagini che mi tenevano presa; come avessi bisogno di liberarmi di un guardiano che mi teneva schiava in una tana, impedendomi di venire alla luce ed essere un essere umano capace di esprimersi e realizzarsi come tanti altri. Per essere più fantasiosa dovrei dire: liberarmi di una zavorra che mi impediva di volare.

Fare questo lavoro, e non da sola, ma con voi, che mi state leggendo, è una maniera di volare.

 

 

 

 

Una reazione così terribile come quella dei diciassette anni, sarebbe inspiegabile per l’abbandono di un ragazzo, anche per una persona dai sentimenti violenti come me, a meno che non si possa pensare alla riapertura di una lacerazione più antica.

 

Quello che era successo si era incollato, per quei misteriosi legami che la mente stabilisce, ad un abbandono sentito come catastrofico quando, da piccola, non avevo alcun strumento per farvi fronte.

 

A diciotto mesi, quando il mio mondo a due era sparito, l’abbandono che avevo vissuto deve essere stato registrato come l’abbandono dell’essere stesso, della radice della vita.

 

Di qui è nata, probabilmente, quell’attrazione che sentivo per il non essere, per l’ombra, e l’impossibilità di sentirmi “esistente”, perché questa sensazione primordiale ti deve essere trasmessa da un altro o piuttosto non ti deve essere tolta.

La vita poteva essere accettata solo con molto sforzo di volontà e il morire, invece di essere spaventoso, mi appariva dolce, o piuttosto “a portata di mano”.

 

Forse, anche allora, in quei primi mesi, come è successo in seguito, avevo trovato il modo per trasformare il panico, davanti a quel film nero che scorreva dentro di me e registratosi nel mio tessuto mentale, in attrazione per il vortice: un processo opposto, questo, a quello che succede quando abbiamo terribilmente paura di qualcosa, ma ne siamo inconsciamente attratti.

 

Queste sensazioni antiche non facevano parte del mio vissuto quotidiano, ma sorgevano solo nelle crisi, nel delirio e, più nascostamente, nelle depressioni.

 

17. L’uomo non può vivere senza attribuire un significato alle cose e il delirio nasce proprio da questo nostro bisogno di significare la realtà: qualcosa, ad un certo punto della nostra vita, ci toglie il tappeto da sotto i piedi, tutto il nostro modo di sentire e di vivere si modifica brutalmente e, improvvisamente, gli schemi mentali che abbiamo non fanno più senso, dobbiamo abbandonarli, ne appaiono a poco a poco dei nuovi, misteriosi e bizzarri, che si rivelano però utili in questa nuova realtà che ha i piedi per aria.

 

 

 

 

In fondo un delirio non è diverso da un’ideologia o da una religione, perché nasce dallo stesso bisogno: dare un significato al mondo e a noi stessi.

 

Ma quando è l’ideologia ad essere simile ad un delirio?

 

Non eravamo forse pazzi, noi, negli anni Sessanta, quando prendevamo a modello l’Unione Sovietica, quando da alcuni dati potevamo estrapolare una visione complessiva di una società che non conoscevamo sufficientemente?

Non sapevamo dei milioni di morti, è vero, ma anche non volevamo sapere: per non perdere quel cielo cui ci tenevamo appesi e che ci teneva in piedi.

Eravamo un tipo di gioventù che aveva bisogno di grandi ideali, così grandi che la realtà non bastava a contenerli: avevamo bisogno dell’utopia come unica dimensione umana e così, in fondo, molti di noi sono rimasti.

 

 

Oppure, parlando di religione, non è una forma delirante ammettere un dio dispensatore di una punizione infinita come l’inferno eterno? Come si può pensare un essere finito, che nasce e muore, meritevole di una pena infinita? Capisco una religione solo perché insegna l’amore e il perdono.

 

 

Forse non è pazzia quando il delirio è collettivo?

Se è un delirio condiviso e rispettato, reso dignitoso da questa comune appartenenza, non è più delirio?

E’ la conformità sociale che toglie qualunque patologia alle strutture deliranti?

Ma anche il Fascismo e il Nazismo e lo Stalinismo erano condivisi dalla maggioranza della gente.

 

E anche oggi la soluzione della guerra come mezzo di risolvere i conflitti, se pensiamo alle morti, alle terribili sofferenze che comporta, non appare un pensiero delirante a cui la maggioranza sembra soccombere?

 

Le credenze, come i deliri, nascono da frustrazioni reali e immaginate, da bisogni attuali e antichi, e sono portatrici di un futuro migliore, proprio come i deliri. Che cosa li distingue da una patologia? E’ possibile credere che un delirio condiviso non sarebbe più delirio?

 

Chi crede in un’ideologia, o in una religione, non soffre, non si sente spaesato, anzi si sente più vivo e più creativo: è una forma di delirio benefico.

Ma la sua struttura immaginifica è, a mio parere, molto simile ad un delirio.

 

Il malato si appella ad una capacità di fabulazione che è universale.

 

L’uomo sembra non poter vivere senza un’immagine del mondo.

E quando questa non si adatta più ai bisogni, ne inventa un’altra.

 

Questa è la ragione del delirio.

 

Molte volte, nel corso di questo racconto, ripeterò questa frase: “ questa è la ragione del delirio” dicendo cose diverse: questo succede perché le ragioni da cui nasce un delirio sono tante, molte di più di quelle che posso avere intravisto nella mia esperienza.

E tutte sono importanti.

 

Ma una cosa mi pare essenziale, ed è quella che ho già detto, cioè l’incastro di una vivenza antica in un presente che la rende attuale. Questo a me pare il nucleo essenziale attorno al quale ruotano tutte le altre innumerevoli significazioni.

Come se il delirio fosse una cellula: esiste un nucleo ed un tessuto connettivo intorno e, senza quest’insieme indivisibile, una cellula non esiste.

E così è il delirio.

 

 

17. Nel delirio a due si modifica la forma del delirio perché il dialogo si sostituisce al monologo.

Esiste inoltre una corresponsabilità in relazione a quanto succede che permette una certa condivisione dei pericoli: io ero il marinaio, a me toccava il lavoro duro, meschino, triviale, ma i grandi problemi toccavano a lei.

 

 

 

 

 

Lei delirava con me.

 

E questo cambia il tipo di delirio perché ne cambia i rapporti interni, la struttura.

 

Cambia il mondo rappresentato dal delirio perché da solipsistico diventa un mondo dove si è con qualcuno.

Dove c’è un altro che suggerisce immagini, sensazioni e soprattutto presenza.

 

Il delirio diventa condiviso, c’è un tu, un altro osservatore che partecipa e com-patisce.

 

Non c’è più un’unica figura che si stampa sul mondo e lo modella, ma c’è un altro che condivide l’onnipotenza e, insieme, la relativizza.

La responsabilità, così terribile, diessere l’unico creatore di significato si scioglie nell’abbraccio con un altro.

 

L’angoscia si partecipa, ma non si riceve, perché l’altro la contiene, per quanto è possibile ad un tu immaginario.

La relazione con la dilatazione del tempo e dello spazio si mantiene anche nel delirio a due.

Così la continua possibilità del delirio di generarsi da solo.

 

 

 

 

 

Lei delirava con me.

Ma lei non era pazzo.

 

Voglio dire che la mia immaginazione l’ha portata vicina a me, così vicino da partecipare al delirio, ma ha mantenuto inalterata la sua funzione di terapeuta senza mai deturparla. Questa doveva rimanere sacra perché solo a questa condizione potevo salvarmi.

 

 

Soffrivo come una bestia, come nelle altre crisi non era stato possibile( il mio cuore correva all’impazzata ed ero spaventata all’idea che mi venisse un infarto all’improvviso ) perché ero più lucida.

 

Io stessa mi ero presentata allo psichiatra dicendo : “ Sono in delirio, mi deve dare le medicine.

Sono su un treno da cui vorrei scendere, ma non so come “.

 

Lo psichiatra aveva ritenuto che se uno è cosciente del delirio, non è veramente in delirio e mi aveva prescritto una dose di Haldol “ da bambini”.

 

Questa mancanza di medicine aveva peggiorato la mia angoscia, ma mi aveva lasciato più cosciente, più capace di lottare.

Il delirio era stato più breve.

 

Ma non vorrei ripetere quell’esperienza.

 

 

 

18 Ero accudita da lei ad ogni istante. Lei era il mio punto di riferimento e il mio compagno di viaggio con cui condividere ogni istante come vivesse dentro di me: lei era, infatti, il rappresentante di tutte le figure amate della mia famiglia che, sempre, in questi momenti, risorgevano a sostenermi con tutto l’ardore necessario.

Mi riscoprivo, con stupore, sufficientemente tutelata: dentro di me avevo una famiglia che mi aveva amata moltissimo e che non mi aveva mai abbandonato.

E, allora, anch’io, davo battaglia con ardore alla mia parte malata.

 

 

 

 

 

Nel delirio credevo che avesse riscritto un suo libro per me, solo per me, da lei personalmente sottolineato e che me l’avesse fatto trovare nella mia libreria.

Per sostenermi ad ogni attimo con qualcosa che potessi avere a portata di mano.

 

A lei parlavo continuamente e partecipavo ogni mio pensiero.

 

Lei ascoltava e leggeva dentro di me come fossi di vetro.

L’amore che sentivo per lei mi teneva insieme.

Ma, nello stesso tempo, mi tormentava.

 

Mi leggevo la poesia di un anonimo brasiliano.

 

La persona, un poveretto, si lamenta con Cristo di averlo abbandonato nei momenti più duri.

Gli aveva promesso di stare sempre con lui e infatti per un lungo tratto di strada avevo visto le sue orme accompagnate da quelle di Gesù; ma proprio mentre attraversava il deserto, quando le sue sofferenze erano state più forti, aveva osservato le orme di una sola persona.

E Gesù gli dice: “Questo è stato il tempo in cui ti ho portato in braccio”.

 

Anche lei mi portava in braccio.

Con il delirio si era insinuato in quell’area della mia mente in cui vivevo in simbiosi e io mi alimentavo di lei, incollato a lei.

La sua immagine si confondeva con quella di mia madre e insieme moltiplicavate la funzione di protezione.

Mia madre era morta da poco e in quel vuoto catastrofico che mi aveva lasciato, lei era il mio unico punto stabile.

Il delirio era soprattutto una reazione a questa perdita.

 

 

Chiedevo alla mia amica Donatella di leggermi i Salmi.

 

“…e fu per loro un salvatore

in tutte le angosce

Non un inviato né un angelo

Ma egli stesso li ha salvati:

con amore e compassione

egli li ha riscattati;

li ha sollevati e portati su di sé

in tutti i giorni del passato. “(Isaia 63, 8b-9)

 

La mia amica leggeva bene, con molte pause ed io riuscivo a seguire.

Mi sentivo meglio.

La poesia mi restituiva una realtà condivisibile.

 

Lei era colui che mi sollevava e mi portava con sé.

Con lei, che delirava con me, uscivo da quel mondo esclusivamente privato che la pazzia costituisce, e che dà una solitudine terribile, difficilmente raccontabile.

Ci si sente soli e si è soli, ma non è questo il tragico, il tragico è che non ci si sente più parte del mondo degli altri. E si comincia a pensare di dover rinunciare a parte della propria umanità.

 

 

 

 

Lei era il direttore di un’équipe internazionale che faceva capo agli Stati Uniti, ma la musica che mi arrivava era la musica brasiliana.

 

Si trattava di una rivoluzione culturale su scala mondiale.

 

In linguaggio freudiano, mi dicevo, schematicamente, che la Cultura, o Civiltà, doveva passare da uno stadio in cui l’altro esiste solo come oggetto dei tuoi desideri, del tuo istinto d’appropriazione, del tuo bisogno di primeggiare, ad una fase dove l’altro è una persona come te.

In dialogo con te.

Dove esiste la reciprocità e il dono.

A questo cambiamento epocale erano interessate le industrie americane che finanziavano il progetto e lei ne era il direttore. Il rispetto dell’altro avrebbe portato lucro e ricchezza per tutti perché sarebbero sorti nuovi modelli di comportamento e di giustizia. Attraverso la reciprocità, un vantaggio scambievole, si sarebbe finalmente risolto il problema della distribuzione dei beni su scala mondiale così da estinguere la fame nel mondo. Tutti i paesi avrebbero avuto gli stessi diritti e doveri, le stesse possibilità di istruirsi e di curarsi dalle malattie che li opprimevano. Sarebbe venuta meno la guerra come strumento per risolvere le contraddizioni. Parlare, spiegarsi, capire le ragioni dell’altro sarebbe stato sufficiente. In Italia si sarebbe finalmente costruito uno schieramento di sinistra forte, con capacità di dialogare e intendere le ragioni della destra, facendosene portatore all’interno delle proprie scelte. Le Chiese in dialogo avrebbero riconosciuto che Dio è lo stesso in tutte le religioni. La Chiesa Cattolica avrebbe rinnegato l’inferno ed esteso il perdono totale anche all’aldilà. L’istinto di morte avrebbe fatto parte dell’istinto di vita, l’essere del non-essere, l’inerzia del movimento, l’attività fatta di tante piccole pause. Gli opposti sarebbero stati in costante rapporto.Un pensiero relazionale avrebbe schiuso più ampi orizzonti. La mente unilaterale sarebbe caduta in disuso perché inutile, saremmo stati capaci di avvicinarsi alla molteplice diversità del reale. Alla comprensione e al rispetto della diversità. Ci saremmo avvicinati alla complessità della vita.

 

 

Il delirio è una favola agita.

Il malato diventa un filosofo che vive il sistema che ha elaborato.

Il mio era un’utopia bellissima da vivere che, sono sicura, molto miei amici potrebbero condividere senza bisogno di diventare matti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19.  tutto il mondo diventava un’immensa città in festa ed operosa

 

 

 

Lei era in possesso delle due culture e avrebbe potuto dirigere il passaggio da una all’altra.

 

Io potevo partecipare perché rifiutavo questa cultura e avevo bisogno dell’altra per sopravvivere.

 

Ma non ero solo io a partecipare al progetto.

Tutti erano chiamati e tutti gli eletti.

 

Era in atto un processo di rieducazione mondiale che era anche un processo di terapia.

Una specie d’ Istruzione Programmata gigantesca.

 

Si aveva bisogno di persone totali perché il progetto si realizzasse, persone in cui la sensibilità, l’intelligenza e gli affetti fossero integrati.

 

Andavo per le strade, nei locali e vedevo che tutti partecipavano, intervenivano l’uno con l’altro, si suggerivano, si correggevano.

 

La mia era diventata una città in festa e operosa.

 

 

Ero entrata in un bar che avevano già rifatto secondo la nuova cultura. Questo bar era una nicchia ispirata ad un organo femminile: l’utero, la vagina e le piccole e grandi labbra erano state disegnate con grande amore.

 

Si stava bene lì dentro come in un posto amico.

Era stato progettato da qualcuno che amava le donne nella loro diversità.

 

Una casa di cui si poteva fare dono a qualcuno amato.

 

 

 

In questo bar, vivendo quell’atmosfera, gli uomini avrebbero potuto riscoprire la loro parte femminile e creativa, lasciando così a poco a poco cadere questo obbligo tremendo di essere sempre dominatori ed efficienti.

 

 

I mass media si erano impadroniti dell’idea e i telegiornali e i film che vedevo alla sera lo testimoniavano.

I quotidiani, le riviste, i manifesti per le strade, le vetrine dei negozi erano state riprogrammate.

 

Le possibilità immense, che la partecipazione dei mass media apriva, velocizzavano la realizzazione del progetto e lo rendevano possibile.

 

Tutti i programmi della radio e della televisione erano rivisti automaticamente secondo la nuova cultura.

 

Alla sera assistevo ai film come si legge un sogno, attenta al contenuto manifesto, ma ancora di più al loro contenuto nascosto.

In genere il rapporto tra i due era comico e me ne ridevo allegramente.

 

Era però un’attività che mi sfiniva e da cui non potevo liberarmi.

 

 

 

Ero certamente più matta che nelle altre crisi per la bassa dose di medicine, il delirio era più esteso, un universo infinito che non avevo mai visto, ma io mi divertivo immensamente.

 

A parte i momenti in cui ricadevo in me.

 

Allora l’angoscia era più forte che nelle altre crisi.

 

Il panico mi immobilizzava come intontita da un colpo in testa.

 

 

 

 

 

 

 

XX  raggiunto un acme, il delirio si attenua

 

 

 

 

 

 

Rapidamente lei è diventato una figura di secondo piano.

 

Aveva il merito di aver elaborato il progetto e dato avvio al suo inizio.

Lei aveva capito l’importanza di quello che stava succedendo nella gente, i loro bisogni, anche non espressi, a partire dai quali era nata la sua idea.

 

Tutti erano, chi più chi meno, insofferenti di questa Cultura.

 

E lei era stato in grado di captare questi bisogni diffusi.

 

Aveva poi trovato i canali giusti per passare tutto al governo degli Stati Uniti, a tecnici esperti e con possibilità illimitate.

 

 

 

A questo punto lei aveva lo stesso ruolo che avevo io.

 

Capiva, sapeva e partecipava, ma non aveva più ruolo direttivo di me, era uno dei tanti proprio come me.

L’onnipotenza si era spostata lontano e aveva una funzione di appoggio.

 

Adesso lei remava da marinaio come me.

 

Il mio Capitano era morto là sul ponte.

Vicino ormai era il porto.

 

Il pericolo tremendo era terminato.

Il nostro viaggio quasi concluso.

La mia mente quasi salva come la nave all’ancora nel porto.

 

 

La sua morte era la morte della mia onnipotenza.

 

Avevo solo bisogno di un tu umano, il mio terapeuta, così com’era, per non sentirmi sola nella lotta.

 

 

Avevo bisogno di un accoglimento che mi stringesse come in un abbraccio.

 

E ridevamo insieme, come nella terapia non era mai stato possibile.

Non ricordavo di aver riso una volta.

O di averla vista ridere.

Forse ricordavo male.

 

I giochi di parole, la velocità di pensiero, le immagini ricevute e rimandate, la divertivano.

 

Il mio amore per lei non la disturbava.

 

Me lo lasciava vivere, nelle sue felicità e nei suoi tormenti, come fosse un problema che riguardasse me sola e di cui avrei potuto venire a capo.

 

La fiducia che aveva in me costituiva il centro del mio essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXI  un’illuminazione fortissima alla fine del delirio mi ha permesso di unire il mio io attuale a quello della pazzia

 

 

 

 

 

Quando il delirio è passato, sono rimasta allucinata per molti giorni.

 

Come una luce fortissima mi colpisse.

Vedevo solo quella luce che mi impediva di vedere altro.

 

Allucinata a pensare quanto ero stata matta: in questo modo non l’avevo mai visto.

 

E sapere che ero io, sempre e solo io, prima durante e dopo.

 

E’ difficile trasmettere quest’esperienza, è un’illuminazione che abbaglia.

 

 

Vedevo anche che una parte sana e protettiva era sempre esistita anche nella pazzia.

 

Il delirio è una forma di sciopero, ma solo apparentemente.

In realtà è un doposcuola per recuperarsi.

 

Questa volta era stato più terribile delle altre volte perché avevo una parte sana che m’ incalzava e non mi dava tregua.

 

 

 

 

Mi sorge l’immagine di un sogno: era lei, proprio lei, il mio terapeuta, una luce buia, quasi di notte, e trascinava a piedi, con una corda che teneva sulla spalla, lo scheletro enorme di una nave, la portava al macero.

 

Trascinava la mia parte malata?

 

Da allora non sono più impazzita.

 

 

 

 

 

Ma questo delirio mi è servito a capire che io esistevo.

 

Ero io.

Ed esistevo proprio io, non un altro, io chiara

 

 

 

Nel ricordo, sia mio padre che mia madre mi comunicavano che non potevo esistere.

 

Mio padre desiderava un maschio perché continuasse la ditta per la terza generazione, da bambina ero sempre vestita da maschio.

 

Non tollerava che fossi colta e così mia madre.

“ Con una che ha fatto filosofia non si può parlare”.

 

Il senso di fondo era un profondo disprezzo per chi non sa guadagnare soldi, fare affari e in più blatera cose inutili che nessuno capisce.

 

Forse non era neanche questo, ero troppo diversa da loro, anche se oggi so che mi volevano molto bene e mi accettavano anche troppo dal loro punto di vista.

 

 

 

Nel sogno di luglio lei mi chiede insistentemente perché non posso staccarmi da mia sorella e da Mario…rispondo che in assenza di funzioni genitoriali…

 

Dopo mia mamma e mio papà rimanevano loro a cui, per necessità, per bisogno di protezione, attribuivo un ruolo che non mi permetteva di esistere, essere io,  una persona a tutti gli effetti.

 

Non potevo rinunciare ad una famiglia che stesse sopra di me invece che accanto.

 

 

In questa crisi ho potuto vivere questa lacerazione.

 

Il poter lottare da sola e insieme a lei, il mio terapeuta, mi ha permesso di vedere che la mia vita dipendeva solo da me, e dalle persone che io stessa avevo scelto.

 

Mi ha permesso di vedere che io stessa ero in grado di proteggermi.

 

 

Allora, lei, nel sogno della nave, porta via lo scheletro di una simbiosi che era diventata inutile.

 

 

 

Il delirio nasceva così dai miei rapporti attuali.

 

 

Ma c’era anche un’origine infantile: la storia antica con il mezzadro.

 

 

 

 

XXII   una storia infantile che si è poi ripresentata nei vari deliri

 

 

 

 

 

Quando andavo ancora all’asilo, i miei genitori – ritenendomi troppo piccola – avevo quattro anni – non mi avevano portato nel viaggio d’affari che facevano tutte le estati.

Mi avevano lasciato in campagna affidata ai mezzadri.

 

Lì stavo molto bene, mi lasciavano camminare scalza, potevo andare a piedi nudi sulla terra e bagnare i fiori con il tubo di gomma, guardare tutto quello che facevano i dipendenti, giocare con loro e divertirmi come a casa non era possibile.

 

Al pomeriggio la figlia del mezzadro mi faceva riposare un po’.

 

Un giorno, passando nel corridoio, da sola, mentre mi avviavo alla mia camera, il padre, che era in camera sua, mi ha invitato a riposare con lui.

 

Era un omone grande e grosso, più o meno dell’età di mio padre e molto rispettato in casa.

La sua autorità era indiscussa.

 

All’estate avevo l’abitudine di  dormire in mezzo ai miei.

Non lo avevo trovato strano.

Avevo obbedito.

 

Quest’uomo, di cui ricordo bene il nome, era sempre molto affettuoso con me, mi prendeva in braccio e mi faceva giocare.

 

Quel giorno, mettendomi sotto il lenzuolo, ho visto che aveva la parte di sotto scoperta e questo mi aveva fatto sentire subito una certa eccitazione e una grande curiosità.

 

 

La figlia, entrando per riporre qualcosa nei cassetti, mi ha chiesto se volevo andare nell’altra camera e ho risposto di no.

 

Quando è uscita, si è girato verso di me e mi toccava tra le gambe con il suo membro.

Non mi faceva male.

 

Sentivo adesso una grande eccitazione di tutta la situazione.

 

Mi ha preso tra le braccia sopra di sé e mi ha detto contento : “ Ah, sei eccitata!”.

 

 

Dopo non ricordo più niente.

 

C’è un buio completo nella mia mente che nessuna analisi è riuscita a sollevare.

 

Non so cosa sia successo.

 

E’ abbastanza strano perché la mia mente non funziona per blocchi neri.

 

 

In seguito, l’ho dimenticato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIII  la depressione dei dodici anni

 

 

 

 

 

 

Mi è tornato in mente in seconda media, ascoltando la mia insegnante, una suora, che parlava di purezza.

 

L’idea che aveva era pazzesca anche per me.

 

Bisognava farsi il bagno vestiti per non avere contatto con il nostro corpo.

Dovevamo sedersi su sedie sempre molto dure per mortificarlo.

Era peccato anche guardare un ragazzo.

 

 

Quello che era successo da bambina mi è allora apparso in una luce terribile, da incubo.

 

Ero colpevole di qualcosa innominabile, l’inferno era lì spalancato sotto di me per afferrarmi

La mia vergogna non aveva limiti.

La terra avrebbe dovuto inghiottirmi.

 

Non potevo parlarne con nessuno, e mai l’ho fatto in seguito, neanche con il mio confessore.

Così andavo alla messa, facevo la comunione, in stato di sacrilegio.

 

Vivevo una doppia vita, la ragazza buona, stimata dalla suora, ed io che sapevo di essere un tizzone d’inferno.

 

Avevo avuto la possibilità di sottrarmi e non l’avevo fatto.

 

Avrei potuto alzarmi e non l’avevo fatto.

L’eccitazione e la curiosità erano state più forti.

 

 

 

 

 

 

La vergogna era così terribile perché io non potevo capire che ero molto piccola, in un’epoca in cui ancora non si sa cosa è permesso e proibito.

 

E poi, io non avevo nessuno che mi insegnasse qualcosa.

Le ragazze in casa erano troppo giovani per farlo, né avrebbero potuto assumersi il compito di educarmi.

 

Abituata com’ero a gestirmi da sola, ero stata un’adulta in miniatura molto presto.

E a quella piccola bambina attribuivo la responsabilità di una persona grande come avevo per tante altre cose.

 

Questa cecità ha incollato il sentimento della vergogna nel mio essere.

 

In seguito, su questa vergogna abissale, si è appiccicata la vergogna di essere una malata mentale.

 

Lo stigma era mio, prima ancora che degli altri.

 

Era una vergogna e unacolpa che toglievano il diritto di esistenza.

 

Mi avevano lasciato in vita per espiare.

 

 

 

 

 

XXIV  si origina una parte mia in cui sono autogenerata

 

 

 

Si era formata una parte segreta dove esistevo solo io e il dolore di essere nera come la pece.

 

Un’area nella quale non dipendevo da nessuno e dove non ci volevo nessuno.

 

Un territorio buio che mi costituiva un’identità racchiusa in una nicchia.

Che non partecipava alla vita degli altri e che non poteva evolversi.

 

Dove la memoria era eterna.

 

Una memoria cui non potevo accedere senza sentirmi male, ma che ritornava insistentemente.

 

Una parte della mia mente dove ero assolutamente sola.

 

 

 

“La forza non può risorgere se non si ritira nella grande oscurità. Spogliare forma, rivestire forma, questo avviene nell’attimo del puro nulla” ( Buber, I racconti dei Chassidim)

 

Una forza dentro di me mi spingeva a spogliarmi dell’immagine di ragazza capace e intelligente.

Ero un bruco che non era più capace di sognare il suo destino di farfalla.

 

Nei periodi di trapasso c’è un attimo in cui non siamo più quello che eravamo e non siamo ancora quello che saremo.

 

Un attimo di panico in cui ci sentiamo librati nel nulla ed esposti senza pelle.

 

Con la vecchia forma cadeva anche quella ragazza eccessivamente dipendente dal giudizio e dall’ammirazione degli altri.

Quest’area limitava il mio rapporto simbiotico col mondo.

Ma rinascevo come chi poteva non dipendere da nessuno.

 

Anche se continuavo ad essere dipendente nell’apparenza, come uno stipo che avesse un doppio fondo segreto.

 

Al di sotto della mia fragilità, avevo una parte dura.

Dove mi costituivo come colpevole e come vittima.

 

Una parte che, nella crisi dei sedici anni, si è cementata fino a diventare granito.

 

Questa parte segreta è forse quella che mi ha permesso di essere sola nella malattia e di superarla, anche se, nello stesso tempo, è stato difficilissimo liberarmi di lei, una pietra che mi impediva di sentire lo scorrere caldo e invitante della vita.

 

 

 

 

 

XXV   se l’illimitato diventa esperienza quotidiana

 

 

 

La perdita di Dio e l’esperienza del nulla mi avevano portato a costituire me stessa  come infinito.

 

Erano i contorni della realtà, dove tutto ha un inizio e una fine, che non potevo sopportare.

Dove i bisogni, una volta soddisfatti, svanivano.

Dove si acquistava per perdere e per ritrovarsi.

 

Ma io non potevo perdere nulla, perché ogni perdita apriva una voragine buia dove precipitavo.

Solo l’infinito mi permetteva una continuità dell’essere.

Una continuità solo fantasticata, ma cui mi aggrappavo come all’unica àncora rimasta.

 

Fantasticare dipendeva da me e questa attività della mia mente, sviluppata all’eccesso, mi permetteva di vivere avvoltolata in un mondo solo mio che non mi disturbava.

 

Era l’unica pelle che avevo.

 

E senza pelle non si può vivere.

 

Una me stessa che aveva eliminato il piacere perché il piacere finisce e io non potevo sopportare la più piccola frustrazione.

 

Che non aveva bisogno di nessuno perché poteva alimentarsi da sola.

O, piuttosto, che doveva alimentarsi da sola.

 

Non poteva arrischiarsi all’incontro con un altro.

 

Questa parte non aveva un tu in cui rispecchiarsi e viveva pertanto nell’eterno.

 

Più precisamente, forse, avevo eliminato i bisogni perché, solo lasciandoli perennemente insoddisfatti, si poteva raggiungere la dimensione dell’illimitato.

 

 

E’ difficile dare l’idea di questo processo perché, mossi alcuni passi, tutti gli altri pezzi si incastrano come per necessità.

 

Questa necessità è l’istinto di sopravvivenza che ti guida nella costruzione di un castello, perché, se non fai così, muori.

 

Il ponte levatoio sempre sollevato perché sei così fragile che chiunque, con il suo fiato leggero, ti può uccidere.

 

Non fidarsi di nessuno diventa una legge assoluta.

Nello stesso tempo nasce il bisogno di trovare qualcuno cui consegnare tutto il pacchetto perché se la sbrighi lui.

Tu non ce la fai a reggerlo.

 

Ma sai che questo qualcuno può essere solo Dio e Dio non c’è.

 

XXVI  il dolore diventa l’unica costante attorno a cui organizzarsi

 

 

 

E’ stato molto difficile liberarmi nella terapia di questo ruolo di vittima a vita.

Un inverno perenne dove non nasceva mai la primavera.

 

Una serietà precoce che non ammetteva giochi, scherzi, divertimenti.

Come un lutto perenne che non ha mai fine.

 

Una me stessa che non si dava il diritto di avere piacere perché la vita si prospettava come un’infinita espiazione.

 

Il ruolo di vittima era l’unico che mi costituiva un’identità e l’unico che serviva a spiegare le mie sofferenze.

Che mi permetteva di sopportarle e di coccolarle.

 

Quando avevo perso tutto, mi ero riorganizzata intorno al dolore, unica cosa che era rimasta.

Una costante che mi aveva fornito un salvagente.

 

Tutto il mio essere, abbastanza sfracellato, si era rimesso insieme attorno a questa unica realtà come fosse la mia anima.

 

Per questo non potevo rinunciarci, era l’unica bussola che avevo in tasca.

 

Nella terapia ci sono voluti molti anni per  poter abbandonare questa sicurezza e accettare di vedere la primavera.

 

E’ stata necessaria una nuova nascita che ha dissipato quel velo grigio che avevo sparso sulla realtà.

 

E allora mi sono stupita che potesse essere così brillante.

 

Mi sono meravigliata di poter cogliere quell’attimo di bellezza ed esserne felice.

Di potermene distrarre, perché avevo acquisito la certezza che in un altro momento del giorno avrei potuto goderne altri.

 

Quella rigidezza che sentivo in me si era sciolta e mi sentivo quasi liquida così come, nel suo scorrere continuo, mi pareva la realtà.

 

 

 

 

XXVII  per allontanarsi dall’illimitato ci sono voluti molti anni e molte esperienze, ma ho acquisito un’immagine di me stessa che vive nel tempo e nello spazio.

 

 

 

Ma ancora più difficile è stato scoprire la limitazione propria degli esseri vivi.

 

“Lei ha delle qualità, ma non vede che sono limitate”.

Questa frase del terapeuta era un insulto che mi bloccava.

 

Era subito letta come non avessi nessuna qualità.

 

L’illimitato è una brutta bestia e chi si avventura in queste regioni di pietra, dove il sangue non scorre perché la vita è assente, impiega secoli per liberarsene.

 

E’ senz’altro la parte che più resiste alla terapia.

 

A me ci sono voluti più di vent’anni, e tutta una serie di esperienze, nella terapia e fuori, una serie di gradini, che devono essere acquisiti, prima di poterla smantellare.

 

Ammesso che l’abbia potuto fare completamente.

E questo non lo so, perché questa parte ci rimane nascosta.

 

Ho dovuto acquisire una sicurezza nella realtà.

Mi avventuravo e poi ritornavo.

Per molto tempo  ho avuto come due pedali, vedevo le limitazioni, ma avevo bisogno dell’illimitato.

La mia immagine era ancora, per buona parte, evanescente.

 

Adesso, a quasi sessant’anni, mi vedo.

Non solo nel mio perimetro ben definito.

 

Ma mi vedo come dall’alto.

 

Mi vedo esistere, con un corpo e una mente, un’unità che non distingue queste parti.

 

Un corpo e una mente già vecchi che si avviano ad una fine.

 

Mi vedo nel mondo, in un paesaggio, e con altre persone che lo percorrono.

 

Ho un territorio dove sono circondata di affetti che mi alimentano e mi rassicurano.

Dove posso avere dei bisogni che vengono soddisfatti e che possono risorgere.

 

Ho imparato un poco a chiudere quella bocca che si era spalancata sul mondo.

 

Kafka racconta nei “Diari” che gli sembrava che dentro di lui ci fosse un altro uomo, che sporgesse dalla sua gola la testa e il collo, e che implorasse qualcosa da bere.

 

Questo lupo, che era in me, si è come addormentato e lascia passare gli alimenti.

 

Acquisire un territorio mio che non riattualizza il passato, ma vive nel presente, e si proietta nel futuro, è stato fondamentale.

 

Aver resistito a quella forza che mi spingeva allo sfascio nell’ultima crisi, ed essermi ricostruita, mi ha dato una nuova immagine di me stessa dove la luce è più forte delle ombre.

 

Questa mi ha fornito la sicurezza di continuare a camminare in vista di altre acquisizioni.

 

Non aver mai potuto perdere nulla ha mostrato di avere un suo risvolto positivo perché mi ha permesso di tenere legami lontani nel tempo e nello spazio.

Mi sono così ritrovata in una rete di affetti come un bambino in un girello cui si appoggia per camminare sicuro.

 

Una fiducia irrazionale di potermi costruire una vecchiaia serena, mi ha spronato.

 

 

 

Arrivata qui, 10 maggio 2013

 

 

 

 

 

 

XXVIII  come conseguenza dell’episodio del mezzadro cambia il modo di vedere mio padre

 

 

 

 

 

 

Ma l’episodio del mezzadro, riscoperto a dodici anni, ha avuto anche altre conseguenze.

 

Mi è arrivata addosso una depressione che mi è durata mesi, la prima di una lunga serie…

 

In quello stesso anno è cambiato il modo di vedere mio padre.

 

Ero sempre stata la sua preferita, ero la piccola della casa, la sua innamoratina.

Mi sembrava meraviglioso.

Sempre allegro e affettuoso.

Era l’unico che scherzava e aveva il senso dell’umorismo.

 

Improvvisamente, come si fosse tolto un velo, vedevo mio padre debole, succube di mia madre, impotente a risponderle quando gli rimproverava i suoi errori sul lavoro.

 

Orribile quando le rispondeva con violenza e insulti.

Ancora più mostruoso quando, ad un intervento di mia sorella nel mezzo della scena, si toglieva la cinghia, la rincorreva per tutta la casa e la picchiava.

 

Nel ricordo, queste scene erano quotidiane, anche se mi sembra impossibile.

 

Mentre accadeva questo, io vivevo con l’orecchio incollato alla radio, avevo un posto sopra una credenza dove mi rannicchiavo, ascoltando attentamente, nella speranza di estraniarmi del tutto, immersa nella musica.

 

 

Questa delusione di mio padre mi lasciava senza una figura di riferimento, perché mi era impossibile volgermi verso mia madre o mia sorella.

Una era troppo terribile e l’altra troppo vittima.

Mia sorella era  sistematicamente picchiata da mio padre e da mia madre.

 

 

 

Sono rimasta come sospesa, in balia delle molteplici identificazioni esterne.

 

Mi sono allontanata troppo presto dal cerchio delle mura di casa e senza un’idea di protezione, perché questa non si acquista da soli, ti deve essere data.

Ti  ci devi impregnare nel vedere che altri ti proteggono, per poi poterlo fare da sola.

Solo nella terapia ho potuto, faticosamente, acquisirla.

 

 

 

Della storia del mezzadro mi era rimasto nella testa un fatto preciso e concreto con il quale non riuscivo a stabilire un legame.

 

Non si poteva né eliminarlo né attribuirgli un significato.

Si era perso il nesso.

E questo fatto rimaneva lì inerte.

Un fatto-pietra che non si poteva assimilare, solo tenerlo non digerito o espellerlo.

E quella mia parte che lo racchiudeva  a poco a poco era diventata una pietra.

 

Perché la pietra “ non dà suoni, né cristalli, né fuoco, ma arene e arene e altre arene senza muri”

( Garcia Lorca).

 

E anche quella pietra ero io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIX   nel terapeuta vedevo una figura di padre confusa con una figura seduttiva

 

 

 

 

 

 

Questa storia me la ritrovavo nella terapia, anche quando non era nominata.

 

Il terapeuta diventava presto un personaggio cui offrirsi per un rapporto amoroso, con l’inconscia speranza di ricevere un rotondo “no”.

 

Quello di cui sentivo il bisogno, non molto cosciente per la verità, era di marcare un limite perché nella mia fantasia era stato infranto.

 

La mancanza di questo limite era la mancanza di un muro attorno cui cementarmi.

Era la mancanza di un’idea di padre.

 

L’impulso era ripetere un antico trauma per verificare che i confini si erano sfaldati del tutto.

E nello stesso tempo rifarli più forti e per sempre.

 

Per essere liberata dal panico di una forma senza pareti attorno.

Senza leggi che la demarchino e  che conferiscano alla persona il diritto di esistere.

 

 

Il mezzadro è una figura legata per contratto a filo doppio con il padrone. Inoltre ero io che accompagnavo sempre mio padre in campagna e vedevo i loro rapporti di scambio e di amicizia.

Erano anche molto simili fisicamente, entrambi alti e robusti, scuri di capelli, quei tipi di persone che una volta si chiamavano “sanguigni”.

 

Era, forse, inevitabile che il mio inconscio li sovrapponesse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXX  Quest’inghippo succedeva puntualmente in tutte le terapie.

Tento di dire qualcosa del mio delirio.

 

 

 

 

 

 

L’incertezza del terapeuta nel maneggiare questa difficile situazione, ammesso che ne avesse i dati, era da me interpretata come cedimento alle mie offerte.

 

Questa lettura aumentava la mia angoscia.

 

Il panico di infilarsi in una voragine buia che mi avrebbe obbligata a troncare i miei rapporti attuali.

 

Questi mi offrivano sicurezza e protezione, anche se non l’amore che pretendevo.

 

Da un lato stava un tu amato, che mi rendeva possibile un rapporto reciproco (così io fantasticavo) che, però, stranamente mi suscitava panico, dall’altro la protezione e la sicurezza.

 

La contraddizione era incomponibile, ancora più incomponibile perché era solo nella mia testa.

 

 

Il delirio intrecciava, così, strettamente, i miei rapporti attuali ad antiche situazioni che non ero riuscita ad elaborare.

 

Questo a me sembra il nucleo del mio delirio, intorno al quale, come in un citoplasma ricco di organelli con vita e funzioni autonome, si sviluppavano tutta una serie di vivenze legate a sentimenti e concezioni del mio mondo attuale, vivo e concreto.

 

Il terapeuta di cui mi credevo innamorata rappresentava una vero sentimento, ma era anche un pretesto per riattualizzare una storia con mio padre irrisolta, nella quale avevo, prima di tutto, bisogno di discriminare la sua figura da quella del mezzadro e, secondariamente, formarmi un’idea di padre, senza la quale, sentivo la mia identità sfaldata.

Per questo ho parlato di un duplice movimento che dal presente si rivolgeva al passato e dal passato andava al presente.

Tutto questo, però, avveniva al di fuori della mia coscienza per cui non ero in grado di verbalizzarlo né di aiutare il terapeuta.

 

 

Ma il delirio non era solo questo nucleo: per rimanere nell’immagine che ho usato c’era un ampio citolasma articolato in una visione del mondo.

 

Vorrei che un poeta dicesse, per me, prima di dire io le mie povere cose, qualcosa della persona che, ad un certo punto della sua vita, entra in delirio, perché questa non sarà mai qualcuno che vede una stella cadente senza formulare un desiderio, non solo, tutta la sua vita è desiderio: è questo che la confonde e la rende inabile a vivere nella realtà.

 

La persona che può entrare in delirio, a me pare, non ha bisogni perché questi fanno parte della realtà e possono essere soddisfatti, e quindi svanire (così mi ha insegnato il terapeuta), ma solo desideri, che, invece, sono illimitati ed è di questi che si alimenta: sfiora appena la realtà per intravvederne subito un’altra più luminosa, un altro cielo sorge sempre con nuove stelle ancora più attaenti.

Anche se è solo di me che posso parlare.

 

 

“Come se cadesse una stella filante, e nessuno la vedesse, nessuno avesse formulato un desiderio. Non dimenticare mai di formulare un desiderio, Malte. Mai rinunciare ai desideri. Io credo che non ci siano adempimenti, ma desideri che durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento” (Rilke)

 

 

 

Dal racconto dettagliato del suo contenuto, che ho già fatto nei capitoli precedenti, si vede che il delirio è fatto di desideri straordinari insoddisfatti : “ amarsi, essere trattati come persone, dei fini non dei mezzi, sarebbe stato normale” : solo questo, tra le tante cose che sognavo, nella nostra società sarebbe straordinario, ma era, prima di tutto, straordinario, per la mia storia di “pacchetto”, di persona che per ”semplificare” aveva sempre preferito omettersi fin dall’infanzia. Mia madre, già avanti negli anni, raccontava, ancora stupita, che, in campagna, piccolissima, mi ero allontanata su un prato per fare pipì senza rivolgermi a lei per chiederle aiuto.

 

Come ho raccontato, molto presto, ero stata profondamente turbata dalle ineguaglianze sociali, attorno a me, soprattutto, e a livello mondiale, e questo mi aveva portato a identificarmi con partiti riformisti di sinistra. Anche su questo fronte, le frustrazioni non erano state da poco e anche qui avevo bisogno di avere il diritto di sognare accordatomi dal delirio.

 

La mia testa, inoltre, era insoddisfatta di un modo di pensare, che era prima di tutto mio, ma anche di altri, e che tendeva a separare piuttosto che stabilire una rete, delle relazioni tra fenomeni che appaiono opposti e irrelati; chiamavo tutto questo “ mente unilaterale” senza sapere dove l’avessi preso: il delirio mi faceva vedere un mondo che era un organismo vivente con tutto quello che questo significa.

 

Tutta questa costruzione aveva un fuoco che la alimentava ed era la passione per il terapeuta le cui ragioni capisco e non capisco, oppure in parte capisco, ma vorrei poterne ragionare.

 

Quello che capisco bene è che lui era uno schermo su cui proiettavo un film già girato in tutti i suoi dettagli tanto tempo prima e che aveva bisogno di un finale.

Questo è avvenuto nell’ultima crisi e questa antica storia si è quietata.

 

Mi è anche chiaro che mi aveva permesso di uscire da un tunnel di pietra, dove c’ero solo io, e che io mi ero innamorata della reciprocità.

 

Ma perché scartare a tutti i costi che anche la sua persona, realisticamente, potesse essere amata? E’ possibile immaginare che un paziente vaneggi tutto il tempo?

DIRE COSA: la capacità di ricercare, ma non mi chiedevo se questa persona mi piaceva, ne avevo bisogno vitale e quello che non mi andava finiva in uno scantinato.

 

Forse anche il terapeuta non aveva sempre lavorato con il distacco necessario, anche se lo elogiavo per saper lavorare “ a basse temperature”, ma si può stare con una persona, aiutarla, con un bilancino in mano?

 

Allora ero innamorata, ma è solo adesso, che ho perso il conto degli anni che ci conosciamo, e che sono ritornata per una serie di sedute, che sento di volergli bene, in maniera amichevole, garbata e attenta.

Cosa ci può essere più dell’amore tra due persone ? – si chiede Pavese nel Diario – E’ “ carità”, è accettazione dei gesti dell’altro come dei propri…è accettazione della morte dell’altro come della propria…

 

 

 

 

 

 

XXXI   nella mania rinasceva un’immagine grandiosa di me stessa

 

 

 

 

 

Un’altra conseguenza di questa storia con il mezzadro, era che la mia possibilità di volermi bene, di accettarmi, di sviluppare al meglio le mie capacità, quello che si chiama comunemente il narcisismo di una persona, il cui unico approvviggionatore era mio padre, era venuta meno in seconda media, mentre io avevo distrutto la mia capacità di fabbricarmelo.

 

Inoltre, coperta com’ero di vergogna dalla testa ai piedi, umiliata, non ero stata in grado di trovare, fuori della famiglia, qualcuno che potesse sostituirlo.

 

Quella mia immagine di bambina idolatrata era stata sepolta, non aveva potuto evolversi, e veniva fuori nella terapia con tutta la sua violenza e la sua pretesa di amore incondizionato e di ammirazione.

 

Purtroppo nessun terapeuta aveva potuto riconoscere che si trattava di una bambina che aveva bisogno solo di crescere ed invece veniva respinta.

 

L’immagine grandiosa di questa bambina rinasceva così puntualmente nella mania e nel delirio, ed io ero presa dalla sua meraviglia.

 

 

 

La strada che il terapeuta ha ritenuto di seguire perché io imparassi a sviluppare le mie capacità è stata molto difficile, molto tortuosa e infinitamente lunga, anche se le poche parole che troverò per raccontarlo non renderanno quello che ha significato.

 

Non potevo aspettarmi da lui elogi di sorta, ma trovarli fuori nella realtà.

Se uno non muore prima, è sicuramente la strada giusta, la più solida, perché uno impara a trovare le persone che gli offronto un sostegno affettivo e, anche, in mancanza di queste, a procurarselo da solo.

Bisogna però poter lavorare anni e anni senza alcun incentivo, e mentre ti senti nella melma, e non vedi a mezzo passo dal tuo naso.

 

La possibilità di formarmi un’immagine gradevole e intera di me stessa è forse stato ancora più difficile: questa possibilità è legata per me alla risoluzione della mia ultima crisi, di cui parlo in seguito, anche se è un lavoro sempre “in fieri”.

 

L’enorme difficoltà, per me, era passare da un’immagine esclusivamente fantasticata, meravigliosa o terribile, ad una sufficientemente realistica.

 

Questo obiettivo credo sia stato abbastanza raggiunto, anche se, a volte, vorrei potermi considerare con un po’ più di entusiasmo.

Forse la realtà mi sta sempre un po’ stretta, o forse anche il tono un po’ depressivo che a volte sento è dovuto al sentirmi preoccupata per mia figlia Francesca che, come molti ragazzi di oggi, sembra avere enormi difficoltà a crescere. E’ stata una bambina piena di vita e, oggi, che ha vent’anni, sembra non aver voglia di niente.

 

 

 

 

 

XXXII   alla fine del delirio ho sentito molta violenza, ma mi sono accorta di aver mantenuto una pazzia privata e di non aver spezzato i legami

 

 

 

 

 

Il delirio, anche quando se ne va, rimane lì pronto per i momenti difficili.

 

Ero andata in clinica per il prelievo del litio e una visita cardiologia.

 

Era la clinica dove ero stata internata la prima volta.

E dove è morta mia madre.

 

Uno spazio carico di angoscia stratificata.

 

 

Mi guardavo intorno in cerca di telecamere e dovevo ripetermi, come una lezione da mandare a memoria, più e più volte, che qui non c’era nessuna telecamera che mi filmava, potevo fare e dire quello che volevo, non mi vedevano, non mi controllavano.

 

In treno, guardando fuori dal finestrino, mi ero accorta che la realtà può essere gratificante e splendente come nel delirio.

Era una realtà carica di affettività, un’energia in più che la rendeva brillante e perfetta.

 

Nel delirio, o nei momenti immediatamente successivi, la percezione della realtà è più “ricca”, proprio come nei sogni.

 

Vorrei non aver dovuto perdere questo tipo di sguardo.

 

 

 

 

Era come se la mia mente fosse rimasta traumatizzata  e ci volesse un tempo lungo per rimettermi.

 

Nei due giorni che sono seguiti alla sparizione del delirio, avevo la sensazione di avere dentro di me una violenza inaudita… non veniva fuori affatto come violenza, ma nel dire le cose quotidiane, nel mio comportamento… sentivo un’ eco che mi spaventava. Non è facile comunicare questo rumore.

 

Questa crisi, la sofferenza – questa sì inaudita – di vivere continuamente in uno stato di panico e non poter far niente.

 

Questa traumatizzazione dei miei tessuti mentali, mi aveva lasciato dentro questa violenza.

Come la mia fosse stata un’ “impossibile” frustrazione.

 

Una notte avevo bruciato il lenzuolo con una sigaretta… incendiato il cestino buttando una sigaretta accesa…

 

 

 

 

 

A partire da una certa data ero andata al mare in vacanza a casa di mia sorella.

 

Erano tutti molto gentili.

Ogni tanto c’era chi mi parlava di persone interdette, di handicappati…ma col tempo – pensavo – riguadagnerò la faccia perduta o un po’ sgretolata.

 

Mi ero convinta di non aver fatto nessun danno perché in generale le persone non se ne erano accorte.

 

A Milano era stata a cena in casa di amici e, pur dovendo tradurre le loro parole nell’ideologia del delirio, un lavoro molto faticoso perché dovevo rispondere a loro e, contemporaneamente, all’ideologia del delirio, avevo potuto mantenere una pazzia privata.

Ero riuscita, anche se con fatica, a mantenere il senso comune della situazione.

 

I rapporti con la mia famiglia, a differenza che nelle altre crisi, si erano mantenuti uguali, costantemente affettuosi.

 

Questa volta non avevo rotto i legami.

 

 

 

 

 

 

XXXII   e il mio terapeuta?

 

 

 

 

 

 

 

Lei non era neanche un po’ preoccupato a lasciarmi andare sola per il mondo e in delirio?

 

Al mio ritorno – pensavo – mi troverà “rifatta”…

 

Si stupirà di come ho potuto vivere bene senza di lui.

Vedrò nei suoi occhi la contentezza di sapere che posso essere felice lontano da lui.

 

Quando se n’era andato per le ferie, ero impazzita.

 

Ma poi, come sempre avevo obbedito.

 

 

Come mi vedrà il Professore  dopo questa crisi? – mi chiedevo.

 

Ancora più stigmatizzata.

Lui che aveva creduto, tanto da regalarmela, in “ una mia parte sana e consistente…”

 

Sarà deluso?

 

Ma la mia parte sana aveva fatto miracoli, il successo del nostro viaggio era assicurato, una parte sana non può annullare la parte malata.

Può solo contenerla e l’aveva fatto.

 

Così pensavo io.

 

 

Forse ero troppo entusiasta.

Ma non avrei mai pensato di riuscirci.

 

Avevo evitato distruzioni, pur impazzendo, o forse è proprio impazzendo che le avevo evitate.

 

La mia parte sana, la parte protettiva della mia coscienza, il mio io, pur collassati, si erano comportati bene.

 

La fiducia che lui aveva riposto in me era stata un peso, ma anche un puntello.

 

Ma pensavo di avervi potuto rispondere.

Dentro le mie possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIV   il delirio si esprime anche in una forma gruppale in cui gli altri partecipano al delirio senza saperlo

 

 

 

 

 

In quest’ultimo delirio, le persone intorno a me ricreavano le figure del mio mondo interno come in un teatro.

 

Tutti quei personaggi che vediamo nel terapeuta senza accorgercene, erano adesso vivi e autonomi.

 

Anche in una seduta sono lì e partecipano delle  emozioni, ma sono tutte concentrate nella persona del terapeuta, nei suoi gesti, nelle sue espressioni, come quelle figure che si sovrappongono una all’altra nei sogni.

Il terapeuta è come una bambola russa, solo che si apre sull’infinito del nostro mondo interno.

 

Nel delirio, queste figure riprendono una loro autonomia di movimento e si spargono su tanti volti, su tanti gesti, tante espressioni e le vediamo reali.

 

Questo fatto documenta la frammentazione del mio mondo interno.

 

Mario, mio marito, era mia madre e mio padre, Francesca, mia figlia, era me stessa adulta e bambina.

Mia sorella e mio cognato, una coppia genitoriale cui affidarsi, ma nello stesso tempo, sottrarsi: a loro avevo nascosto il delirio.

 

Lei, il mio punto di riferimento, il mio Capitano, era rappresentato soprattutto da un’amica, “ una persona non esperta” perché lontanissima dalla psicoanalisi e dai problemi del mondo interno.

 

Forse per questo lei è rimasto ad un certo punto sullo sfondo.

Avevo bisogno di qualcuno concreto, un’immagine viva che mi stesse vicino.

 

La mia amica non era una buona ascoltatrice del delirio: mi stava a sentire qualche minuto, poi preferiva che cambiassi disco, mi riportassi alla realtà.

 

E questo lo sentivo come una violenza, anche se, a poco a poco, ho potuto servirmene.

 

 

 

Con mio marito e mia figlia il rapporto era più scoperto.

 

All’inizio credevo ci fosse un canovaccio cui si attenessero e  li accusavo di dire delle grandi stupidaggini.

 

Ma poi ho capito che loro erano normali.

Dicevano quello che passava loro per la testa, solo si sottoponevano ad una terapia per me e per loro, per aiutarmi ed aiutarsi (così fantasticavo).

C’era la lontana giurisdizione degli Stati Uniti, ma le persone si facevano terapia tra di loro.

 

In fondo non è così strano: le persone che abitano insieme si fanno in un certo senso una terapia di sostegno, una terapia buona quando sono in armonia.

 

Il delirio aggiunge significati inediti alle cose reali.

 

 

 

 

 

Nella seduta con lei e con lo psichiatra, voi eravate solo dei professionisti incaricati di fare una terapia a me.

 

Ero nella realtà, volevo utilizzare quanto potevate dirmi al massimo. Sapevo di essere malata. Avevo messo il delirio fra parentesi. Abbastanza tra parentesi, del tutto è impossibile.

 

 

27 LUGLIO 2013  forse arrivo oggi fin qui
10 agosto 2013 ore 16:24   da qui: (dal 35 p.63 a

XXXV   l’unico momento di requie dal delirio era la contemplazione delle case e ad essa ricorrevo quando il delirio diventava una vera e propria persecuzione

 

 

 

 

 

Ma la cosa più terribile che succedeva era che, dal momento che tutta la realtà che vivevo era avvolta dal delirio, ovunque mi facevano terapia.

 

Allora non avevo più un posto dove scappare: ad un certo momento il delirio diventava una tremenda persecuzione.

 

Non c’era un momento di pausa, di tregua, di respiro.

 

Allora guardavo le case, i bellissimi palazzi di Milano, il cielo, gli alberi silenziosi.

Una pura percezione senza parole che mi tranquillizzava.

 

Mi davano uno spazio mentale libero di cui avevo un estremo bisogno.

 

Anche se questo spazio non mi permetteva di pensare, ritrovavo la normalità delle percezioni.

 

Guardavo anche le macchine dalla mia finestra, ma a queste, a differenza della natura, annettevo un certo simbolismo che, alla fine mi stancava.

 

Solo la natura e le case erano esenti dal delirio.

 

 

 

Quando rientravo in me, il pericolo non era solo il panico, ma la depressione.

Una depressione cupa che parlava di suicidio e di morti che si riposano.

 

In questa crisi non c’era una distinzione netta tra mania e depressione come nelle altre.

 

In questi momenti mi sorgeva un grande amore per il mio terapeuta.

Una grande gratitudine, e questa era stata la mia salvezza.

 

Era una figura buona, o molto idealizzata, a seconda dei momenti, cui aggrapparmi.

 

 

 

 

 

Non che io non abbia pensato a suicidarmi.

Non ne potevo letteralmente più.

 

Mi sono avvicinata alla balaustra del terrazzo, però pensando: “Più che male dal secondo piano non potrò farmi”.

Ma non ho detto niente.

Nello stesso momento mia figlia era ferma davanti alla balaustra e mi ha guardato seria negli occhi.

 

Questo è bastato a farmi rientrare in me.

 

E’ stato un momento lungo di catarsi e l’ultimo atto del delirio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVI   a poco a poco, l’ideologia del delirio si organizza in un sistema, che si fa sempre più rigido, e a cui tutto deve sottostare, mentre la persona tende sempre più a voler fuggire come il personaggio del film “ The Truman Show”.

 

 

 

 

 

Mi sono domandata se nella pazzia avessi un pensiero incoerente, intendendo per coerenza solo una qualità formale interna.

 

L’impressione è il contrario, nonostante una grande labilità per cui scivolavo facilmente da un’idea all’altra.

 

Questo tipo di pensiero spontaneo, sciolto, è solo in parte simile ad uno che è in associazione libera, perché in realtà s’inserisce in un sistema rigido e ad esso deve continuamente sottostare.

 

Questo sistema rigido è l’ideologia del delirio.

 

Quello che fa star così male è essere incassati, murati vivi in una pietra che ci sovrasta, ci circonda da tutte le parti, non c’è vuoto, non c’è spazio, è davanti, dai lati, dietro, sulla testa, resta libero il pavimento, le gambe e i piedi, puoi ballare come facevo io, ma non puoi usarli per scappare.

 

C’è un disegno circoscritto, un labirinto, anche se non lo sai, ma lo sai, io lo sapevo, da qualche parte c’era l’uscita, anche se ritenevo che fossero gli altri a dovermela mostrare.

 

E gli altri a cui chiedevo, soprattutto a Mario, non la sapevano.

 

Sapevo che c’era un’uscita, ma era presto per trovarla.

 

 

 

Ad un certo punto, mi è nata la convinzione che ero io ad alimentare quel incubo.

 

Io, con la mia testa, anche se contemporaneamente ritenevo che tutto dipendesse da stimoli esterni che ero impotente a far smettere.

 

Ma quest’idea ha messo a fuoco me stessa, invece che l’esterno.

 

Mi ha tolto, in parte, la sensazione di essere passiva, un puro contenitore di stimoli che venivano dal mondo.

Mi ha spostato da una posizione inerte ad una attiva.

 

E mi ha fatto baluginare il pensiero che stesse a me fare qualche cosa.

 

 

 

 

 

 

Quando sono matta succede una cosa strana.

 

So fare quasi tutto, giocare a bocce, come nella prima internazione in Brasile, partecipare a gare e vincerle, mentre in genere sono impossibilitata a vincere.

Manovrare macchinari vari, quando normalmente sono negata, lavorare il cuoio, dipingere…tutte cose che non so fare.

 

Mi chiedo come sia possibile.

Succederà anche agli altri pazienti?

Saltano certe inibizioni.

Ma queste capacità dove si trovano sepolte?

 

 

Ritrovavo anche la mia grande passione per il ballo.

Da bambina avevo fatto la Comunione un anno dopo i miei compagni, perché l’orario della dottrina coincideva con il programma “Ballate con noi”.

 

Sentivo continuamente della musica, il mio delirio era sonoro, una specie di “commedia musicale”.

 

Ogni pezzo che sceglievo si accordava al contenuto del delirio di quel momento e me lo suggeriva, il rapporto era sempre reciproco, un incastro perfetto tra parole e musica.

 

 

 

 

 

 

 

XXXVII   Nel delirio non c’è distacco dal mondo reale quanto un affondarci, un  supervalorizzarlo mentre ci si specchia.

Nel periodo preparatorio del delirio l’io è, nella mia esperienza, dilaniato dai conflitti, e questo stato modifica la forma del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

Il distacco presuppone una distanza, quello che si vive è un appiccico, un confondersi.

 

Il delirio non è una non-realtà, ma un’ iper-realtà.

 

 

Il matto affonda nel mondo, oppure si tira il mondo addosso per incapacità a differenziarsene.

 

E’ il contrario della distanza, anche se negli effetti egli è fuori, distante dalla realtà condivisa.

 

Ha fatto una palla confusa tra il suo io e il mondo.

Non ci sono più confini.

 

 

Certo, posso dire solo di me: il mondo era entrato in me, e questa sensazione era sconvolgente.

 

Si impazzisce perché la mente non regge l’impatto con questa massa gigantesca.

 

La distanza è una funzione della mente sana, una distanza equilibrata.

 

 

 

 

 

 

 

 

All’origine del delirio c’è sempre, almeno nella mia esperienza, uno stremarsi a tener dietro a tanti temi in conflitto.

 

L’io si collassa, è annichilito, perché non riesce più a stabilire una barriera, prima agli stimoli interni e, poi, a quelli esterni.

 

E, ad un certo momento, non c’è più una netta distinzione tra i due.

 

E’ invaso da un eccesso d’ informazione che non riesce più ad elaborare.

 

Non riesce più a trovare le parole che diano un significato, manca una rete che prenda quel flusso continuo.

 

Non può più pensare.

Il pensare è una funzione della distanza dalle percezioni e del linguaggio.

 

Eccessivamente frustrato non tollera più la frustrazione.

 

Ma è il poter sopportare la frustrazione che  permette la riflessione su cosa ci sta accadendo e  su come trasformare la situazione.

Altrimenti si passa ad agire.

 

E questo agire di tutto il proprio mondo interno è il delirio.

 

 

 

Perde la nozione di cosa è utile alla sopravvivenza e di inutile.

 

Il bisogno di sopravvivenza si sposta in un altro registro dove le parole utile e inutile hanno un senso diverso dal comune.

 

Utile diventa tutto quello che mantiene il delirio.

Utile è cosa abbassa il panico.

 

La sopravvivenza diventa una funzione del delirio.

 

 

 

XXXVIII   cerco di dire qualcosa sul tipo di pensiero del delirio

 

 

 

 

 

 

La capacità di discriminazione, di differenziazione, così fondamentale nel mondo reale si dilegua completamente.

 

Tutto è ugualmente importante e ogni cosa si sposta, scivola nell’altra senza distinzione, perché l’insieme acquista il volto  di una comune parentela.

 

La rappresentazione degli oggetti è realistica, una mela è una mela, ma questa informazione non interessa ed è lasciata cadere, a meno che  a quella mela non si aggiunga un significato, un simbolo, che la faccia rientrare nel sistema generale.

 

Così dev’essere nella poesia.

 

Si perde ogni senso di stabilità che la rappresentazione degli oggetti del mondo ci comunica, quella possibilità di raggruppare le percezioni in schemi stabili e conosciuti.

 

Le percezioni risultano allora sciolte e sembrano andare per un corso proprio.

 

 

L’attenzione liberamente fluttuante che abbiamo sul mondo esterno e interno, si imbriglia in una griglia di ferro, focalizzata – a poco a poco – in un unico punto dove si aspetta il sorgere di un pericolo mortale.

 

In quel momento sorge il panico e il terrore, e non si può più parlare di attenzione nel senso comune perché si fissa e non vede altro.

 

 

La memoria viene messa come tra parentesi.

 

La memoria del passato e degli avvenimenti più recenti, come la intendiamo nella nostra vita normale, si dissolve.

 

Si registra il vissuto immediato, ma per incassarlo in quella che chiamo, forse impropriamente,  l’ideologia del delirio.

 

 

 

 

 

La fantasia e l’immaginazione sono, invece, al potere, come si diceva nel maggio francese.

Come fossero rimaste le uniche facoltà del nostro apparato mentale.

 

 

 

 

L’io vive in uno stato di eccitazione continua, da cui non può rilassarsi nemmeno nel sonno.

 

Il pericolo che sta correndo lo tiene desto e, come in un movimento a spirale, l’io  si disintegra sempre di più.

 

 

 

 

 

 

Quei grandi contenitori degli stimoli, che sono lo spazio e il tempo, perdono la loro funzione di organizzatori del reale, perché sono diventati evanescenti.

 

Non c’è un prima e un dopo, ma tutto è adesso o mai più.

 

Ogni forma di sintassi sparisce: non c’è un “ se faccio questo, allora succede quello”, ma tutto avviene congiuntamente e simultaneamente.

 

La categoria della totalità sembra l’unica rimasta sulla scena, perché ogni cosa deve esistere in quella globalità onnicomprensiva che è il significato del delirio.

 

E, in ogni piccola cosa, si riconosce, come condensata, quella totalità.

 

Ma, anche, ogni cosa è depositaria di una pluralità di significati che devono essere decifrati per poi svanire in una decifrazione successiva.

 

 

Si vive uno stato di energia libera da tutti gli schemi che la strutturano, che sembra inesauribile, come si fosse tolto il contenitore ad una caldaia sempre accesa, sempre autorigenerantesi.

 

L’impatto di questa straordinaria energia sciolta sopra la mente è sconvolgente.

 

 

A poco a poco, una stanchezza inenarrabile  slabbra i confini tra l’io e il mondo esterno e tra lui e il mondo interno.

 

E il mondo entra in lui.

E il mondo interno esce fuori.

 

Non ce la fa ad accorgersene.

E’ un movimento graduale e continuo.

 

Sparisce la barriera tra passato e presente e i desideri situati nel futuro diventano attuali.

 

Anche lo spazio è dilatato dall’angoscia che sottende questo processo.

 

Nello stesso tempo gli spazi si ravvicinano e il lontano e il vicino fluiscono uno nell’altro.

 

Il campo mentale interno si annulla rendendo impossibile pensare.

 

Non c’è più interno ed esterno, anche se dei confini molto fluidi si mantengono secondo i momenti.

 

Il soggetto si sente riplasmato dal mondo, mentre lo riplasma.

 

Violentato e ferito trova nel delirio  una risposta a questa violenza.

 

Con questo ridà un significato al mondo e a se stesso.

 

Si sente di nuovo io, ma questa volta è un io gigantesco, proporzionato al compito che gli spetta, al suo interlocutore, il mondo.

 

 

 

 

 

XLI   Questa impossibilità a differenziarmi dal mondo esterno che appare nella malattia aveva origine nell’infanzia.

 

 

 

 

 

Avevo sempre avuto una costante difficoltà a differenziarmi dal mondo esterno, ad avere un perimetro che segnasse un mio territorio.

Un infantilismo emotivo che mi portavo dietro fin da piccola.

 

Non potevo andare al cinema perché entravo nella tela e anche i film di Totò e Rascel mi facevano piangere.

Il mio rito di passaggio al cinema era stato proprio un film di Rascel: “Atanasio cavallo vanesio”.

Una mia cugina mi aveva tenuto per mano nei punti difficili ed ero riuscita a vederlo fino alla fine.

 

Per la lettura ci aveva pensato mia sorella con un libro dei fratelli Delly : “Il marchese di Carabas”.

 

Da allora avevo letto tutta la collana della BUR cominciando dalla “A” e andavo due o tre volte alla settimana al cinema.

 

Un difetto della capacità di simbolizzazione, mi dicevo.

 

 

 

Le persone amate me le “ingoiavo”, s’installavano in me come un seme che cresceva con me e mi faceva assomigliare a loro.

 

Le persone amate erano tante, così la mia identità è stata sempre vacillante e multidirezionale.

 

Mi era difficile tenere il filo di tante possibilità.

Tutto era sempre troppo complesso.

 

 

In casa vivevo in un costante crocevia, con il rischio imminente di essere messa sotto dal traffico.

 

Ero identificata con le ragioni della ragazza che lavorava per noi, fino a sposarle, fino a diventare comunista, quando i miei erano vagamente di centro-destra.

Le ragazze si sfogavano con me, convinte della mia segretezza, ed erano violente nell’esporre le loro ragioni.

 

Ma nello stesso tempo ero identificata con le ragioni dei miei genitori, altrettanto violente,  perché erano i miei genitori e io li amavo.

 

Mi ero scissa, per necessità, fin da piccola.

 

Questo mi ha obbligato ad avere costantemente una visione, per così dire, binoculare da strabico: un occhio guardava ad ovest ed uno ad est.

 

La lotta di classe l’ho imparata in casa, era una cosa reale.

Le ragioni  di queste due parti erano incomponibili.

 

Come la mia visione della realtà.

 

Dovevo costruirmi un’io più forte per arrivare ad una sintesi, un’integrazione che fosse mia.

 

Ma questa era un’impresa lunga e difficile.

 

Oggi, a quasi sessant’anni, dentro la fragilità e la labilità delle cose umane, credo di esserci sufficientemente riuscita, ma ci sono volute quattro crisi di pazzia, tre internazioni, un numero infinito di depressioni, e oltre vent’anni di terapia.

 

E’ stato un lavoro lungo e faticoso.

 

Ma ne valeva la pena.

 

Vale la pena quando si può alla fine vivere la serenità di una persona sufficientemente integrata.

 

 

 

 

XLII

 

 

 

 

 

Da bambina mi era più facile intuire cosa le persone volevano che dicessi, più che capire cosa volevo dire io.

 

Finché un giorno, in un colloquio con la mia maestra, mi ero “ vista”.

 

Una luce fortissima mi aveva illuminato.

Avevo avuto il primo attacco d’angoscia, ma da allora non era stato più possibile annullarmi negli altri.

 

Anzi, per un’evidente reazione, non ho più potuto dire che quello che sentivo precisamente  in quel momento.

 

Questo mi ha obbligato ad indagarmi per scoprire chi ero e cosa pensavo, cosa sentivo e cosa volevo.

 

 

La scuola è diventato un impegno difficile.

Non ho più potuto studiare sui manuali, non potevo ripetere le parole di un altro, dovevano diventare mie.

 

Così dovevo leggere gli autori direttamente: erano più comprensibili di qualunque manuale.

Ma questo ha comportato che impiegassi dodici anni a fare la facoltà di filosofia.

Con tutti gli effetti collaterali del caso, di cui, il più importante, era sentirsi un’idiota, più handicappata di qualunque altro.

Non conoscevo nessuno che avesse impiegato tanto tempo a fare una facoltà.

Io ero spregevolmente diversa.

 

 

 

 

Non ricordo di aver avuto nessuno che si occupasse specificamente di me, a parte una suora, la mia insegnante, nell’ultimo anno delle medie.

 

Il delirio è anche una compensazione di tante carenze passate, perché tutta la gente è lì per me, intorno a me, per assistermi o perseguitarmi a seconda dei momenti, come intorno ad una culla.

Tante fate benefiche o malefiche.

 

 

 

Per strano che sembri, la persona in delirio deve avere una buona capacità di percezione realistica che, io credo, certe trasformazioni biochimiche e del mondo interno, acuiscono.

 

La realtà è tutta lì, intatta come prima, e viene percepita in ogni dettaglio minuto.

Ma ogni cosa si accorda con l’altra come in una sinfonia, in un susseguirsi di accordi perfetti.

 

Il malato è un “traduttore” di ogni piccola percezione, al punto di vivere in continua meraviglia, perché inventarsi non si inventa niente, ma tutto rientra e diventa comprensibile all’interno dell’ideologia del delirio.

 

Cosa sarà questo straordinario adattatore della nostra testa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIII

 

 

 

 

 

Il delirio è uno sforzo prodigioso di sintesi, e questo lavoro sfinisce, perché tutta la realtà, anche la più distante nello spazio e nel tempo, la più diversa e contraddittoria,  deve acquistare un unico senso.

 

Questo sforzo prodigioso è quello che impedisce alla persona di sminuzzarsi in tante piccole schegge.

 

 

C’è uno scambio continuo tra percezione e attribuzione di significato, tutta la realtà corre velocissima come il pensiero.

 

A volte è la percezione a chiedere una simbolizzazione, ma più spesso è l’immagine interna che la trova, lì, già pronta a riceverla e, in quel significato preciso, esatto di quel momento.

 

 

La realtà ha dei colori sempre molto caldi, tutte le sfumature dell’arancio e del rosso, dovuti alla tonalità affettiva della persona in delirio.

Il lavoro del delirio avviene a temperature incandescenti.

 

Non ci sono più legami di causa ed effetto, ma di somiglianza, contiguità, analogia, c’è una “simpatia” che pervade tutte le cose, accenni, echi, rispondenze, risonanze.

 

Si stabilisce una nuova vicinanza, una presenza e una comunicazione reciproca e il mondo si specchia nell’io e l’io nel mondo.

 

 

Come in un testo poetico.

 

 

Un solo spazio compenetra ogni essere:

spazio interiore del mondo. Uccelli taciti

ci attraversano. Oh, io che voglio crescere,

guardo fuori ed in me cresce l’albero.

 

Io sono in ansia e in me sorge la casa.

Cerco riparo ed ecco in me il riparo.

L’Amato, io divenni; e su la bella immagine

Del mondo posa e si libera in lacrime. ( Rilke)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIV

 

 

 

 

 

 

Il mondo diventa un organismo vivente dove ogni cosa è funzionale al tutto e il tutto alle parti e l’io è contemporaneamente una parte del tutto e il tutto.

 

 

Il delirio non è un non-pensiero, ma un modo di pensare arcaico, dal quale ci siamo allontanati per acquisire un controllo sulla natura.

 

Rinasce in noi in tanti momenti di stanchezza, di intimità, di violenza delle passioni e in tante malattie.

 

Qualcosa che, forse, abbiamo ereditato dai nostri ancestrali e che non abbiamo perso, ma siamo andati oltre con l’evoluzione.

Qualcosa che faceva parte della nostra mente bambina e che nella relazione con l’ambiente, con le persone a noi vicine, abbiamo trasformato.

 

 

Quando il delirio è passato, mi immaginavo che ci fosse una parte antica del nostro cervello che continuasse a funzionare così.

Che l’io stremato ritornasse ad un suo funzionamento antico.

 

Che lì dentro, in questa parte del nostro tessuto nervoso, ci fosse un omino in costante delirio e che noi utilizzassimo questo tipo di pensiero nella vita normale senza accorgercene.

 

Era il mio modo di rientrare nella normalità e quel piccolo omino mi faceva compagnia.

 

 

Il delirio deve essere aiutato dalle allucinazioni, ma io non me ne sono mai accorta.

Non ho avuto allucinazioni stabili di oggetti o persone. Quello che vedevo lo potevo toccare.

 

L’impressione che ho avuto in seguito è che le allucinazioni aumentino la velocità del pensiero e della realtà, non si percepiscono perché sono inconsce, non le avvertivo, perché, nel mio caso, non mantenevano la costanza sufficiente per formare un oggetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLV

 

 

 

 

Strinberg nel saggio “ Il sogno” descrive molto bene il tipo di pensiero del delirio, anche se parla del sogno.

 

“… tutto può succedere, tutto è possibile e anche verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su di un fondamento insignificante di realtà, la mente intesse nuovi modelli: una commistione di ricordi, di esperienze di vita, di idee slegate, di sconcordanze e improvvisazioni…I personaggi si scindono, si moltiplicano, si sdoppiano, si concretano, svaniscono, si raccolgono…

 

E, in “ Verso Damasco”: “ Là dove prima io vedevo degli oggetti e degli avvenimenti, delle forme e dei colori, ora scorgo dei pensieri e dei simboli”.

 

 

Il delirio mi sembra però presentare alcune differenze rispetto al sogno.

 

La differenza più grossa mi pare il fatto che, mentre nel sogno non c’è una realtà esterna, oppure si presenta sotto forma di ricordi, per quanto trasformati, il delirio prende forma su una realtà esterna.

Non tutto allora diventa possibile né verosimile.

 

Quello che accomuna il sogno al delirio è il tipo di credenza che suscita nel sognatore o nel pensatore del delirio: quello che succede è proprio così, non ci sono dubbi, è proprio reale, con un’evidenza e una partecipazione emotiva che, forse, nessuna realtà può dare.

 

“La mente intesse nuovi modelli su un fondamento insignificante di realtà”: questo avviene anche nel delirio.

 

Ugualmente vero è che, non al posto, ma insieme a oggetti e avvenimenti, si scorgono pensieri e simboli.

I simboli che io scorgevo erano, in fondo, sempre gli stessi perché legati al principio maschile e femminile.

 

 

 

Non mi pare di aver visto una partecipazione dei ricordi al delirio, come invece avviene nei sogni : il tempo era solo presente e la percezione solo degli avvenimenti attuali.

I ricordi erano eliminati.

 

Se s’intende, invece, per ricordi, i ricordi inconsci, esperienze sotterrate da secoli, allora queste appaiono attuanti nel delirio, forse ancora più che nei sogni, perché essi sono lì e devono raccontare la loro storia fino alla fine.

 

Il delirio non può finire se non hanno sbobinato tutta la cassetta e se questi ricordi non hanno trovato una qualche possibile conclusione al loro racconto.

 

Vogliono a tutti i costi una fine. E’ solo per questo che si sono messi in moto.

Come fossero degli elementi insaturi che prendono vita fino a saturarsi.

 

 

Come volessero addormentarsi, ma non possono, perché qualcosa li ha bloccati all’inizio, ancor prima di essere vissuti, come una parola troncata a metà, che non quieta fino a che non la lasciano pronunciarsi tutta intera.

 

 

 

 

MESSO SUL BLOG FINO A QUI  pag 87

 

23 OTTOBRE 2013 MESSO SUL BLOG FINO A PAG 96 MA NON HO MESSO IL LINK! MI PENTIRO’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVI

 

 

 

 

 

Il film “Colazione da Tiffany”, visto alla fine di luglio, mi aveva rimandato l’immagine di una me stessa che conoscevo, ma che facevo di tutto per non vedere.

Alla fine ho pianto tutte le mie lacrime.

 

Era la me stessa del deficit, come dicono gli specialisti, un cane perduto senza aver mai avuto un collare, prigioniero di se stesso, ma che non può scappare e non ha nessuno, neanche un altro cane che gli tenda la mano, una mano vera, concreta, fatta di carne, non le solite mani fatte di parole.

 

La depressione che sentivo era una depressione buona, non quella che di solito mi arrivava dopo la mania, era un contatto con la realtà doloroso, ma che non mi faceva precipitare negli abissi.

 

Dovevo accettare di avere uno stigma, questo non si poteva cancellare, era la mia storia, ce l’avevo impresso nella carne, ogni tanto fiorivo una primavera in più, come dicevano della famiglia di mia madre.

 

Mentre io, al lavoro, dove ero stata presentata come un “paziente guarito”, volevo dimostrare di essere sana come gli altri.

 

Quando invece, anche senza crisi, ero sempre una persona molto più fragile.

 

 

Il sogno grandissimo che alberga nel cuore di un malato mentale è di essere sano di mente… magari a ottant’anni…magari a cento…ma diventare come gli altri.

 

E’ questa la solitudine che pesa.

E’ essere fuori dal mondo degli altri.

 

 

Inoltre, il mio infantilismo non mi permetteva nel lavoro di darmi un obiettivo intermedio, pianificare i miei sforzi e risparmiarmi, acquisire un fiato lungo.

 

Sono sempre rimasta una bambina incollata ai vetri di una vetrina che non può vedere in prospettiva, che non ha idea di futuro.

 

Inoltre il lavoro era troppo vicino alla fine della terapia, il mio transfert (legame col terapeuta) era ancora troppo alto, mi obbligava a tagliare, comprimere dei sentimenti e questo mi consumava energia.

Era stato scelto male il momento.

 

Ero entusiasta di quella Chiara che vedevo apparire, una persona capace di lavorare…e l’entusiasmo non aiuta a prendere le misure.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVII

 

 

 

 

 

 

Quando il delirio se n’ è va rimane una grande labilità, la mia mente era molto stanca di tanto lavoro.

Questo mi portava spesso a piangere, anche se normalmente non piango mai.

 

Il delirio mi stava ancora vicino, stava con me anche se non mi recava alcun disturbo.

 

La percezione della realtà era più brillosa come se il mondo fosse rinato in primavera, bagnato di rugiada.

 

I processi della mente per riacquistare una sua normalità sono molto graduali e lenti.

Il delirio se ne va per piccoli territori e in ognuno bisogna passare.

 

La mente è sfinita e può fare solo un piccolo lavoro per volta.

 

Era come se avessi tagliato un cordone di ferro con cui mi ero tirato il mondo addosso, l’avevo tagliato quella notte in cui avevo pensato di suicidarmi e non l’avevo fatto.

 

Poi dovevo spostare il mondo al suo posto, la grossa spinta l’avevo data in una volta sola, un lavoro durato due giorni.

 

Poi ero rimasta un po’ qui e un po’ là.

 

In seguito il delirio non c’era più, ma rimaneva a mano come quando ero andata alla clinica per l’esame del litio.

 

 

 

 

 

 

Andando alla spiaggia, dovevo ogni volta spingere di nuovo il mondo indietro perché minacciava di ingoiarmi di nuovo.

 

E’ come una ginnastica pesante e bisogna farsi i muscoli per tenerlo là.

Fisso là.

 

Questa ginnastica consisteva nel fatto che se, per esempio, sentivo della gente parlare in spiaggia, ed era di nuovo “tutto giusto”, proprio come nel delirio, si incastrava tutto di nuovo, dovevo ripetermi continuamente:

“ not me”.

 

 

Così era per tutto, paesaggio per paesaggio, situazione per situazione.

 

Dovevo fare un continuo lavoro di discriminazione tra me e l’esterno.

 

Separare da me la gente e lasciarla là fuori in uno spazio che non era il mio.

 

A volte, mi dicevo ancora: ma potrebbe essere.

 

A volte, mentre piangevo, mi dicevo: “ Ce la vorrei una telecamera nascosta, mi terrebbe compagnia”. Tanto ero sola.

 

Ogni tanto, se scrivevo i miei quaderni, mi veniva l’idea che tutto era teletrasmesso al mio terapeuta.

 

A volte si ripresentava anche l’immagine dell’équipe americana.

 

Anche il mio terapeuta doveva abbandonarmi, diventare l’altro e stare nel mondo esterno in uno spazio e in un tempo cui non avevo accesso.

 

 

 

Oltre alla ginnastica di spostare le immagini del mondo fuori di me, la mia terapia consisteva nel guardare tranquillamente il mondo esterno, una terapia cui ero allenata perché la facevo da molti anni.

 

Lasciavo che le sue immagini entrassero dentro di me, occupassero uno spazio mentale giusto che mi faceva star bene.

Sentire i suoni, i rumori e accettare che a poco a poco queste figure luminose, era estate e c’erano le rondini nel cielo, si sostituissero alle immagini del mio mondo interno ancora confuse e fosche.

 

A volte, alla fine di questo lavoro, scoppiavo a piangere e mi dicevo: “Qualcuno mi è morto dentro” e non sapevo chi.

 

Invece, a volte, ringraziavo il Signore di essere ancora viva.

 

 

Mi dicevo anche : “ Perché, invece di lavorare tanto, non tenti di dimenticare?”

Passavo il tempo a scrivere sui miei quaderni.

Ma non potevo, dovevo finire questo lavoro della mia mente.

 

 

A volte il delirio rimaneva fermo nell’aria davanti a me: era lì, ci credevo, poi mi svegliavo, e non ci credevo più.

 

E andavo avanti con questo tormento.

 

Ne parlavo con Mario e mi faceva bene, mi faceva meglio dell’Haldol.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVIII

 

 

 

 

 

 

Ho sognato, un sogno piccolo, lo studio del mio terapeuta, uno studio grande come un salotto, che non avevo mai visto, io ero un po’ addormentata su un piccolo tavolino vicino ai divani e sentivo il terapeuta nell’altra stanza sgridare una bambina.

 

Quando è venuto vicino a me ha detto: “ E’ un gran lavoro!”, ma io ho fatto finta di continuare a dormire.

Forse perché mi aveva abbandonato andando in ferie.

 

Ho inteso: “ E’ un lavoraccio uscire dal delirio”.

Quella bambina ero io, mi sgridava perché non ero stata capace di non impazzire.

 

 

Nell’altro, ero davanti ad un quadro con una palma dipinta, dicevo ad un pittore, una pittrice e uno scultore che mentre, per i disegni sul tronco il simbolismo non si discuteva, il ramo della palma, che si apriva ad arco, aveva un simbolismo mobile e relativo: poteva essere un elemento femminile rispetto al tronco, ma rispetto alle foglie poteva essere inteso come elemento maschile.

Mentre parlo, lo scultore si allontana come uno che deve stare a sentire cose trite e ritrite.

Il mio terapeuta, scultore di menti era arcistufo?

 

Questo tipo di lettura di simboli era presente in tutto il delirio.

 

 

Ho svegliato Mario e gli ho detto: “ Io non voglio più vederti come figlio, devo poter tirar fuori l’aggressività che ho verso di te, altrimenti non esco da questo delirio.”

 

Il delirio si manteneva anche per i conflitti che avevo con le persone a me vicine e con il mio terapeuta.

 

Lui, dovevo lasciarlo, abbandonarlo a se stesso e rinunciare al lavoro, anche se mi sembrava una cosa peggiore della morte.

 

Gli ero stata troppo vicina, incollata, e mi ero ingoiata anche la sua pazzia.

 

 

 

 

In tutta la vita non avevo potuto mantenere una professione per più di tre anni… sempre sopraggiungeva una crisi o di mania o di depressione.

 

Questo aveva lasciato un gran buco nella mia identità e aveva aumentato la mia vergogna di non essere come gli altri.

 

Lavorare presso il mio terapeuta, un lavoro che mi piaceva moltissimo, mi aveva dato il sogno di un riscatto anche davanti a mia figlia.

 

Mi era sembrata una garanzia e si era invece rivelato un gran pasticcio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIX

 

 

 

 

 

Tutta la vita avevo cercato nella terapia di restaurare la figura di mio padre, di riformarmi dentro un’immagine di padre autorevole cui potermi appoggiare e sentirmi protetta.

 

Avevo bisogno di spostare il mio interesse da una madre forte, bellissima e inaccessibile, ad un padre amorevole, ma dignitoso, convinto del suo ruolo di padre.

Questa figura non ero riuscita a costruirla.

 

Erano sorte, al suo posto, innumerevoli confusioni, perché puntualmente, nella terapia, risorgeva una Chiara bambina innamoratissima del suo papà buono e generoso.

Che mi faceva i disegni e scherzava con me.

Un papà identificato con un mezzadro.

 

Non era semplice contenere, nella terapia, quest’immagine, perché non si era evoluta, ma bloccata ai primi anni.

La figura di mio padre era così forte e così meravigliosa perché era una figura combinata di madre e padre.

 

A lui, infatti, nel mio straordinario bisogno di affetto, mi ero rivolta di fronte ad una madre che io percepivo fredda e scostante, sempre distratta dagli affari.

 

Solo molto tardi ho potuto capire che avevo una bocca troppo grande sul mondo, che le persone mi apparivano troppo distanti perché i miei desideri erano sempre eccessivi.

 

Ero stata una bambina straordinariamente ammirata, ma poi tutto era sparito, come un teatrino sbaraccato dove ero sempre stata la primadonna.

Era cominciato tutto all’asilo dove facevamo teatro e io ero la più brava, sempre applauditissima al saggio finale.

 

Questa immagine era andata avanti per un po’, poi non c’era stata più.

 

Non so ricostruire quando questo era successo, forse semplicemente crescendo e perdendo quei vezzi che fanno i bambini straordinariamente amati.

 

Tutto era sparito improvvisamente, o così mi sembrava, e quell’immagine adorata era finita laggiù sotto i piedi, scivolata via su un pavimento qualsiasi.

Mi aveva lasciato dentro un vuoto incolmabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L

 

 

 

 

 

 

Ma nella terapia quest’immagine tornava viva, palpabile e palpitante, ma nessun terapeuta era stato in grado di prenderla per mano e farla crescere, accettarla e contenerla.

 

Trovavo un compenso a questo muro che trovavo nel terapeuta, offrendogli io la mia adorazione.

Amandolo, come si può amare il dio sole, un po’ di quel brillio si riverberava sopra di me.

 

Ma mi andavo sempre ad infilare in un vicolo cieco, una strada sbarrata, dovendo anche reggermi le oscillazioni che un contributo di ammirazione così alto suscitavano in quel essere umano che è un terapeuta.

 

In Brasile facevo analisi con una donna e supervisione con un uomo, con cui rifacevo lo stesso gioco.

In partenza per le vacanze, il supervisore mi aveva baciato sulla bocca e questo bacio, in me, si era trasformato in una bomba ingoiata che mi aveva fatto esplodere.

 

 

 

Mentre crescevo, mi ero accorta che mio padre era una vittima della situazione in casa, preda di due donne che a me sembravano due furie quando si avventavano su di lui.

Lo vedevo solo a tavola, davanti a me, incantato in pensieri oscuri.

Se domandavo cosa aveva rispondeva sempre: “Niente”.

 

Suo padre era stato una figura granitica, sopravissuto ad un terremoto dove erano morti i genitori, e questa vita così dura l’aveva portato ad essere molto rigido ed autoritario, sempre pronto a dirigere la vita degli altri come fossero bambini piccoli.

Quest’atteggiamento aveva impedito a mio padre di crescere e, quando si era sposato, aveva scelto una moglie ugualmente autoritaria.

 

Quando partivo per l’Università, sembrava che si spegnesse la luce dei suoi occhi.

Mia madre diceva sempre che se avessi voluto una stella sarebbe andato a prendermela.

Me n’ero poi andata anche in Brasile.

Quando sono tornata era già morto.

 

Mi ero sentita impotente ad aiutarlo, in casa non contavo niente, tutte le decisioni erano prese da mia madre e mia sorella.

Ho creduto di salvarmi abbandonandolo al suo destino.

L’avevo tradito.

 

Questo bisogno di riparare una figura maschile mi era rimasto dentro e l’avevo spostato su mio marito senza accorgermene.

Era una storia inconscia che mi faceva vedere mio marito come un figlio da crescere, quando lui era lui, semplicemente diverso dai miei parametri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LI

 

 

 

 

 

 

Ad un certo momento, quel delirio che stava fermo nel cielo se n’è andato.

E’ stato quando ho potuto tirar fuori un’aggressività costruttiva per risolvere i conflitti che avevo nei miei rapporti.

 

La ricetta finale era proprio questa: il delirio non è più ritornato.

 

 

Continuava solo nei sogni.

 

Avevo sognato la casa del mio analista, un ambiente di mobili antichi, un po’ buio, un salotto.

Arrivava una mia zia : era un’analista, mandata dal mio terapeuta, che mi portava dei libri.

Erano tests e, nello stesso tempo, suggerimenti, proprio come nel delirio.

Se avessi passato i tests, ne sarebbero arrivati più difficili e più vicini alla fine.

Questa mia zia era un emissario proprio come nel delirio.

I libri erano libri di agricoltura. In uno c’era scritto che è uno sbaglio lasciare il terreno solo con alberi, che la terra bisogna coltivarla tutta intensivamente.

 

Nel sogno intendo che la mia testa non posso lasciarla gerbida, che devo coltivare le mie capacità e leggere gli autori.

Si stava preparando una gran festa, si parlava di vestiti, e anch’io sarei andata quando il mio terapeuta mi avesse chiamata.

Ma prima dovevo passare i tests.

Era una festa per la fine del delirio.

La malattia mentale è un terrificante test per la nostra mente che non sempre si passa.

 

L’unica cosa che mi era sembrata interessante in questo sogno è che era identico al delirio.

Come se il delirio si fosse allontanato abbastanza dalla realtà da poter essere pensato in forma di sogno.

I bisogni che alimentavano il delirio, ridimensionati, si erano annidati, forse, in un’area da cui nascono i sogni.

Forse stavo ritornando a “poter pensare”.

 

 

Dall’immagine che ho usato per dire che uno si tira il mondo addosso, una corda da tirare o da spezzare, si può immaginare che quando uno è malato ritorna a vivere la fase di simbiosi con la madre, secondo i modi e i tempi in cui l’ha vissuta quella specifica persona.

 

Si ritorna indietro perché si arriva ad un muro davanti al quale non si può che retrocedere.

 

Inoltre, nella simbiosi, in una fase di così grande pericolo, la persona non si sente più né sola né isolata, ma un pezzetto di un altro che, in questo caso, è il mondo.

 

La mia simbiosi era prima di tutto con il terapeuta.

 

Aumentando il pericolo, lui era diventato il direttore di un’équipe americana.

Mia madre, da piccina, doveva sembrarmi potentissima, se me lo sembrava anche da grande.

 

E la vedevo nel terapeuta.

 

 

 

Nel delirio si allontanano quelle censure che ci nascondono i nostri desideri.

 

Volevo un rapporto con il mio terapeuta, ma per far questo dovevo tradire mio marito e mia figlia.

Dovevo tradire me stessa e diventare cenere.

 

La mia coscienza morale era lì, pronta ad uccidermi.

 

La coscienza mi diceva che i miei bisogni erano nefasti, dovevano essere annullati.

 

Ma era proprio questa coscienza morale che dovevo tradire, che mi impediva di vivere, di vedere la Primavera.

 

 

Voglio, devo, non posso.

 

“Quare id faciam, fortasse requiris, sed fieri sentior et excrucior “

( Catullo).

 

Odi et amo, era per me.

 

 

Se mi fossi trovata a lavorare nelle miniere del Belgio non avrei avuto questi dilemmi, ma non c’ero e li avevo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LII

 

 

 

 

 

 

Con il delirio, queste necessità, un tu, una reciprocità, diventano primari ed in primo piano, la censura è allontanata in un punto della mente da dove non si fa più sentire.

 

Se il mio terapeuta non mi voleva, era perché non ero pronta, non ero ancora degna di lui.

Il delirio era una scuola dove avrei imparato ad essere meritevole.

 

Potevo esistere perché mi muovevo in vista di una soddisfazione. Era solo ritardata dal lavoro del delirio.

 

La censura non mi veniva solo dalla mia famiglia, ma dal vedere nel mio terapeuta un padre e una madre e un padre identificato con un mezzadro.

 

La censura  era anche di manifestarmi a lui.

 

Ero bloccata, tutta avvolta di interdizioni.

 

Nel delirio non sono più i desideri degli altri che emergono, ma i miei, e io ho finalmente diritto di esistere con tutta me stessa.

Il mio corpo torna a parlare.

 

Solo in questo delirio ho trovato il coraggio di presentarmi al mio analista e manifestarmi.

La relazione doveva essere davvero buona.

 

“ Ma signora, io ho altri interessi”.

 

L’ha detto bene, con gentilezza.

 

Questo rifiuto garbato è entrato in me lentamente e alla fine ho capito.

 

Ma, quando ho capito, ero già alla fine del delirio.

 

LIII

 

 

 

 

 

 

La coscienza morale è parte dell’io, mentre si collassa l’io, collassa anche la coscienza e le censure si allentano fino a sparire.

 

Si dice che nella mania la coscienza morale si prenda una vacanza.

Ma, nella mia esperienza, non era così.

 

Una grossa accelerazione verso il delirio sembrava averla data proprio la mia coscienza che, in questo modo, mi aveva bloccato dal prendere qualunque decisione che avrebbe potuto farmi andare contro le sue proibizioni.

 

Inoltre, la coscienza morale appare camuffata in quella struttura granitica del deliro che ti tiene presa e ti dà una certa consistenza.

 

Diventa l’obbligo di fare il lavoro del delirio.

Ti spinge ad andare avanti e ad affrontare i pericoli per salvarti.

Ti mette davanti un’immagine di te stessa ideale cui devi attenerti.

 

La persecuzione proviene dal mondo, è lì che si annida la coscienza, un mondo che continuamente ti invia degli stimoli che sei impotente a fermare.

E non ce la fai più a reggerli, ma vanno avanti.

 

La coscienza non va in vacanza, diventa solo più rigida e più oppressiva, ti appare arrivare da un esterno gigantesco perché tutta la realtà è una sua forma camuffata.

 

 

 

 

Alla fine del delirio era rimasta quella me stessa che aveva avuto il coraggio di affrontare i suoi bisogni ed affermarli come imprescindibili, anche se in modo malato.

Diventavano una cosa acquisita nella realtà.

 

La mia testa non era diventata un ammasso di pietre, anzi, la mia vita continuava, e a partire dal delirio e dalla pazzia.

 

Quei desideri erano stati incorporati nella mia identità e non avrei più potuto soffocarli.

 

Capivo che ci sarebbero voluti anni per realizzarli, ma avevo forze sufficienti per farlo.

 

Avevo posto sul tappeto una Bruna che non voleva solo rinunciare e soffrire, ma sentiva che aveva diritto ad un pezzetto di piacere.

 

Anche gli altri, a poco a poco, ne avrebbero tenuto conto.

 

 

 

Si trattava solo di avere calma e praticare la gradualità e gli obiettivi intermedi, anche insignificanti.

Sapevo che da un cambiamento piccolissimo ne può risultare uno grande.

 

 

Per la prima volta, a differenza che nelle altre crisi, questa nuova identità, fatta anche del piacere di vivere, del benessere del mio corpo, non era scomparsa con il delirio.

 

Anzi era il delirio che era scomparso quando questa Bruna si era decisa a venir fuori.

 

La crisi, forse, era stata utile.

Anche se avevo sempre ritenuto che le crisi fossero solo un terribile spreco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIV

 

 

 

 

 

Perché le altre crisi  non erano stata utilizzabili?

Cosa era cambiato?

 

Mi era stata donata una parte sana e consistente di cui all’inizio della crisi avevo cominciato a vedere i vantaggi.

 

Avevo passato i primi quattro anni di terapia in regressione, depressa, confusa, senza che mi fosse concesso di prendere antidepressivi.

 

Il terapeuta mi ci aveva, per così dire, mollato senza rimpianti, facendomi sentire che lui non poteva fare niente se io non c’ero.

 

Per la prima volta avevo provato ad arrabattarmi da sola, ma accompagnata.

 

Il terapeuta svolgeva principalmente una figura di padre, accettante, ma fermo, anche se occasionalmente mi faceva sentita accolta incondizionatamente.

 

La mia analista in Brasile aveva svolto invece costantemente una figura materna.

Mi aveva permesso di farmi un’idea di madre capace di accompagnarmi con un’affettività costante.

 

Ma nei dieci anni di terapia in Brasile non ero mai stata sola.

 

 

Avere vicino una persona che non interferiva con il mio lavoro, ma che era lì, disponibile a soccorrermi, mi aveva fatto imparare che esiste la protezione.

Negli anni seguenti questa funzione era stata incorporata anche se ancora con molti dubbi.

 

 

All’inizio della crisi ero stata trattata dallo psichiatra, dal terapeuta, da mio marito e mia sorella come una persona responsabile, capace di tutelarsi autonomamente.

 

Una parte della mia coscienza, quella protettiva, si era affacciata sulla realtà verificando che c’era bisogno di lei.

E che esistere e rafforzarsi portava degli incredibili vantaggi.

 

Per la prima volta avevo capito che l’autonomia mi avrebbe evitato quei terribili traumi delle internazioni forzate.

 

Essere trattata come una persona mi aveva comunicato una sensazione alla quale non volevo più rinunciare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LV

 

 

 

 

 

 

 

“ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ( Pavese).

 

Perché la vita, che sentivo rinata in me, mi rimandava sempre alla morte, o era al mio terapeuta che mi rimandava?

 

Lui che, nella mia testa, era legato al piacere e non al dovere?

 

 

Eu abri a anela e o sol entrou…una canzone brasiliana: “ Ho aperto la finestra ed è entrato il sole…”

 

 

In un sogno successivo, ho sognato mio padre vivo, bello, felice come quell’estate a Roma…

Pochi mesi prima, a Pasqua, avevo sognato mio padre morto, un morto che si risvegliava…

 

In tutta la mia vita avevo sognato mio padre solo due volte e, questa volta, era tanto “risvegliato” da essere vivo, con quella camicia bianca a piccoli disegni gialli che io stessa gli avevo comperato…

 

Gli racconto che mi allontano tanto da mia madre, che desidero stare con un uomo.

Mio padre rimane contento mentre parlo e anche dopo, quando ho finito.

Vedo mia madre isolata, lontana.

 

Improvvisamente mi vengono in mente le parole di una canzone : “ Vivere insieme a te è stato inutile, senza un sorriso, neanche una lacrima…”.

Me la canto nel sogno, piango, una crisi di avvilimento, sono disperata.

 

Sono io quella persona con cui è inutile vivere?

 

Mi dico: “ Non posso vivere con mia madre né vicina né lontana”.

 

Appare il mio terapeuta che dà lezione a dei bambini molto piccoli, è girato di schiena, non li guarda e continua a parlare anche quando si sono assentati.

Sono io in quei banchetti e me ne vado per non ascoltare il terapeuta?

 

Quando mi sveglio, penso che la mania, l’onnipotenza, mi hanno permesso di superare un tremendo avvilimento, un’aggressività rivolta contro di me per soddisfare la quale non sarebbe bastato un suicidio.

 

Penso anche che sono ammattita per cose che hanno la consistenza del fumo.

E questo mi ha dato una gran rabbia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LVI

 

 

 

 

 

 

 

Prima del precipitare della malattia vivevo in uno stato di grande incertezza.

Uno stato cui ero abituata e, nello stesso tempo, mi pareva che un essere umano non poteva abituarcisi.

 

Perché era un’incertezza totale.

 

Forse mi lasciavo anche sedurre da questo stato di mente, in fondo affascinante.

 

Come un bambino che s’incanta a guardare la giostra che gira, tante luci e tante figure che passano sempre diverse, senza capire che lui può essere preso dentro alla giostra, incantato com’è.

 

Vivevo in uno stato di pericolo acutissimo, non potevo dormire perché dovevo vigilare sempre, fuori e dentro di me.

 

Pericolo di sfasciarmi del tutto, di lasciarmi indurre dalla tentazione di dire, una volta per tutte, agli altri, che non ce la facevo ad essere sana.

 

Anche nella depressione dei dodici anni, avevo detto a tutti che non era vero che ero quella ragazza in gamba, che era tutto falso, che l’avrei dimostrato.

 

E l’avevo dimostrato.

Tutti avevano cominciato a trattarmi da poverina.

 

 

Una forza interna mi tampinava di continuo di mollare, di abbandonarmi alla deriva… questa Bruna che lavorava, che era efficiente, non ero io, troppi pesi, troppe responsabilità… ero troppo fragile per questa vita, dovevo capirlo.

 

 

 

 

Mi dicevo anche che con la terapia non mi ero rifatta una storia, una terapia non poteva fare tanto, dovevo parlare con il mio terapeuta e restituirgli quella parte sana che mi aveva obbligato ad ingoiare, non era mia.

 

Come un antico film che mi passava nella mente, ridrammatizzavo nella pratica la solita storia delle crisi: rischiavo di essere uccisa due volte da mia madre e due volte da mio padre, evidentemente una non era sufficiente per quella mia parte che mi perseguitava.

 

Questa volta rischiavo di morire perché volevo separarmi, senza sposarmi con nessuno, sposarmi solo con me stessa, volevo avere un’unica casa, la mia.

 

“Ne valeva la pena?”: questa era la domanda fondamentale.

 

Non avevo dimestichezza con questa Bruna con una casa sola.

 

Rimarrò sempre più sola, mi dicevo.

 

Una Bruna che avrebbe dato sempre più fastidio: sentivo una prepotenza in me intollerabile.

 

Non avrei fatto più da spalla ad un altro, qualunque altro, perché dicesse delle battute.

 

Volevo essere protagonista.

 

Dopo tanti anni che mi sprofondavo in ossequi, nessuno mi avrebbe tollerato.

 

E poi, da una psicotica, un paria già condannato molte volte.

 

 

Soprattutto questa me stessa non la tolleravo io.

 

LVII

 

 

 

 

 

 

Era un liberarsi di cartilagini, che erano protettive mentre m’imprigionavano, un librarsi nel vuoto.

 

E vacillavo spaventata.

Troppo ossigeno o troppo poco.

 

 

Dovevo imparare a mollare i cappotti nei quali mi ero avvoltolata per difendermi.

 

E anche le persone.

 

Non ne ero capace.

 

Io dovevo “tenere” tutto, cose buone e veleni, non potevo espellere niente, mollare nessuna persona.

 

Forse non sapevo discriminare tra “buono da mangiare” e veleno.

 

Non mi riconoscevo il diritto di un essere sano, che ingoia ed espelle.

Dovevo fare le due parti.

 

Potevo alimentarmi, di me stessa e degli altri, ma anche le parti brutte, il male, doveva essere metabolizzato, fatto rifiorire come da un buon letame spuntano i fiori.

 

 

Mi era rimasta nella testa una parte di pietra, una parte ferrea, un granito che non riconosceva di avere bisogno degli altri, del sole e della luna che spuntavano fuori di lei.

 

Doveva fare tutte le funzioni, essere autarchica, controllare le entrate e le uscite, solo che poi uscite non ce n’erano.

Una forma di risparmio di chi si sente poverissimo come era sempre stata la Liguria di ponente.

 

Un aspetto paranoico, di chi vive in un corpo e in una mente umano, ma giganteggia come un super-ominide.

 

Era questa parte che mi aveva permesso di essere ancora viva e io mi ostinavo a non mollarla.

 

 

 

 

 

 

 

Il mondo esterno era sempre stato fonte di molti pericoli dai quali non avevo imparato a proteggermi.

 

Alla notte non avevo mai potuto addormentarmi se qualcuno mi sfiorava… dormendo, qualcuno avrebbe potuto uccidermi, anche la persona che mi aveva più cara.

 

Una parte antica che mi ero portata dietro per barricarmici dentro, che certe esperienze avevano rafforzato, obbligandomi a conservarla intatta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LVIII

 

 

 

 

 

 

Questo stato d’incertezza stava diventando minaccioso.

 

Il senso di pericolo mi veniva dal non potermi aggrappare a qualcosa di buono in me, un pezzo di terra buona, mia.

 

Mi ero liberata di questa parte, perché troppo faticosa, e l’avevo depositata nel mio terapeuta che splendeva di mille meraviglie, perché se ne prendesse cura lui.

 

Ma io ne ero rimasta priva e il mio io cominciava a vacillare senza un terreno solido cui appoggiarsi.

 

La mia coscienza, quella parte di lei che mi proteggeva, che mi diceva di volermi bene, di tutelarmi, di usare la percezione, di stare attenta alla realtà, una me stessa intera, corpo e mente, se n’era andata.

 

E io ero rimasta lì con una parte nera, pericolante e minacciosa, che sentivo persecutoria.

 

Da qui, il pericolo delle varie uccisioni da parte dei miei, di qui il bisogno di suicidarsi, anche se era ancora in tono basso.

 

 

Rimaneva con me la voglia di sfasciare tutto di nuovo, fare di me stessa nuovamente un dirupo di pietre, perché stavo cedendo alla persecuzione.

 

L’innamoramento del mio terapeuta era una scusa, l’erotismo non c’entrava niente, volevo aver mano libera allo sfascio, non aver da lottare con una parte antitetica.

 

Poter sfasciare, tutto in una volta, dieci anni di terapia e, poi… ripetere, come Zorba: “ Che sfascio magnifico!”

 

Solo che ogni volta cadevo sempre più dall’alto, dalla strada che avevo fatto nella terapia.

E questo mi faceva sentire molta paura.

 

Era difficile sopportare la paura.

 

Non volevo avere una casa, soprattutto non volevo che fosse questa, pesante com’era da reggere.

 

Meglio malata, che sana.

 

Avevo nostalgia delle mie palafitte continuamente terremotate.

Sentivo il bisogno di ricominciare da zero.

 

Era di me stessa che dovevo liberarmi, non degli altri.

 

 

Vedevo il mio terapeuta con una parte debole, ferita, e sentivo che dovevo accudirla.

Era così più facile amarmi in una persona già così ben realizzata, con tante cose di valore e tutte già pronte, già costruite!

 

 

La mia parte sana era solo potenzialità.

 

E poi, che tipo di potenzialità?

Non le avevo mai viste concretamente e oscillavo tra una magnificenza che mi terrorizzava e un miseria che mi avviliva.

 

E poi, tutte da provare, con angoscia, fatica, arrancando.

 

Quello che mi si prospettava era espresso in una poesia di Montale:

 

“com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”

 

 

 

 

 

 

 

 

LIX

 

 

 

 

 

 

Mi cantavo anche la parte di Adalgisa, dalla “ Norma” di Bellini, che un tempo avevo studiato, quando, presso gli altari, invoca :

“Liberami da me stessa, dal mio cuor”.

 

Adalgisa canta a un dio, io cantavo al mio terapeuta.

 

Lui diventava così alto perché era se stesso più me.

E non solo la me stessa reale, ma anche quella ideale.

 

Purtroppo la parte buona e quella ideale erano ancora confuse perché non viste, non sperimentate nella realtà.

 

Forse diventava così alto perché doveva proteggere una bambina, una bambina che rischiava di non esserci più.

 

Mi cantavo anche una canzone di Jacques Brel, in cui odiavo vedermi, ma mi sorgeva continuamente:

 

“ ne me quittes pas, ne me quittes pas…laisses-moi devenir l’ombre de ton ombre, l’ombre de ta main, l’ombre de ton chien…ne me quittes pas, ne me quittes pas « .

 

Nel mio caso – pensavo anche – sarò il cane di quello che va dal barbiere e paga il conto di un cane che non è più il suo, non lo riconosce.

Paga solo il conto ed è obbligato a portarselo via.

L’entusiasmo era del barbiere e lui ha dovuto incassare… a lui, il cane, andava bene così, l’ha portato lì tanto per portarlo, era lui che andava dal barbiere.

 

Anch’io una parte sana non la volevo, avevo solo pagato il conto, mi andava bene restare con la parte malata, almeno la conoscevo e sapevo come girarmi.

 

 

 

 

LX

 

 

 

 

Quando sono ammattita ero andata dallo psichiatra e poi dal mio terapeuta.

 

Mi ero sentita trattata come una persona.

Una persona responsabile.

Nessuno si era sognato di chiamare la mia famiglia o parlato di internarmi.

 

Era la prima volta che dei professionisti mi trattavano così.

Non avevo mai visto, neanche nei vari ospedali, trattare un matto come una persona.

 

Solo mia madre l’aveva fatto nell’ultima crisi in Brasile.

 

Aveva chiamato lo psichiatra, ma mi aveva avvisato e io l’avevo ricevuto bene.

 

A differenza che nelle altre due crisi in Brasile, quando me l’avevano messo davanti improvvisamente, non mi ero sentita violentata, e avevo reagito come una persona responsabile che parla con il proprio medico.

 

Mia madre non aveva voluto internarmi, sapendo che trauma era per me.

 

Si era assunta lei la responsabilità di stare con me, senza infermiere.

 

Un po’ mi lasciava delirare, un po’ mi diceva: ” Dai, giochiamo a carte”, una valanga di partite a scopa noiosissime.

 

All’epoca, mia madre, aveva già passato gli ottant’anni.

 

Ma era una persona forte, coraggiosa, intelligente, capace di lottare.

E poi, mi conosceva e mi amava come solo può amare una madre.

 

In questa crisi, anche Mario, mio marito, mi aveva trattato come una persona.

Mi aveva accompagnato dal terapeuta, ma era rimasto fuori.

 

 

Non è facile raccontare quanto bene mi ha fatto questo modo di trattarmi.

 

Ha senz’altro fatto decidere la mia parte sana a restare con me, a non volermene più liberare, perché cominciavo a vederne i vantaggi.

 

Era un’esperienza nuova ed io, nonostante il delirio, che all’epoca, non era ancora stabile, ero ansiosa di apprendere.

 

Al vedermi trattata così, ero rimasta allibita, come qualcuno davanti a qualcosa che pensava non potesse mai succedere.

 

Qualcosa che era l’opposto di tutta la mia esperienza passata.

 

Nell’ultima telefonata, prima di partire per il mare, lo psichiatra mi aveva detto: “ Se a lei sembra di star meglio, diminuisca pure le medicine a suo criterio”.

 

Valeva la pena tenermi stretta la mia parte sana, quella che mi aveva fatto andare dallo psichiatra e dal terapeuta spontaneamente.

 

Non volevo più ascoltare il canto delle sirene, così affascinante, che mi chiamava nella terra dei malati.

 

Valeva la pena rinunciare ad un’identità già pronta, sedimentata da tanti anni.

All’epoca avevo già cinquant’anni.

 

Valeva la pena lavorare per formarsi un’identità di stigmatizzata abbastanza sana.

 

Valeva la pena…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXI

 

 

 

 

 

Questa nuova identità avevo cominciato a conquistarmela durante questa crisi.

Tutti avevano visto che ero malata e avevano visto come la mia parte sana lottava per sopravvivere, per non perdere troppo terreno.

Aveva l’energia dei bambini.

 

 

Quando è incominciato il delirio, avevo fatto questo sogno.

 

Una casa poligonale di vetri-cristalli, con due porte, una a nord e l’altra a sud.  Erano di un legno bellissimo, come quelle che avevo visto in Finlandia nella biblioteca di Alvar Aalto.

Nella serratura erano appese delle chiavi, semplici chiavi, che chiudevano le porte dall’esterno.

Erano state lasciate lì per chi volesse entrare.

Il proprietario era uscito. Non aveva evidentemente paura che rubassero qualcosa.

Era tutta in mezzo al verde come la Casa della Cascata di Wright.

 

Nel raccontarlo a tavola, dico: “Una casa è un’identità”.

 

E sto male in quel modo strano che mi prendeva da un po’ di tempo.

Mi sono ricordata, allora, di aver scritto che non avrei potuto avere un’identità che guardasse solo in avanti.

 

Era un’identità in cui il proprietario non c’era.

 

 

 

Mi era venuto anche  in mente il sogno di luglio.

 

Avevo sognato un grattacielo che era tutto del mio terapeuta, lo occupava tutto lui, per abitazione e studio.

 

A tavola, racconto anche la favola di Rodari “ L’uomo di cristallo”, un mito che mi apparteneva e che risaliva ai tempi del liceo.

Avrei voluto essere io, allora,  quell’ uomo di cristallo.

 

Ho pensato che mi era stata data un’identità possibile, ma solo virtuale, di cui non sapevo che fare.

Il progetto però non mi era stato dato, era solo mio.

 

Era un suggerimento del mio inconscio, un seme piccolo che avrebbe avuto bisogno di tanti anni e di tante esperienze per dare i suoi frutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXII

 

 

 

 

 

 

 

 

Avevo portato al mio terapeuta, sul lavoro, il compact con le musiche del film “ Guardia del corpo”.

Gli avevo anche scritto, su un biglietto, di questo terrore di essere matta.

 

 

Vivevo il delirio, in quei momenti che c’era, esperimenti e tutto, come un parassita che stava nella mia mente.

 

Stava lì, era un parassita piccolo, occupava un piccolo spazio.

Pensavo che un po’ bisognasse lasciarcelo stare, non disturbava il resto della mia mente.

 

Continuavo ad andare al lavoro e, a parte quel momento in cui avevo parlato al mio analista, il mio comportamento mi pareva normale.

 

Il mio analista non sembrava allarmato.

Sapeva e non prendeva provvedimenti.

 

Stava lì come una roccia.

Mio marito non diceva nulla.

 

 

Da alcune domande, che il terapeuta mi aveva fatto sul lavoro, mi era però sembrato che saggiasse fino a che punto ero matta.

Mi ero lasciata guardare tranquillamente.

 

Diceva delle cose strane, come uno che recitasse il delirio.

Ma non aveva disturbato il mio.

 

Sentivo che mi comunicava una grossa fiducia, e ancora più grande era la mia fiducia in lui.

Questa fiducia reciproca, che sentivo io, era così forte che mi “teneva”, anche mentre sentivo che stavo naufragando o che volevo naufragare.

 

Tutto mi sembrava troppo pesante, troppe cose si erano accumulate negli anni.

E anche non avevo gli strumenti per affrontarle, come per esempio, quella meravigliosa risorsa che era girare pagina, lasciarsi cadere le cose nel nulla, alle spalle.

 

Ma sapevo di non potere.

 

 

 

Avevo lasciato la mia capacità di protezione nel mio terapeuta, la mia fiducia era troppo grande, era una fiducia assoluta, era la mia guardia del corpo, proprio come di chi si sente in pericolo mortale.

 

Ma allora io non esistevo più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXIII

 

 

 

 

 

Parlando con la mia amica Donatella, avevo capito che ormai ero dentro una bella crisi.

Accettavo di mostrare a lei, e per la prima volta, la mia testa in effervescenza.

Così come accettavo di farlo con il mio terapeuta sul lavoro.

 

Dicevo alla mia amica che sentivo che c’era una situazione traumatica che ritornava e che, per nessi analogici, si incollava alla mia realtà.

 

Come se questi nessi, che poi vedevo io, avessero messo in funzione una vecchia bobina già filmata.

Che si sbobinava da sola.

 

E che la mia mente si trascinava là irrimediabilmente.

 

 

 

 

 

Ma non mi sentivo abbastanza forte, abbastanza aggressiva, per stringere in mano le differenze che erano macroscopiche.

 

Non ero più capace di difendermi e il mio io era troppo debole.

 

Nel quaderno avevo scritto, un po’ oscuramente: “La multistratificazione serve a non sapere più cosa c’è sopra, alla superficie”.

 

Era proprio la realtà e la coscienza che stavo perdendo.

 

 

 

Mi ripetevo e lo scrivevo sul quaderno:

“ Gli esperimenti, le telecamere, i films che leggi alla sera come un sogno, sono deliri, malattia, non devi avere dubbi, non bamboleggiarti in questo stato affascinante di incertezza, non c’è nessuna incertezza, è una tua parte malata, tua finché vuoi, ma malata.

Devi combatterla con tutte le tue forze, agganciarti alla realtà.

Hai cinquant’anni.

Perché diavolo li vuoi regalare al tuo terapeuta che ne ha già settanta?

 

Pensi che sia un regalo mostrargli che tutto il suo lavoro è stato inutile?”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXIV

 

 

 

 

 

Il mio problema immediato non era il mio terapeuta, ma il delirio.

 

L’avevo identificato come delirio e volevo combatterlo ossessivamente fino a farlo sparire.

 

Non occupava tutta la mia mente ancora, ma solo una piccola parte e andava e veniva, non era stabile.

 

Sapevo che lo stress, a cui mi ero sottoposta, aveva fatto emergere il mio inconscio, e che il mio io si era lasciato un po’ invadere.

 

Lo sentivo ammosciato, si era lasciato un po’ naufragare.

 

Dovevo ritrovare dentro di me tutto l’odio che avevo per la malattia, stigmatizzare io questa mia parte e ricacciarla indietro.

Separarla da me con fermezza.

 

Dovevo riprendere la mia età, la mia storia e la mia capacità di protezione di cui mi ero liberata.

Dovevo sapere che competeva solo a me farmi da guardia del corpo.

 

La mia testa era andata insieme e finalmente lo sapevo.

 

 

Ero pazza.

 

 

 

 

 

Il terapeuta mi aveva suggerito che il delirio bisogna viverlo per farlo passare.

 

Ma non potevo consegnarmi al delirio.

Dovevo viverlo, ma con una parte in armi.

La mia parte sana che, grazie a Dio, c’era.

E decisa a combattere la parte malata per affermarsi più saldamente lei.

 

Non potevo permettermi nessuna partecipazione al delirio.

 

Dovevo trovare l’energia dell’emergenza.

Il mio io doveva riprendere il suo terreno, riappropriarsi di tutto quel bel solido pavimento e fare barriera.

 

Appoggiandomi sulla mia parte sana, avrei riguadagnato anche la mia parte protettiva.

Non era più il momento di bamboleggiare, di passare il tempo a sognare un papà che fa danzare la sua piccola bambina per il mondo.

 

Il terapeuta mi aveva anche chiesto: “ Lei, la realtà la vede?”

 

Lì stava l’aggancio essenziale attorno al quale far ruotare tutte le mie forze positive.

 

Adesso si trattava di lavorare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXV

 

 

 

 

 

Il ventiquattro giugno era l’anniversario della morte di mia mamma.

Era morta l’anno precedente.

Avevo paura di andare alla messa e sentir pronunciare il suo nome.

 

Avevamo lo stesso nome oltre che lo stesso cognome.

In tempo di guerra – mi aveva detto una volta – non c’era tempo per cercare nomi.

 

Avrei sentito dire forte in chiesa che io ero morta.

Anch’io con lei.

Così mi ero sentita alla sua morte.

 

Era un lutto da cui non mi ero ancora ripresa.

Troppo importante era stata la sua figura nella mia vita.

 

 

Si era accorta che ero malata, e che avevo bisogno di cure, solo quando mi avevano internato a Parabiago.

 

Da quando sua madre si era ammalata, un ictus, tutte le sere, tardi, subito prima di cena, usciva dal lavoro e andava a trovarla.

 

Mi era sempre sembrato che fosse rimasta solo figlia.

Che non avesse potuto accedere all’idea di essere anche madre.

 

Troppo distratta dagli affari.

 

Non aveva potuto sposarsi l’uomo che amava, lui non aveva voluto perché troppo poveri.

Lui non si era mai sposato e mia madre, fino alla fine, aveva tenuto la sua foto nella sua agenda.

Allora aveva immaginato che i soldi, nella vita, aprissero tutte le porte.

 

 

 

Quando il medico di famiglia la incontrava da sua madre, le diceva sempre:

“ Ma perché invece di occuparsi di sua madre che sta bene, non si occupa un po’ di sua figlia? “

 

Mia madre non aveva mai chiesto di cosa parlasse.

 

L’aveva capito – così mi aveva detto – solo quando ero stata internata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXVI

 

 

 

 

Ma da allora non aveva smesso di occuparsi di me.

 

Era una persona che non avevo mai sentito lamentarsi di fronte alle difficoltà, ma diceva solo: “ Cosa c’è da fare?”

 

Mi aveva raccontato che una volta, appena sposata, con mia sorella piccola, era andata a lamentarsi dalla madre che tutto era sempre troppo difficile, che bisognava sempre lottare.

 

E sua madre le aveva detto: “ Figlia, augurati di lottare sempre, perché quando non lotti più, vuol dire che parti”.

 

 

Con la malattia mi ero avvicinata straordinariamente a lei: avevo bisogno di una figura molto forte nel mio mondo interno, una figura battagliera, capace di far fronte ad una malattia grave.

 

Mia madre era una persona ossessiva, non trascurava il più piccolo dettaglio.

Si mobilitava anche per quelle cose che, ad altri, sarebbero sembrate inezie.

 

Da una parte mi sentivo perseguitata e invasa, dall’altra ero sostenuta ad ogni più lieve respiro.

 

Mi intesseva una rete nella quale un po’ diventavo inerte, un po’ mi arrischiavo a qualche piccola iniziativa.

 

 

I miei dissapori con lei erano apparentemente spariti.

Avevo bisogno di lei come alleata.

 

Era lei che troneggiava nella mia mente e io cercavo di assomigliarle.

 

Quando era morta era sparita più di una parte di me.

Avevo perso l’unica vera alleata contro la malattia.

 

L’unica persona che mi aveva risparmiato l’internazione e che mi aveva sempre trattato come una persona.

Il vuoto che mi lasciava era infinito.

 

 

L’immagine del mio terapeuta mi aveva abbandonato.

 

Alla messa avrei sentito la morte anche della madre che vedevo in lui.

 

Non avevo più nessuno, neanche me stessa.

 

Ormai ero in completo delirio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXVII

 

 

 

 

In agosto, al mare, avevo avuto un sogno d’angoscia.

 

Ero in un ospedale psichiatrico, ma matta c’ero solo io, pubblicamente dichiarata matta.

C’erano degli psichiatri.

Ad un tavolo molto grande è seduto il mio terapeuta. La sua figura si confonde con quella di un fratello di mia madre morto da tempo.

 

E’ più giovane, lunghi capelli neri  e grandi occhi neri come mio zio.

Dietro il tavolo, una tenda da sceicco e uno spiazzo che dà in un mercato di frutta e verdura.

Passo davanti al terapeuta, che gesticola e parla con altri, per andare al mercato.

E’ la prima volta che mi vedo in un sogno: pantaloni blu, ballerine e sopra nuda con le tette penzolanti.

 

Forse al mercato non ci sono mai arrivata, perché mi trovo in una stanza stretta.

E qui mi rendo conto di cosa ho fatto: tutti sanno che sono pazza, l’ho annunciato io a tutti senza sapere cosa stavo facendo.

Non si può più tornare indietro.

 

Posso solo chinare il capo e vivere la pazzia pubblicamente.

Non mi ribello, è ineluttabile.

 

Non sono angosciata, solo molto seria, quella serietà, una concentrazione della mente, tipica del delirio.

Che dà un cerchio particolare alla testa.

 

Sono seduta per terra, con le spalle contro il muro, vicino ad una porta aperta, da dove sono entrata.

Uno psichiatra, col camice, alla mia sinistra, mi chiede della psichiatria in Brasile. Parliamo.

 

Nel sottofondo si parla bisbigliando di medicine, sottovoce, quasi una congiura fitta, a bassa voce, una rete, mi viene in mente.

Una signora, tipo megera, magra e secca, con una padella in mano da caldarroste, borbotta con qualcuno. Forse è una paziente.

 

Nel sogno mi viene in mente il popolino di Napoli, la leggenda, che vive di superstizioni, malocchi, fatture, numeri del lotto…

Questo popolino è presente, sparso dappertutto, ma sono molto piccoli e parlano sottovoce.

Nessuno si occupa di quello che dicono e loro non si rivolgono agli altri personaggi, che sono tutti più alti, me compresa.

 

La donna della padella dice che questa non si può più usare perché l’ho usata io per qualcosa di losco, qualche pozione magica, di magia nera.

La sento in sottofondo parlare con altri, mentre parlo con lo psichiatra.

 

Ad un certo momento dico: “ Bene, se è così, se sono proprio matta,  per prima cosa voglio parlare con il mio terapeuta” e chiedo di chiamarlo.

Qui c’è una parte che è stata cancellata.

 

Al risveglio ho avuto un vero e proprio attacco di angoscia, avevo bisogno di luce e sono andata sul terrazzo.

 

Era un incubo tutto scuro, sembrava una spelonca, anche la piazza e il mercato, solo la stanzina aveva una luce azzurrina da ospedale.

 

Non riuscivo a pensare proprio a niente, ero presa da tutto quel nero.

 

L’ho considerata un’immagine della mia identità, la parte conscia e inconscia.

La parte sana e la parte malata.

 

E quest’ idea non mi dispiaceva.

Pensavo a tutto quel brulicare di vita che era rappresentato dal popolo di Napoli.

 

Pensavo anche all’accusa di magia nera, magia che uccide, come una metafora della pazzia.

 

La mia parte cosciente, che sapeva di essere pazza, voleva parlare con il terapeuta.

Proprio come era successo nella realtà.

 

E quella padella che aveva fatto qualcosa di losco, cosa rappresentava? Una padella è un contenitore.

Era la mia parte femminile che era inservibile?

 

Forse era stata rovinata quando mi ero innamorata del terapeuta, un padre identificato con un mezzadro e, allo stesso tempo, una madre?

 

Ma da dove mi veniva una proibizione dell’incesto così terribile?

Avevo un gran buco nella testa.

 

In verità, nel rapporto con il terapeuta, mi ero costituita come figlia, figlia di un padre amoroso, comprensivo, ma fermo.

 

 

 

O forse la pazzia era qualcosa di nero, come un catrame, che attaccava tutta me stessa e gli oggetti che toccavo?

 

Mi ero anche stupita di aver fatto un sogno così arabescato, i miei sogni erano sempre molto semplici, “ da bambini”, aveva detto il terapeuta.

 

Ero ancora angosciata, forse era panico, qualcosa che veniva fuori dal nulla e si moltiplicava da solo.

 

 

Mi ero anche vista, nel sogno, per la prima volta.

 

Ero proprio io, così com’ero.

Vestita come mi vestivo.

Una rappresentazione realistica.

 

Era la prima volta che mi vedevo in un sogno.

Ho pensato che nella crisi avevo guadagnato un’immagine di me stessa intera, corpo e mente. Un’identità reale.

Potevo vedermi dall’esterno come si vede un altro.

 

Cosa avrebbe significato nella mia vita questa acquisizione?

 

Non sapevo ancora che questo era il passo necessario per percepirmi:

io, esistente, una delle tante figurine che hanno diritto a passeggiare nel mondo.

Approdata al mondo della natura e a quello degli altri.

 

 

LXVIII

 

 

 

 

 

Sentivo che adesso la mia parte malata si era compattata, non era più slabbrata, sparsa dappertutto, era ben irreggimentata.

La tenevo vicina perché non mi sfuggisse e andasse per conto suo.

 

Non volevo più vivere né da sana né da malata, ma le due cose insieme. Un’identità fatta così, con due porte.

 

La mia casa non era proprio di cristallo, la mia casa ancora da costruire.

Sapevo che sarebbe stata fatta di una duplice identità.

 

Sapevo anche che avevo bisogno di una sintesi.

 

Questa sintesi era rappresentata da me stessa, tutta intera,  io ero tutte e due, il mio io che sarebbe rimasto per sempre strabico, con un occhio che guardava a ovest e un altro a est.

 

Gli strabici esistono, sono persone come tutte le altre.

Anch’io avrei potuto essere una persona come tutte le altre.

 

Con un’area di solitudine che non avrei potuto mettere in comune con gli altri.

Potevo immedesimarmi nei malati, ma ciascuno di noi aveva una storia diversa.

E poi non rappresentavano una comunità.

 

Potevo immedesimarmi nei sani, ma una parte mia sarebbe stata per loro inaccessibile.

 

 

Non era la solitudine che abbiamo tutti per il fatto di essere nati con un’individualità unica.

 

Era una solitudine che cementava la mia individualità di sana e malata.

Una persona con due porte.

 

 

Un giorno – mi dicevo – avrei sentito la mia parte pazza così bene in mano da tenerla in tasca e tirarla fuori al momento del bisogno.

Sapevo che aveva un’energia e un tipo di pensiero che mi sarebbero stati utili.

 

Se solo riuscivo a non farmela sfuggire.

 

Dovevo addomesticarla e insegnarle a non aver paura.

Tenendola vicino alla parte sana, avrebbe imparato.

Doveva imparare ad abitare nei propri territori senza invadere.

 

Sapevo che non dovevo eccitarla esasperandola con tanti conflitti.

Non dovevo più sottopormi a stress per non perderne il controllo.

 

E comunicarle che la sentivo mia, che l’amavo come amavo la parte sana.

Che me la tenevo vicina perché sapevo che mi era utile.

 

 

Ero una persona stigmatizzata  che avrebbe cercato di essere produttiva nonostante questo e a partire da questo.

Questo lavoro è una testimonianza di questo bisogno.

 

E, grazie al cielo, la mia sanità non sarebbe mai stata molto squadrata. Non sarei mai stata una persona come quelle “… cui risuona lo scheletro e cantano con una voce piena di sole e di sassi” ( Garcia Lorca).

 

 

 

Cercavo più di tutto di mettermi davanti i vantaggi di avere una parte sana, che si era già vista nella crisi, e una parte malata che rimanesse tranquilla.

 

Era lei il retroterra della mia personalità, mi dava profondità e spessore.

Sapevo che era sensibile all’adulazione e a me non costava vezzeggiarla.

 

 

 

 

 

 

LXIX

 

 

 

 

 

Mi ripetevo tutte queste cose positive per avere il coraggio della costruzione che sarebbe stata lunga e difficile.

 

Mi cantavo una canzone brasiliana: “ L’amore è un’agonia, viene di notte e poi va via, è un’allegria e un pianto e poi soltanto nostalgia”.

 

L’amore che sentivo, adesso, per me, era stato un sentimento difficile da far sbocciare.

Ma non volevo lasciarlo andar via.

 

Anch’io ero un’allegria e un pianto che, forse, con gli anni, sarebbero diventati solo nostalgia.

 

La nostalgia è un bellissimo sentimento, si ha nostalgia solo di una cosa buona.

Con gli anni avrei potuto guardare ad un percorso tanto lungo con il sentimento della nostalgia, perché mi sarei riconciliata con il mio destino.

 

Ma non avevo più nostalgia di una parte solo malata.

 

 

Una persona psicotica, psicotica e sana, allo stesso tempo, mi sembrava molto diversa dalle persone cosiddette normali, tutte variamente nevrotiche.

 

Sentivo che sarei stata un’innamorata della realtà, la realtà era la mia unica vera bussola.

Mi ci sarei radicata, amandola come solo può amare un amante separato da troppo tempo dalla donna amata.

 

Mi sembrava che tra la mia parte conscia e quella inconscia ci fosse un rapporto fluido, come di un liquido che circola.

 

Questo tipo di rapporto mi portava ad avere il bisogno di una continua elaborazione.

Non potevo tagliarmi delle parti, delle esperienze, e lasciarle cadere nel vuoto.

 

Bisognava ancora vedere se ero capace di egemonizzare questa parte inconscia: ma nel sogno dell’ospedale ero più alta del popolino.

Questo mi sembrava di buon augurio.

 

 

Mi sentivo capace di modificare la mia realtà interna e, nello stesso tempo, rivendicavo il piacere, la reciprocità…

 

Potevo finalmente affrontare la realtà esterna, adesso ero equipaggiata.

 

Sentivo la necessità di trovare situazioni in cui fosse possibile realizzare i miei bisogni.

 

Adesso che sapevo che non erano più infiniti.

Che una volta soddisfatti si saturavano.

Era stata, questa,  una scoperta straordinaria.

 

 

 

Mio marito era il mio tu, nella crisi avevamo ritrovato una nuova solidarietà, quell’intimità che nasce quando si riconosce un bisogno reciproco.

Una simbiosi limitata che non costringeva, ma cementava il nostro essere.

Non faceva più paura perché era soave.

 

 

Dovevo solo capire che non si trattava di trovare una persona capace di soddisfare i miei bisogni, sempre eccessivi,  ma che ogni persona sarebbe stata in grado di darmi una pagliuzza, o più di una, e che io le avrei raccolte per farmi un nido nel cuore.

Come fanno gli uccellini che usano le cose più disparate.

 

Solo così mi sarei sentita amata, di quell’amore che mi sembrava necessario per vivere.

 

E che, soprattutto, quell’amore che cercavo non poteva nascere solo dagli altri, ma dal poter mettere a frutto le mie capacità.

Non sapevo ancora come, ma avevo la pazienza di aspettare.

 

Ho provato a farlo con questo lavoro.

 

Avevo un’emozionalità tranquilla, costante, che mi veniva dalla sicurezza di aver potuto sopportare di perdere tutto, di morire quasi, e poi di aver saputo ricostruire.

 

Era meglio che niente fosse successo?

Forse, ma avevo imparato molto.

 

E mi rimaneva dentro una gran voglia di ridere di questo mondo così buffo.

 

TITOLO>ULTIMA PARTE

 

 

E’ QUESTO IL LIBRO SIU CUI LAVORO E DA CUI ATTINGOPER

 

 

 

Vedi sotto libro bruna, libro capitoli, con tutti i link pronti

 

Oggi 10 agosto fino a pag.86 circa messo sul blog

 

Oggi 23 ottobre 2013 metto sul blog da pag 86 circa fino a pag.

 

parti precedenti si trovano in:

I. 8 aprile 2013 ore 18:42 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA: UN DELIRIO “A DUE”. parte 13-14

 

II. 11 aprile 2013 ore 06:51 CHIARA, ULTIMA PARTE, n.15/16

 

III. 28 APRILE 2013 ORE 18:24 PARTE 18-19/// UN “DELIRIO A DUE” (CON IL “MIO” ZAPPAROLI) ANNULLA QUELLA SOLITUDINE DA “PIETRA CHE ROTOLA SU UN MARCIAPIEDE DI SQUALLORE” E MI APRE AL SOGNO DI UNA RIVOLUZIONE CULTURALE PLANETARIA E ALLA PASSIONE DELLA SPERANZA IN UN MONDO “DI PERSONE”, FINI NON MEZZI.

 

IV. 4 MAGGIO 2013 ORE 08:45 ULTIMA PARTE LIBRO CHIARA: UN DELIRIO A DUE E SVILUPPI: PARTE XX- XXIII

 

V. 10 maggio 2013 ore 07:37 ultima parte libro di chiara: dal ricordo del mezzadro. (Parte IV)… “si origina una parte mia in cui sono autogenerata” cap. XXIV-XXVII

 

VI . 10 giugno 2013 ore 07:24 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA/ CAP. XVIII-XXX “COME CONSEGUENZA DELL’EPISODIO DEL MEZZADRO CAMBIA IL MODO DI VEDERE MIO PADRE”

 

 

 

 

VII. UN’IDENTITA’ POSSIBILE-

27 luglio 2013 ore 09:30 VII. un’identita’ possibile e la violenza della fine del delirio //UN ALTRO PEZZO DEL LIBRO DI CHIARA (PRIMA STESURA)

 

 

 

VIII. Un’identità da strabico, un occhio ad ovest ed uno ad est

(parti XXXV-ILVI)- libro chiara, ultima parte (prima stesura)

10 agosto 2013 ore 16:41 LIBRO CHIARA, ULTIMA PARTE (CAPP. 35-46) —UN’IDENTITA’ DA STRABICO, UN OCCHIO A OVEST ED UNO A EST

 

13. Nell’ultima crisi il delirio si è modificato nella sua struttura interna perché è diventato un delirio a due: l’immagine del terapeuta infatti era attore e protagonista del delirio tanto quanto me.

Penso che questo sia successo perché per la prima volta, in questa nuova terapia, sono uscita da quel terribile isolamento che ha caratterizzato la mia vita.

Per me, la caratteristica fondamentale della malattia mentale è l’isolamento cui viene costretto un individuo che si fabbrica addirittura un codice mentale tutto suo che gli impedisce la comunicazione con gli altri. Ma in questa esperienza di delirio “partecipato”, diciamo così, sono in parte sfuggita a quella che considero la più terribile tra le caratteristiche della malattia mentale. Il mio terapeuta non mi ha lasciato andare sola per il mare aperto.

 

Per parlare di questa esperienza mi viene spontaneo rivolgermi a lui come se gli dovessi raccontare una fiaba. Alcune volte mi sono sentita, ai tempi della terapia, la sua Sherazade, anche se non ho mai avvertito in lui alcuna minaccia di tagliarmi la testa; ha al contrario sopportato il mio amore con molta rassegnazione.

 

 

Nella terapia con lei, che è stato il mio ultimo analista, in Italia, dopo il mio ritorno dal Brasile, più malata di com’ero partita, il mio mondo interno era cambiato.

 

Lei mi aveva mandato in Brasile con una diagnosi di simbiosi: dovevo fare analisi e stare il più lontano possibile dalla famiglia per curarmi.

 

Al mio ritorno nell’ottantasei mi aveva parlato di “ simbiosi focale”, della possibilità cioè di ridurre la simbiosi ad un punto, un “focus” appunto, senza bisogno di curarla totalmente cioé farla sparire.

Forse una chiarificazione della sua diagnosi d’allora.

 

La simbiosi focale – mi aveva spiegato – permette alla persona di sopravvivere autonomamente, e lo può fare perché quel lembo della mente, nella quale l’io non sopravvive se non incollato ad un altro, lo alimenta continuamente come un fuoco benefico che non si spegne mai.

Lì, in quel punto della mente, vivevo in braccio a mia madre, mio padre e mia sorella.

Ma proprio quest’aspetto, se lasciato stare, permette alla persona di sentirsi autonoma. Questo è, almeno, quello che avevo capito io.

Senza questa possibilità della mia mente, non mi avrebbe mandato tanto lontano.

 

Oggi, che sono passati trent’anni dalla sua diagnosi di allora, so che in una piccola area della mia anima vivo in una culla dove ho bisogno di essere accudita. In quest’area posso esistere solo se ho l’assoluta certezza che le persone che vi hanno accesso mi vogliono veramente bene.

Di questo devo avere l’assoluta sicurezza.

Altrimenti questa parte deve vivere murata.

E’ questo uno dei vertici da cui guardo questa parte: nel racconto ne userò altri, diversi da questo o anche in contraddizione, perché in questo mondo sotterraneo la coerenza è un filo così sottile che a volte scompare.

 

 

E’ perché la mia mente contiene questa parte che, a mio parere, posso diventare pazza: lì, in quest’area, c’è una voragine buia – invece di un pezzetto di identità – un’angoscia di annichilimento- invece di un tessuto mentale- un panico senza nome- invece della possibilità di un linguaggio. A diciotto mesi, il rapporto simbiotico con mia madre si è violentemente spezzato e, lei, per me, è sparita come fosse stata inghiottita da un lupone nero.

Questa è, per me, l’origine di quest’area.

Negli anni questa parte si è accresciuta tutte le volte che ho provato un abbandono, e abbandono erano per me cose grandi come la totale assenza, ma anche cose molte piccole come uno sguardo non dato. L’effetto di questi molteplici abbandoni era sempre lo stesso: mi guardavo in uno specchio immaginario, che stava dentro di me, e non scorgevo nessuna immagine. Mi prendeva allora molta angoscia che trovava sollievo nel descrivere minutamente sul quaderno di turno cosa sentivo precisamente in quel momento.

 

E’ perché ho quest’area “simbiotica” che non posso stancarmi né sottopormi a stress eccessivi, perché il mio io deve poter avere la tranquillità e l’energia disponibile per accudirla.

La funzione del mio io è, soprattutto, di filtro e di trasformazione degli stimoli: se questa funzione viene a mancare, come succede sistematicamente nel periodo che precede una crisi, questa parte rimane invasa da un linguaggio che le è alieno e che la porta ad un panico cosmico.

Vorrei spiegarmi, anche se le semplificazioni sono sempre un po’ ridicole: se una persona a me cara non mi guarda perché giustamene concentrata in altro, e magari io quel giorno non sto bene, il linguaggio “alieno” da evitare è la mancanza di amore, l’abbandono; al suo posto, il mio io deve raccontarmi la storiella:

“ Questa persona ti vuole bene, ma come sai oggi è molto preoccupata ecc. ecc.” e ripeterla finché questa parte testona la capisca.

 

 

 

 

Questa parte della mia mente ha avuto una sua evoluzione con il passare del tempo.

Ha contenuto la parte più drammatica del rapporto con mia madre, un rapporto che non poteva avere una reciprocità perché mia madre era quasi sempre l’attrice ed io quasi sempre l’esecutrice o meglio la spettatrice.

 

Oggi c’è, invece, con mio marito, una riconosciuta vulnerabilità a due, un tremore soffuso uno per l’altro, che ci porta insieme ad un bisogno di proteggere e di essere protetti. Così la mia culla originaria si è trasformata in una culla a due.

Questo, naturalmente, quando va tutto bene, ma tutti noi sappiamo che “anche nelle migliori famiglie non sempre va tutto bene”.

In questa mia parte così fragile è stata introdotta un’aria di soavità che non ha prezzo, anche se c’è voluta una crisi di mania e una lunga depressione.

 

 

La crisi cui faccio riferimento è l’ultima crisi di mania che ho avuto e risale al giugno del ’94. Avevo già terminato l’analisi da qualche anno e svolgevo alcune attività nello studio del Prof. Zapparoli.

Era morta mia madre da quasi un anno e, anche se apparentemente ero rimasta tranquilla, lo sconquasso interno era stato grande.

In quella parte della mia mente (che non so se chiamare simbiotica o di fallimento della simbiosi) si erano spente tutte le luci e di quel vuoto di immagini io avevo paura.

Quello che mi aspettava era un lungo periodo di trasformazioni nel quale avrei faticosamente appreso la reciprocità, ma quella mia parte non conosceva la parola “attesa”: morto il sole intorno a cui ruotava, ne esigeva subito un altro.

Quello che ho fatto io allora – lo capisco solo oggi- è stato sostituire mia madre con il mio terapeuta, per il quale sono stata presa da profonda passione.

 

 

 

 

 

8 aprile 2013 pubblico sul blog anche la parte 14 (tutta fino a 15 escluso)

 

14. Il mio amore per lei non era solo ricerca di un partner per la simbiosi, non era solo bisogno di un sostituto vivo di mia madre che era morta. Quello che non sapevo allora era che la mia terapia, già conclusa, aveva invece bisogno di una “conclusione ferma” che non c’era stata e che questa conclusione era legata all’idea di padre che era rimasta incompleta.

Lei, vivo, veniva così a rappresentare, nel delirio, tutta la mia famiglia che non c’era più.

 

 

Anche lei era il direttore di un’équipe in questa crisi, ma mi ero avvicinata alla reciprocità, che tanto bramavo, e il mio delirio la rappresentava.

 

Lei si sottoponeva all’esperimento tanto quanto me, ne soffriva come io ne soffrivo, e con me delirava, eravamo nella stessa barca, solo che lei remava da capitano e io da marinaio.

 

“ O Capitano! Mio Capitano “, il nostro viaggio tremendo è appena cominciato (da Whitman).

 

Anche lei non era pronto a questo nuovo mondo che pareva schiudersi, anche lei era portatore di una cultura di dominio e di sopraffazione.

Anche se non solo.

Lei poteva vivere in due stadi diversi senza sentirne la contraddizione.

Era ben adattato.

 

In questo nuovo mondo sarebbe diventato un dovere essere felici.

Aver piacere.

Essere accolti e accogliere gli altri.

Essere trattati come persone.

Non più pacchetti, “dei fini e non dei mezzi”.

 

 

Il delirio nasceva dai miei rapporti attuali, anche se l’io forte che sentiva quell’angoscia di spaesamento, come una fiammella viva gettata nel firmamento, e andava avanti, aggrappandosi ad ogni minima cosa per continuare il suo lavoro, era il mio io dell’infanzia.

 

Ritrovavo una sicurezza e una determinazione che dall’adolescenza non avevo più posseduta.

 

Incastrata da anni in rapporti non reciproci, il delirio era uno specchio rovesciato: vivevo in lui tutto quello che non potevo vivere nella vita reale.

 

In lei ho creduto di vedere un “tu” possibile e mi sono sentita

“ insieme” come non mi era mai stato possibile prima.

Solo con lei ho superato anni e anni di incomprensione, un tunnel di pietra grigia dal quale credevo di non uscire mai più, di non vedere mai più la luce.

 

 

 

Con lei ero Euridice che usciva dal mondo dell’Ade, ma lei non si era mai voltato indietro, sapeva che ero con lei e non si lasciava prendere da dubbi.

 

Vivevo in uno stato ben rappresentato da questi versi di Rilke:

 

Raccolta in sé e come trasognata,

non pensava a colui che le era innanzi,

né alla strada su verso la vita.

Era raccolta in sé, e la impregnava il suo stato di morte.

Se un frutto è pregno di dolcezza e d’ombra,

quella sua grande morte la colmava,

così nuova che nulla lei coglieva.

 

Ma lei mi aveva tenuto per mano con fermezza e “simpatia” lasciandomi vivere “la mia morte” per quattro lunghi anni fino a quando io stessa non ne avevo potuto più.

 

Parlava poco e aveva sempre l’aria di dire cose importanti.

Molte le ricordo, anche se le cose che lei mi diceva sono ancora oggi molto confuse.

Lei mi ripeteva che non sopportavo di sentire di aver bisogno di qualcosa, che non volevo provare piacere perché avrei dovuto accettare che il piacere finisce: queste sue frasi sono fonte di angoscia oggi, così come lo erano allora; io non potevo capire, tutto era troppo difficile per me.

Quello che mi succedeva era che le vivevo come un attacco, come una forma di disprezzo, quindi come un abbandono e, questo, proprio da lei, non potevo sopportarlo.

Queste sue frasi sono tutte così schizzate di nero che ancora oggi non posso “leggerle”.

 

Ricordo invece molto bene -perché lo capisco bene – che “non volevo veder nascere la Primavera”. Questo lo capisco bene perché sapevo della mia vita passata in gramaglie, espiando colpe mai commesse, tutta incentrata intorno al dolore; invece il diritto alla Primavera significava il diritto a star bene, ad essere felice.

Il diritto alla Primavera significava il diritto alla felicità con Mario, anche se allora non lo sapevo.

 

 

Alla fine, dopo tanti anni, lei era stata la mia salvezza.

 

Forse perché l’avevo fabbricato con le mie mani.

Era così e non era così.

 

Avevo intravisto un altro nella sua differenza da me.

Aveva dissipato le mie nebbie.

 

E avevo vissuto una relazione con lui.

Di questo ero certa.

 

Mi ero dovuta adattare alla sua personalità così lontana da tutte le persone da me conosciute.

 

Anche ai suoi scatti d’ira.

Due volte.

Pochi, ma c’erano stati.

 

Alle sue illuminazioni improvvise che mi sconcertavano e mi fornivano un nuovo modo di vedere.

E una meta.

Ma non i vari passi, a partire dalla mia realtà del momento, per raggiungerla.

Questi me li ero dovuta costruire da sola.

 

Da sola, insieme a lei e, a volte, da sola, senza lei.

 

 

 

Ma era ugualmente vero che non ero uscita da me stessa.

 

Questo mio delirare sulla reciprocità aveva la funzione di un mito cui tendere che mi nascondeva il fatto che ero io che non ero riuscita ad uscire completamente dal mio cerchio, ammesso che qualcuno mai esca completamente dal suo cerchio.

Questo delirio in cui lei non era un generico “altro” cui rivolgersi, ma un vero protagonista, qualcuno che era quasi importante come me, rappresentava il grado di apertura all’altro che avevo raggiunto nella terapia, ossia qualcuno che è là, fuori di noi, indipendentemente da noi, con reazioni e movimenti propri, ma attento ai nostri bisogni: lei delirava con me perché ad ogni istante stava con me in funzione di accudimento. Ma era “accanto” a me, “con” me, non là alto sullo “schermo” come accadeva nei precedenti deliri.

 

 

E’ anche vero che lei mi aveva tirato fuori da un’autentica prigione, una prigione in cui mi ero incatenata, un tunnel grigio di cui non mi accorgevo, e sulle cui pareti, le continue immagini del mondo e delle persone che sorgevano, erano appena un vago riflesso di me stessa.

 

 

Così tanti anni di malattia – la prima depressione seria mi era arrivata, come un pacco improvviso, a dodici anni – mi avevano costruito una fortezza dove mi ero barricata per resistere.

 

Dovevo vivere concentrata su me stessa per spiare i primi segni d’allarme.

Dovevo farmi una facciata normale per non destare sospetti.

 

A nessuno avrei potuto raccontare quelle sensazioni catastrofiche che mi attraversavano, di cui non sapevo venire a capo.

 

 

15. Ma una volta avevo provato a raccontarmi.

Una brutta delusione d’amore a quindici anni, un abbandono che era una riedizione di cose antiche, mi aveva fatto sentire perduta, fuori dal mondo degli altri e senza più un mondo mio.

 

 

 

La mia crisi di depressione si esprimeva in termini teologici.

 

Sentivo di non poter più credere in Dio e mi ero rivolta ad un sacerdote.

Ma anche lui, così capace d’accoglimento, non aveva potuto capire.

 

Quello che io non sapevo esprimere era che “l’essere” mi aveva abbandonato perché io ero crollata dentro.

 

Un’implosione.

 

Ero solo frammenti che raggruppavo malamente con la forza di volontà.

 

Un’impalcatura che doveva tenermi in piedi, ma dentro un vuoto catastrofico, perché la mia spina dorsale si era spezzata.

 

Evidentemente la mia vita fino allora, apparentemente così normale, con successi scolastici, nella musica, nel ballo, nel canto era stata costruita su un vuoto, come una palafitta senza pali.

 

Ero una farfalla ridiventata bruco e faticavo ad abituarmi ad una vita di miserie e d’ incapacità.

 

 

 

 

 

“ Mi sento come se un’invasione di cavalli selvaggi fosse passata dentro di me.

Sono come un terreno brullo e lacerato che, nella sua miseria, non può sperare salvezza in se stesso, ma mi trovo in una regione così remota dove nessuno può penetrare, neanche lo sguardo di Dio.

Mio Dio, pensare a te mi dà solo sofferenza.

Ho delle rivolte dentro, fisiche e spirituali, contro me stessa e contro tutti, come degli sforzi di vomito.

E’ persino incredibile come una persona possa essere sola, una solitudine che ti fa volgere la faccia contro il muro per non vedere neanche te stessa.

Io non riesco ad esprimere quello che provo: se potessi vomiterei la mia anima.

Vedi, mio Dio, non posso venire neanche in Chiesa, perché accettarti significherebbe togliermi dal mio abbrutimento e insieme a te dovrei affrontare tutta la realtà e ne rimarrei travolta.

La mia non è viltà, è un’impossibilità fisica ad affrontarla, insieme con la mia anima, è tutto il mio corpo che si rivolta.

Poter esprimere la mia rivolta con un urlo infinito che travolgesse ogni ragione, sarebbe la mia salvezza”. ( quaderno, 12-12-‘61)

 

 

 

 

 

Questo passo, che mi è venuto in mente improvvisamente, e che sono andata a ripescare – allora avevo diciassette anni – documenta la frammentazione del mio io e l’angoscia di annichilimento che sentivo.

 

Più avanti dico “ E’ come obbligare un ghigliottinato a camminare senza testa”…

 

A parte il linguaggio “pulp”, quest’immagine esprime quanto profondamente fossi regredita perché era proprio la testa e le sue funzioni che se n’erano andate. Sentivo la ragione un impaccio più che un’àncora di salvezza, e vedevo nella pazzia un’uscita per una catastrofe interna così grande, come se slittare per la tangente avesse potuto salvarmi dal dovere che sentivo di mantenermi in vita.

 

Una strada qui solo intravista, ma che, in seguito, sono stata costretta ad imboccare anche se sempre con molto tremore.

Qui la vedevo come una liberazione, in seguito mi è apparsa come una tremenda costrizione.

 

Di questa esperienza mi è rimasto dentro, per tanti anni, il terrore di impazzire, e insieme la sensazione che questo destino fosse già scritto, in attesa solo dell’occasione propizia.

 

Forse, la prima volta che sono impazzita, sono impazzita anche per tutte le volte che non era riuscita a farlo perché, nel mio mondo, la parola “pazzia” semplicemente non esisteva: ci sarebbe voluto – tra le tante condizioni che mancavano – lo scioglimento da tutta una situazione familiare in un modo che, allora, mi era impossibile.

 

Ho potuto farlo solo andando a Milano per l’università e quando la terapia con lo psicologo mi aveva ormai sradicato dal mio ambiente e dalla sua cultura così concreta e piena di buon senso, di sano realismo.

 

Lo psicoanalista cui mi sono rivolta al mio ritorno dal Brasile in Italia nell’’87, mi parlava del diritto di impazzire, anche se non sono certa di aver capito cosa volesse dire.

Nella mia testa la pazzia è sempre stato qualcosa da impedire ad ogni costo perché, ad ogni crisi, la probabilità di avere una ricaduta, aumenta enormemente: dopo la mia prima crisi, dopo il lungo periodo di depressione che ne è seguito, non è passato un anno che sono ricaduta in un’altra crisi di mania e per ragioni più futili, diciamo, che la prima volta..

 

Ad ogni crisi si introduce una nuova vulnerabilità in un sistema già vulnerabile, come se la ferita non avesse avuto il tempo di cicatrizzarsi, perché questo può avvenire solo in tempi molto molto lunghi, ammesso che possa mai avvenire.

 

Dopo aver vissuto la mia – finora- ultima crisi di mania nel ’94, mi sono venuti dei dubbi su questa mia convinzione così netta, anche se forse non saprò dirli chiaramente: ne parlo verso la fine di questo racconto: questo periodo così difficile è stata vissuto da me non come una distruzione, ma come fosse una tappa di crescita necessaria per liberarmi di tante immagini che mi tenevano presa; come avessi bisogno di liberarmi di un guardiano che mi teneva schiava in una tana, impedendomi di venire alla luce ed essere un essere umano capace di esprimersi e realizzarsi come tanti altri. Per essere più fantasiosa dovrei dire: liberarmi di una zavorra che mi impediva di volare.

Fare questo lavoro, e non da sola, ma con voi, che mi state leggendo, è una maniera di volare.

 

 

 

 

Una reazione così terribile come quella dei diciassette anni, sarebbe inspiegabile per l’abbandono di un ragazzo, anche per una persona dai sentimenti violenti come me, a meno che non si possa pensare alla riapertura di una lacerazione più antica.

 

Quello che era successo si era incollato, per quei misteriosi legami che la mente stabilisce, ad un abbandono sentito come catastrofico quando, da piccola, non avevo alcun strumento per farvi fronte.

 

A diciotto mesi, quando il mio mondo a due era sparito, l’abbandono che avevo vissuto deve essere stato registrato come l’abbandono dell’essere stesso, della radice della vita.

 

Di qui è nata, probabilmente, quell’attrazione che sentivo per il non essere, per l’ombra, e l’impossibilità di sentirmi “esistente”, perché questa sensazione primordiale ti deve essere trasmessa da un altro o piuttosto non ti deve essere tolta.

La vita poteva essere accettata solo con molto sforzo di volontà e il morire, invece di essere spaventoso, mi appariva dolce, o piuttosto “a portata di mano”.

 

Forse, anche allora, in quei primi mesi, come è successo in seguito, avevo trovato il modo per trasformare il panico, davanti a quel film nero che scorreva dentro di me e registratosi nel mio tessuto mentale, in attrazione per il vortice: un processo opposto, questo, a quello che succede quando abbiamo terribilmente paura di qualcosa, ma ne siamo inconsciamente attratti.

 

Queste sensazioni antiche non facevano parte del mio vissuto quotidiano, ma sorgevano solo nelle crisi, nel delirio e, più nascostamente, nelle depressioni.

 

17. L’uomo non può vivere senza attribuire un significato alle cose e il delirio nasce proprio da questo nostro bisogno di significare la realtà: qualcosa, ad un certo punto della nostra vita, ci toglie il tappeto da sotto i piedi, tutto il nostro modo di sentire e di vivere si modifica brutalmente e, improvvisamente, gli schemi mentali che abbiamo non fanno più senso, dobbiamo abbandonarli, ne appaiono a poco a poco dei nuovi, misteriosi e bizzarri, che si rivelano però utili in questa nuova realtà che ha i piedi per aria.

 

 

 

 

In fondo un delirio non è diverso da un’ideologia o da una religione, perché nasce dallo stesso bisogno: dare un significato al mondo e a noi stessi.

 

Ma quando è l’ideologia ad essere simile ad un delirio?

 

Non eravamo forse pazzi, noi, negli anni Sessanta, quando prendevamo a modello l’Unione Sovietica, quando da alcuni dati potevamo estrapolare una visione complessiva di una società che non conoscevamo sufficientemente?

Non sapevamo dei milioni di morti, è vero, ma anche non volevamo sapere: per non perdere quel cielo cui ci tenevamo appesi e che ci teneva in piedi.

Eravamo un tipo di gioventù che aveva bisogno di grandi ideali, così grandi che la realtà non bastava a contenerli: avevamo bisogno dell’utopia come unica dimensione umana e così, in fondo, molti di noi sono rimasti.

 

 

Oppure, parlando di religione, non è una forma delirante ammettere un dio dispensatore di una punizione infinita come l’inferno eterno? Come si può pensare un essere finito, che nasce e muore, meritevole di una pena infinita? Capisco una religione solo perché insegna l’amore e il perdono.

 

 

Forse non è pazzia quando il delirio è collettivo?

Se è un delirio condiviso e rispettato, reso dignitoso da questa comune appartenenza, non è più delirio?

E’ la conformità sociale che toglie qualunque patologia alle strutture deliranti?

Ma anche il Fascismo e il Nazismo e lo Stalinismo erano condivisi dalla maggioranza della gente.

 

E anche oggi la soluzione della guerra come mezzo di risolvere i conflitti, se pensiamo alle morti, alle terribili sofferenze che comporta, non appare un pensiero delirante a cui la maggioranza sembra soccombere?

 

Le credenze, come i deliri, nascono da frustrazioni reali e immaginate, da bisogni attuali e antichi, e sono portatrici di un futuro migliore, proprio come i deliri. Che cosa li distingue da una patologia? E’ possibile credere che un delirio condiviso non sarebbe più delirio?

 

Chi crede in un’ideologia, o in una religione, non soffre, non si sente spaesato, anzi si sente più vivo e più creativo: è una forma di delirio benefico.

Ma la sua struttura immaginifica è, a mio parere, molto simile ad un delirio.

 

Il malato si appella ad una capacità di fabulazione che è universale.

 

L’uomo sembra non poter vivere senza un’immagine del mondo.

E quando questa non si adatta più ai bisogni, ne inventa un’altra.

 

Questa è la ragione del delirio.

 

Molte volte, nel corso di questo racconto, ripeterò questa frase: “ questa è la ragione del delirio” dicendo cose diverse: questo succede perché le ragioni da cui nasce un delirio sono tante, molte di più di quelle che posso avere intravisto nella mia esperienza.

E tutte sono importanti.

 

Ma una cosa mi pare essenziale, ed è quella che ho già detto, cioè l’incastro di una vivenza antica in un presente che la rende attuale. Questo a me pare il nucleo essenziale attorno al quale ruotano tutte le altre innumerevoli significazioni.

Come se il delirio fosse una cellula: esiste un nucleo ed un tessuto connettivo intorno e, senza quest’insieme indivisibile, una cellula non esiste.

E così è il delirio.

 

 

17. Nel delirio a due si modifica la forma del delirio perché il dialogo si sostituisce al monologo.

Esiste inoltre una corresponsabilità in relazione a quanto succede che permette una certa condivisione dei pericoli: io ero il marinaio, a me toccava il lavoro duro, meschino, triviale, ma i grandi problemi toccavano a lei.

 

 

 

 

 

Lei delirava con me.

 

E questo cambia il tipo di delirio perché ne cambia i rapporti interni, la struttura.

 

Cambia il mondo rappresentato dal delirio perché da solipsistico diventa un mondo dove si è con qualcuno.

Dove c’è un altro che suggerisce immagini, sensazioni e soprattutto presenza.

 

Il delirio diventa condiviso, c’è un tu, un altro osservatore che partecipa e com-patisce.

 

Non c’è più un’unica figura che si stampa sul mondo e lo modella, ma c’è un altro che condivide l’onnipotenza e, insieme, la relativizza.

La responsabilità, così terribile, diessere l’unico creatore di significato si scioglie nell’abbraccio con un altro.

 

L’angoscia si partecipa, ma non si riceve, perché l’altro la contiene, per quanto è possibile ad un tu immaginario.

 

La relazione con la dilatazione del tempo e dello spazio si mantiene anche nel delirio a due.

Così la continua possibilità del delirio di generarsi da solo.

 

 

 

 

 

Lei delirava con me.

Ma lei non era pazzo.

 

Voglio dire che la mia immaginazione l’ha portata vicina a me, così vicino da partecipare al delirio, ma ha mantenuto inalterata la sua funzione di terapeuta senza mai deturparla. Questa doveva rimanere sacra perché solo a questa condizione potevo salvarmi.

 

 

Soffrivo come una bestia, come nelle altre crisi non era stato possibile( il mio cuore correva all’impazzata ed ero spaventata all’idea che mi venisse un infarto all’improvviso ) perché ero più lucida.

 

Io stessa mi ero presentata allo psichiatra dicendo : “ Sono in delirio, mi deve dare le medicine.

Sono su un treno da cui vorrei scendere, ma non so come “.

 

Lo psichiatra aveva ritenuto che se uno è cosciente del delirio, non è veramente in delirio e mi aveva prescritto una dose di Haldol “ da bambini”.

 

Questa mancanza di medicine aveva peggiorato la mia angoscia, ma mi aveva lasciato più cosciente, più capace di lottare.

Il delirio era stato più breve.

 

Ma non vorrei ripetere quell’esperienza.

 

 

 

18 Ero accudita da lei ad ogni istante. Lei era il mio punto di riferimento e il mio compagno di viaggio con cui condividere ogni istante come vivesse dentro di me: lei era, infatti, il rappresentante di tutte le figure amate della mia famiglia che, sempre, in questi momenti, risorgevano a sostenermi con tutto l’ardore necessario.

Mi riscoprivo, con stupore, sufficientemente tutelata: dentro di me avevo una famiglia che mi aveva amata moltissimo e che non mi aveva mai abbandonato.

E, allora, anch’io, davo battaglia con ardore alla mia parte malata.

 

 

 

 

 

 

Nel delirio credevo che avesse riscritto un suo libro per me, solo per me, da lei personalmente sottolineato e che me l’avesse fatto trovare nella mia libreria.

Per sostenermi ad ogni attimo con qualcosa che potessi avere a portata di mano.

 

A lei parlavo continuamente e partecipavo ogni mio pensiero.

 

Lei ascoltava e leggeva dentro di me come fossi di vetro.

L’amore che sentivo per lei mi teneva insieme.

Ma, nello stesso tempo, mi tormentava.

 

Mi leggevo la poesia di un anonimo brasiliano.

 

La persona, un poveretto, si lamenta con Cristo di averlo abbandonato nei momenti più duri.

Gli aveva promesso di stare sempre con lui e infatti per un lungo tratto di strada avevo visto le sue orme accompagnate da quelle di Gesù; ma proprio mentre attraversava il deserto, quando le sue sofferenze erano state più forti, aveva osservato le orme di una sola persona.

E Gesù gli dice: “Questo è stato il tempo in cui ti ho portato in braccio”.

 

Anche lei mi portava in braccio.

Con il delirio si era insinuato in quell’area della mia mente in cui vivevo in simbiosi e io mi alimentavo di lei, incollato a lei.

La sua immagine si confondeva con quella di mia madre e insieme moltiplicavate la funzione di protezione.

Mia madre era morta da poco e in quel vuoto catastrofico che mi aveva lasciato, lei era il mio unico punto stabile.

Il delirio era soprattutto una reazione a questa perdita.

 

 

Chiedevo alla mia amica Donatella di leggermi i Salmi.

 

“…e fu per loro un salvatore

in tutte le angosce

Non un inviato né un angelo

Ma egli stesso li ha salvati:

con amore e compassione

egli li ha riscattati;

li ha sollevati e portati su di sé

in tutti i giorni del passato. “(Isaia 63, 8b-9)

 

La mia amica leggeva bene, con molte pause ed io riuscivo a seguire.

Mi sentivo meglio.

La poesia mi restituiva una realtà condivisibile.

 

Lei era colui che mi sollevava e mi portava con sé.

Con lei, che delirava con me, uscivo da quel mondo esclusivamente privato che la pazzia costituisce, e che dà una solitudine terribile, difficilmente raccontabile.

Ci si sente soli e si è soli, ma non è questo il tragico, il tragico è che non ci si sente più parte del mondo degli altri. E si comincia a pensare di dover rinunciare a parte della propria umanità.

 

 

 

 

Lei era il direttore di un’équipe internazionale che faceva capo agli Stati Uniti, ma la musica che mi arrivava era la musica brasiliana.

 

Si trattava di una rivoluzione culturale su scala mondiale.

 

In linguaggio freudiano, mi dicevo, schematicamente, che la Cultura doveva passare da uno stadio in cui l’altro esiste solo come oggetto dei tuoi desideri, del tuo istinto d’appropriazione, del tuo bisogno di primeggiare, ad una fase dove l’altro è una persona come te.

In dialogo con te.

Dove esiste la reciprocità e il dono.

A questo cambiamento epocale erano interessate le industrie americane che finanziavano il progetto e lei ne era il direttore. Il rispetto dell’altro avrebbe portato lucro e ricchezza per tutti perché sarebbero sorti nuovi modelli di comportamento e di giustizia. Attraverso la reciprocità, un vantaggio scambievole, si sarebbe finalmente risolto il problema della distribuzione dei beni su scala mondiale così da estinguere la fame nel mondo. Tutti i paesi avrebbero avuto gli stessi diritti e doveri, le stesse possibilità di istruirsi e di curarsi dalle malattie che li opprimevano. Sarebbe venuta meno la guerra come strumento per risolvere le contraddizioni. Parlare, spiegarsi, capire le ragioni dell’altro sarebbe stato sufficiente. In Italia si sarebbe finalmente costruito uno schieramento di sinistra forte, con capacità di dialogare e intendere le ragioni della destra, facendosene portatore all’interno delle proprie scelte. Le Chiese in dialogo avrebbero riconosciuto che Dio è lo stesso in tutte le religioni. La Chiesa Cattolica avrebbe rinnegato l’inferno ed esteso il perdono totale anche all’aldilà. L’istinto di morte avrebbe fatto parte dell’istinto di vita, l’essere del non-essere, l’inerzia del movimento, l’attività fatta di tante piccole pause. Gli opposti sarebbero stati in costante rapporto.Un pensiero relazionale avrebbe schiuso più ampi orizzonti. La mente unilaterale sarebbe caduta in disuso perché inutile, saremmo stati capaci di avvicinarsi alla molteplice diversità del reale. Alla comprensione e al rispetto della diversità. Ci saremmo avvicinati alla complessità della vita.

 

 

Il delirio è una favola agita.

Il malato diventa un filosofo che vive il sistema che ha elaborato.

Il mio era un’utopia bellissima da vivere che, sono sicura, molto miei amici potrebbero condividere senza bisogno di diventare matti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19. tutto il mondo diventava un’immensa città in festa ed operosa

 

 

 

Lei era in possesso delle due culture e avrebbe potuto dirigere il passaggio da una all’altra.

 

Io potevo partecipare perché rifiutavo questa cultura e avevo bisogno dell’altra per sopravvivere.

 

Ma non ero solo io a partecipare al progetto.

Tutti erano chiamati e tutti gli eletti.

 

Era in atto un processo di rieducazione mondiale che era anche un processo di terapia.

Una specie d’ Istruzione Programmata gigantesca.

 

Si aveva bisogno di persone totali perché il progetto si realizzasse, persone in cui la sensibilità, l’intelligenza e gli affetti fossero integrati.

 

Andavo per le strade, nei locali e vedevo che tutti partecipavano, intervenivano l’uno con l’altro, si suggerivano, si correggevano.

 

La mia era diventata una città in festa e operosa.

 

 

Ero entrata in un bar che avevano già rifatto secondo la nuova cultura. Questo bar era una nicchia ispirata ad un organo femminile: l’utero, la vagina e le piccole e grandi labbra erano state disegnate con grande amore.

 

Si stava bene lì dentro come in un posto amico.

Era stato progettato da qualcuno che amava le donne nella loro diversità.

 

Una casa di cui si poteva fare dono a qualcuno amato.

 

 

 

In questo bar, vivendo quell’atmosfera, gli uomini avrebbero potuto riscoprire la loro parte femminile e creativa, lasciando così a poco a poco cadere questo obbligo tremendo di essere sempre dominatori ed efficienti.

 

 

I mass media si erano impadroniti dell’idea e i telegiornali e i film che vedevo alla sera lo testimoniavano.

I quotidiani, le riviste, i manifesti per le strade, le vetrine dei negozi erano state riprogrammate.

 

Le possibilità immense, che la partecipazione dei mass media apriva, velocizzavano la realizzazione del progetto e lo rendevano possibile.

 

Tutti i programmi della radio e della televisione erano rivisti automaticamente secondo la nuova cultura.

 

Alla sera assistevo ai film come si legge un sogno, attenta al contenuto manifesto, ma ancora di più al loro contenuto nascosto.

In genere il rapporto tra i due era comico e me ne ridevo allegramente.

 

Era però un’attività che mi sfiniva e da cui non potevo liberarmi.

 

 

 

Ero certamente più matta che nelle altre crisi per la bassa dose di medicine, il delirio era più esteso, un universo infinito che non avevo mai visto, ma io mi divertivo immensamente.

 

A parte i momenti in cui ricadevo in me.

 

Allora l’angoscia era più forte che nelle altre crisi.

 

Il panico mi immobilizzava come intontita da un colpo in testa.

 

 

 

 

 

 

 

XX raggiunto un acme, il delirio si attenua

 

 

 

 

 

 

Rapidamente lei è diventato una figura di secondo piano.

 

Aveva il merito di aver elaborato il progetto e dato avvio al suo inizio.

Lei aveva capito l’importanza di quello che stava succedendo nella gente, i loro bisogni, anche non espressi, a partire dai quali era nata la sua idea.

 

Tutti erano, chi più chi meno, insofferenti di questa Cultura.

 

E lei era stato in grado di captare questi bisogni diffusi.

 

Aveva poi trovato i canali giusti per passare tutto al governo degli Stati Uniti, a tecnici esperti e con possibilità illimitate.

 

 

 

A questo punto lei aveva lo stesso ruolo che avevo io.

 

Capiva, sapeva e partecipava, ma non aveva più ruolo direttivo di me, era uno dei tanti proprio come me.

L’onnipotenza si era spostata lontano e aveva una funzione di appoggio.

 

Adesso lei remava da marinaio come me.

 

Il mio Capitano era morto là sul ponte.

Vicino ormai era il porto.

 

Il pericolo tremendo era terminato.

Il nostro viaggio quasi concluso.

La mia mente quasi salva come la nave all’ancora nel porto.

 

 

La sua morte era la morte della mia onnipotenza.

 

Avevo solo bisogno di un tu umano, il mio terapeuta, così com’era, per non sentirmi sola nella lotta.

 

 

Avevo bisogno di un accoglimento che mi stringesse come in un abbraccio.

 

E ridevamo insieme, come nella terapia non era mai stato possibile.

Non ricordavo di aver riso una volta.

O di averla vista ridere.

Forse ricordavo male.

 

I giochi di parole, la velocità di pensiero, le immagini ricevute e rimandate, la divertivano.

 

Il mio amore per lei non la disturbava.

 

Me lo lasciava vivere, nelle sue felicità e nei suoi tormenti, come fosse un problema che riguardasse me sola e di cui avrei potuto venire a capo.

 

La fiducia che aveva in me costituiva il centro del mio essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXI un’illuminazione fortissima alla fine del delirio mi ha permesso di unire il mio io attuale a quello della pazzia

 

 

 

 

 

Quando il delirio è passato, sono rimasta allucinata per molti giorni.

 

Come una luce fortissima mi colpisse.

Vedevo solo quella luce che mi impediva di vedere altro.

 

Allucinata a pensare quanto ero stata matta: in questo modo non l’avevo mai visto.

 

E sapere che ero io, sempre e solo io, prima durante e dopo.

 

E’ difficile trasmettere quest’esperienza, è un’illuminazione che abbaglia.

 

 

Vedevo anche che una parte sana e protettiva era sempre esistita anche nella pazzia.

 

Il delirio è una forma di sciopero, ma solo apparentemente.

In realtà è un doposcuola per recuperarsi.

 

Questa volta era stato più terribile delle altre volte perché avevo una parte sana che m’ incalzava e non mi dava tregua.

 

 

 

 

Mi sorge l’immagine di un sogno: era lei, proprio lei, il mio terapeuta, una luce buia, quasi di notte, e trascinava a piedi, con una corda che teneva sulla spalla, lo scheletro enorme di una nave, la portava al macero.

 

Trascinava la mia parte malata?

 

Da allora non sono più impazzita.

 

 

 

 

 

Ma questo delirio mi è servito a capire che io esistevo.

 

Ero io.

Ed esistevo proprio io, non un altro, io Bruna.

 

 

 

Nel ricordo, sia mio padre che mia madre mi comunicavano che non potevo esistere.

 

Mio padre desiderava un maschio perché continuasse la ditta per la terza generazione, da bambina ero sempre vestita da maschio.

 

Non tollerava che fossi colta e così mia madre.

“ Con una che ha fatto filosofia non si può parlare”.

 

Il senso di fondo era un profondo disprezzo per chi non sa guadagnare soldi, fare affari e in più blatera cose inutili che nessuno capisce.

 

Forse non era neanche questo, ero troppo diversa da loro, anche se oggi so che mi volevano molto bene e mi accettavano anche troppo dal loro punto di vista.

 

 

 

Nel sogno di luglio lei mi chiede insistentemente perché non posso staccarmi da mia sorella e da Mario…rispondo che in assenza di funzioni genitoriali…

 

Dopo mia mamma e mio papà rimanevano loro a cui, per necessità, per bisogno di protezione, attribuivo un ruolo che non mi permetteva di esistere, essere io, una persona a tutti gli effetti.

 

Non potevo rinunciare ad una famiglia che stesse sopra di me invece che accanto.

 

 

In questa crisi ho potuto vivere questa lacerazione.

 

Il poter lottare da sola e insieme a lei, il mio terapeuta, mi ha permesso di vedere che la mia vita dipendeva solo da me, e dalle persone che io stessa avevo scelto.

 

Mi ha permesso di vedere che io stessa ero in grado di proteggermi.

 

 

Allora, lei, nel sogno della nave, porta via lo scheletro di una simbiosi che era diventata inutile.

 

 

 

Il delirio nasceva così dai miei rapporti attuali.

 

 

Ma c’era anche un’origine infantile: la storia antica con il mezzadro.

 

 

 

 

XXII una storia infantile che si è poi ripresentata nei vari deliri

 

 

 

 

 

Quando andavo ancora all’asilo, i miei genitori – ritenendomi troppo piccola – avevo quattro anni – non mi avevano portato nel viaggio d’affari che facevano tutte le estati.

Mi avevano lasciato in campagna affidata ai mezzadri.

 

Lì stavo molto bene, mi lasciavano camminare scalza, potevo andare a piedi nudi sulla terra e bagnare i fiori con il tubo di gomma, guardare tutto quello che facevano i dipendenti, giocare con loro e divertirmi come a casa non era possibile.

 

Al pomeriggio la figlia del mezzadro mi faceva riposare un po’.

 

Un giorno, passando nel corridoio, da sola, mentre mi avviavo alla mia camera, il padre, che era in camera sua, mi ha invitato a riposare con lui.

 

Era un omone grande e grosso, più o meno dell’età di mio padre e molto rispettato in casa.

La sua autorità era indiscussa.

 

All’estate avevo l’abitudine di dormire in mezzo ai miei.

Non lo avevo trovato strano.

Avevo obbedito.

 

Quest’uomo, di cui ricordo bene il nome, era sempre molto affettuoso con me, mi prendeva in braccio e mi faceva giocare.

 

Quel giorno, mettendomi sotto il lenzuolo, ho visto che aveva la parte di sotto scoperta e questo mi aveva fatto sentire subito una certa eccitazione e una grande curiosità.

 

 

La figlia, entrando per riporre qualcosa nei cassetti, mi ha chiesto se volevo andare nell’altra camera e ho risposto di no.

 

Quando è uscita, si è girato verso di me e mi toccava tra le gambe con il suo membro.

Non mi faceva male.

 

Sentivo adesso una grande eccitazione di tutta la situazione.

 

Mi ha preso tra le braccia sopra di sé e mi ha detto contento : “ Ah, sei eccitata!”.

 

 

Dopo non ricordo più niente.

 

C’è un buio completo nella mia mente che nessuna analisi è riuscita a sollevare.

 

Non so cosa sia successo.

 

E’ abbastanza strano perché la mia mente non funziona per blocchi neri.

 

 

In seguito, l’ho dimenticato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIII la depressione dei dodici anni

 

 

 

 

 

 

Mi è tornato in mente in seconda media, ascoltando la mia insegnante, una suora, che parlava di purezza.

 

L’idea che aveva era pazzesca anche per me.

 

Bisognava farsi il bagno vestiti per non avere contatto con il nostro corpo.

Dovevamo sedersi su sedie sempre molto dure per mortificarlo.

Era peccato anche guardare un ragazzo.

 

 

Quello che era successo da bambina mi è allora apparso in una luce terribile, da incubo.

 

Ero colpevole di qualcosa innominabile, l’inferno era lì spalancato sotto di me per afferrarmi

La mia vergogna non aveva limiti.

La terra avrebbe dovuto inghiottirmi.

 

Non potevo parlarne con nessuno, e mai l’ho fatto in seguito, neanche con il mio confessore.

Così andavo alla messa, facevo la comunione, in stato di sacrilegio.

 

Vivevo una doppia vita, la ragazza buona, stimata dalla suora, ed io che sapevo di essere un tizzone d’inferno.

 

Avevo avuto la possibilità di sottrarmi e non l’avevo fatto.

 

Avrei potuto alzarmi e non l’avevo fatto.

L’eccitazione e la curiosità erano state più forti.

 

 

 

 

 

 

La vergogna era così terribile perché io non potevo capire che ero molto piccola, in un’epoca in cui ancora non si sa cosa è permesso e proibito.

 

E poi, io non avevo nessuno che mi insegnasse qualcosa.

Le ragazze in casa erano troppo giovani per farlo, né avrebbero potuto assumersi il compito di educarmi.

 

Abituata com’ero a gestirmi da sola, ero stata un’adulta in miniatura molto presto.

E a quella piccola bambina attribuivo la responsabilità di una persona grande come avevo per tante altre cose.

 

Questa cecità ha incollato il sentimento della vergogna nel mio essere.

 

In seguito, su questa vergogna abissale, si è appiccicata la vergogna di essere una malata mentale.

 

Lo stigma era mio, prima ancora che degli altri.

 

Era una vergogna e unacolpa che toglievano il diritto di esistenza.

 

Mi avevano lasciato in vita per espiare.

 

 

 

 

 

XXIV si origina una parte mia in cui sono autogenerata

 

 

 

Si era formata una parte segreta dove esistevo solo io e il dolore di essere nera come la pece.

 

Un’area nella quale non dipendevo da nessuno e dove non ci volevo nessuno.

 

Un territorio buio che mi costituiva un’identità racchiusa in una nicchia.

Che non partecipava alla vita degli altri e che non poteva evolversi.

 

Dove la memoria era eterna.

 

Una memoria cui non potevo accedere senza sentirmi male, ma che ritornava insistentemente.

 

Una parte della mia mente dove ero assolutamente sola.

 

 

 

“La forza non può risorgere se non si ritira nella grande oscurità. Spogliare forma, rivestire forma, questo avviene nell’attimo del puro nulla” ( Buber, I racconti dei Chassidim)

 

Una forza dentro di me mi spingeva a spogliarmi dell’immagine di ragazza capace e intelligente.

Ero un bruco che non era più capace di sognare il suo destino di farfalla.

 

Nei periodi di trapasso c’è un attimo in cui non siamo più quello che eravamo e non siamo ancora quello che saremo.

 

Un attimo di panico in cui ci sentiamo librati nel nulla ed esposti senza pelle.

 

Con la vecchia forma cadeva anche quella ragazza eccessivamente dipendente dal giudizio e dall’ammirazione degli altri.

Quest’area limitava il mio rapporto simbiotico col mondo.

Ma rinascevo come chi poteva non dipendere da nessuno.

 

Anche se continuavo ad essere dipendente nell’apparenza, come uno stipo che avesse un doppio fondo segreto.

 

Al di sotto della mia fragilità, avevo una parte dura.

Dove mi costituivo come colpevole e come vittima.

 

Una parte che, nella crisi dei sedici anni, si è cementata fino a diventare granito.

 

Questa parte segreta è forse quella che mi ha permesso di essere sola nella malattia e di superarla, anche se, nello stesso tempo, è stato difficilissimo liberarmi di lei, una pietra che mi impediva di sentire lo scorrere caldo e invitante della vita.

 

 

 

 

 

XXV se l’illimitato diventa esperienza quotidiana

 

 

 

La perdita di Dio e l’esperienza del nulla mi avevano portato a costituire me stessa come infinito.

 

Erano i contorni della realtà, dove tutto ha un inizio e una fine, che non potevo sopportare.

Dove i bisogni, una volta soddisfatti, svanivano.

Dove si acquistava per perdere e per ritrovarsi.

 

Ma io non potevo perdere nulla, perché ogni perdita apriva una voragine buia dove precipitavo.

Solo l’infinito mi permetteva una continuità dell’essere.

Una continuità solo fantasticata, ma cui mi aggrappavo come all’unica àncora rimasta.

 

Fantasticare dipendeva da me e questa attività della mia mente, sviluppata all’eccesso, mi permetteva di vivere avvoltolata in un mondo solo mio che non mi disturbava.

 

Era l’unica pelle che avevo.

 

E senza pelle non si può vivere.

 

Una me stessa che aveva eliminato il piacere perché il piacere finisce e io non potevo sopportare la più piccola frustrazione.

 

Che non aveva bisogno di nessuno perché poteva alimentarsi da sola.

O, piuttosto, che doveva alimentarsi da sola.

 

Non poteva arrischiarsi all’incontro con un altro.

 

Questa parte non aveva un tu in cui rispecchiarsi e viveva pertanto nell’eterno.

 

Più precisamente, forse, avevo eliminato i bisogni perché, solo lasciandoli perennemente insoddisfatti, si poteva raggiungere la dimensione dell’illimitato.

 

 

E’ difficile dare l’idea di questo processo perché, mossi alcuni passi, tutti gli altri pezzi si incastrano come per necessità.

 

Questa necessità è l’istinto di sopravvivenza che ti guida nella costruzione di un castello, perché, se non fai così, muori.

 

Il ponte levatoio sempre sollevato perché sei così fragile che chiunque, con il suo fiato leggero, ti può uccidere.

 

Non fidarsi di nessuno diventa una legge assoluta.

Nello stesso tempo nasce il bisogno di trovare qualcuno cui consegnare tutto il pacchetto perché se la sbrighi lui.

Tu non ce la fai a reggerlo.

 

Ma sai che questo qualcuno può essere solo Dio e Dio non c’è.

 

XXVI il dolore diventa l’unica costante attorno a cui organizzarsi

 

 

 

E’ stato molto difficile liberarmi nella terapia di questo ruolo di vittima a vita.

Un inverno perenne dove non nasceva mai la primavera.

 

Una serietà precoce che non ammetteva giochi, scherzi, divertimenti.

Come un lutto perenne che non ha mai fine.

 

Una me stessa che non si dava il diritto di avere piacere perché la vita si prospettava come un’infinita espiazione.

 

Il ruolo di vittima era l’unico che mi costituiva un’identità e l’unico che serviva a spiegare le mie sofferenze.

Che mi permetteva di sopportarle e di coccolarle.

 

Quando avevo perso tutto, mi ero riorganizzata intorno al dolore, unica cosa che era rimasta.

Una costante che mi aveva fornito un salvagente.

 

Tutto il mio essere, abbastanza sfracellato, si era rimesso insieme attorno a questa unica realtà come fosse la mia anima.

 

Per questo non potevo rinunciarci, era l’unica bussola che avevo in tasca.

 

Nella terapia ci sono voluti molti anni per poter abbandonare questa sicurezza e accettare di vedere la primavera.

 

E’ stata necessaria una nuova nascita che ha dissipato quel velo grigio che avevo sparso sulla realtà.

 

E allora mi sono stupita che potesse essere così brillante.

 

Mi sono meravigliata di poter cogliere quell’attimo di bellezza ed esserne felice.

Di potermene distrarre, perché avevo acquisito la certezza che in un altro momento del giorno avrei potuto goderne altri.

 

Quella rigidezza che sentivo in me si era sciolta e mi sentivo quasi liquida così come, nel suo scorrere continuo, mi pareva la realtà.

 

 

 

 

XXVII per allontanarsi dall’illimitato ci sono voluti molti anni e molte esperienze, ma ho acquisito un’immagine di me stessa che vive nel tempo e nello spazio.

 

 

 

Ma ancora più difficile è stato scoprire la limitazione propria degli esseri vivi.

 

“Lei ha delle qualità, ma non vede che sono limitate”.

Questa frase del terapeuta era un insulto che mi bloccava.

 

Era subito letta come non avessi nessuna qualità.

 

L’illimitato è una brutta bestia e chi si avventura in queste regioni di pietra, dove il sangue non scorre perché la vita è assente, impiega secoli per liberarsene.

 

E’ senz’altro la parte che più resiste alla terapia.

 

A me ci sono voluti più di vent’anni, e tutta una serie di esperienze, nella terapia e fuori, una serie di gradini, che devono essere acquisiti, prima di poterla smantellare.

 

Ammesso che l’abbia potuto fare completamente.

E questo non lo so, perché questa parte ci rimane nascosta.

 

Ho dovuto acquisire una sicurezza nella realtà.

Mi avventuravo e poi ritornavo.

Per molto tempo ho avuto come due pedali, vedevo le limitazioni, ma avevo bisogno dell’illimitato.

La mia immagine era ancora, per buona parte, evanescente.

 

Adesso, a quasi sessant’anni, mi vedo.

Non solo nel mio perimetro ben definito.

 

Ma mi vedo come dall’alto.

 

Mi vedo esistere, con un corpo e una mente, un’unità che non distingue queste parti.

 

Un corpo e una mente già vecchi che si avviano ad una fine.

 

Mi vedo nel mondo, in un paesaggio, e con altre persone che lo percorrono.

 

Ho un territorio dove sono circondata di affetti che mi alimentano e mi rassicurano.

Dove posso avere dei bisogni che vengono soddisfatti e che possono risorgere.

 

Ho imparato un poco a chiudere quella bocca che si era spalancata sul mondo.

 

Kafka racconta nei “Diari” che gli sembrava che dentro di lui ci fosse un altro uomo, che sporgesse dalla sua gola la testa e il collo, e che implorasse qualcosa da bere.

 

Questo lupo, che era in me, si è come addormentato e lascia passare gli alimenti.

 

Acquisire un territorio mio che non riattualizza il passato, ma vive nel presente, e si proietta nel futuro, è stato fondamentale.

 

Aver resistito a quella forza che mi spingeva allo sfascio nell’ultima crisi, ed essermi ricostruita, mi ha dato una nuova immagine di me stessa dove la luce è più forte delle ombre.

 

Questa mi ha fornito la sicurezza di continuare a camminare in vista di altre acquisizioni.

 

Non aver mai potuto perdere nulla ha mostrato di avere un suo risvolto positivo perché mi ha permesso di tenere legami lontani nel tempo e nello spazio.

Mi sono così ritrovata in una rete di affetti come un bambino in un girello cui si appoggia per camminare sicuro.

 

Una fiducia irrazionale di potermi costruire una vecchiaia serena, mi ha spronato.

 

 

 

Arrivata qui, 10 maggio 2013

 

 

 

 

 

 

 

XXVIII come conseguenza dell’episodio del mezzadro cambia il modo di vedere mio padre

 

 

 

 

 

 

Ma l’episodio del mezzadro, riscoperto a dodici anni, ha avuto anche altre conseguenze.

 

Mi è arrivata addosso una depressione che mi è durata mesi, la prima di una lunga serie…

 

In quello stesso anno è cambiato il modo di vedere mio padre.

 

Ero sempre stata la sua preferita, ero la piccola della casa, la sua innamoratina.

Mi sembrava meraviglioso.

Sempre allegro e affettuoso.

Era l’unico che scherzava e aveva il senso dell’umorismo.

 

Improvvisamente, come si fosse tolto un velo, vedevo mio padre debole, succube di mia madre, impotente a risponderle quando gli rimproverava i suoi errori sul lavoro.

 

Orribile quando le rispondeva con violenza e insulti.

Ancora più mostruoso quando, ad un intervento di mia sorella nel mezzo della scena, si toglieva la cinghia, la rincorreva per tutta la casa e la picchiava.

 

Nel ricordo, queste scene erano quotidiane, anche se mi sembra impossibile.

 

Mentre accadeva questo, io vivevo con l’orecchio incollato alla radio, avevo un posto sopra una credenza dove mi rannicchiavo, ascoltando attentamente, nella speranza di estraniarmi del tutto, immersa nella musica.

 

 

Questa delusione di mio padre mi lasciava senza una figura di riferimento, perché mi era impossibile volgermi verso mia madre o mia sorella.

Una era troppo terribile e l’altra troppo vittima.

Mia sorella era sistematicamente picchiata da mio padre e da mia madre.

 

 

 

Sono rimasta come sospesa, in balia delle molteplici identificazioni esterne.

 

Mi sono allontanata troppo presto dal cerchio delle mura di casa e senza un’idea di protezione, perché questa non si acquista da soli, ti deve essere data.

Ti ci devi impregnare nel vedere che altri ti proteggono, per poi poterlo fare da sola.

Solo nella terapia ho potuto, faticosamente, acquisirla.

 

 

 

Della storia del mezzadro mi era rimasto nella testa un fatto preciso e concreto con il quale non riuscivo a stabilire un legame.

 

Non si poteva né eliminarlo né attribuirgli un significato.

Si era perso il nesso.

E questo fatto rimaneva lì inerte.

Un fatto-pietra che non si poteva assimilare, solo tenerlo non digerito o espellerlo.

E quella mia parte che lo racchiudeva a poco a poco era diventata una pietra.

 

Perché la pietra “ non dà suoni, né cristalli, né fuoco, ma arene e arene e altre arene senza muri”

( Garcia Lorca).

 

E anche quella pietra ero io.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIX nel terapeuta vedevo una figura di padre confusa con una figura seduttiva

 

 

 

 

 

 

Questa storia me la ritrovavo nella terapia, anche quando non era nominata.

 

Il terapeuta diventava presto un personaggio cui offrirsi per un rapporto amoroso, con l’inconscia speranza di ricevere un rotondo “no”.

 

Quello di cui sentivo il bisogno, non molto cosciente per la verità, era di marcare un limite perché nella mia fantasia era stato infranto.

 

La mancanza di questo limite era la mancanza di un muro attorno cui cementarmi.

Era la mancanza di un’idea di padre.

 

L’impulso era ripetere un antico trauma per verificare che i confini si erano sfaldati del tutto.

E nello stesso tempo rifarli più forti e per sempre.

 

Per essere liberata dal panico di una forma senza pareti attorno.

Senza leggi che la demarchino e che conferiscano alla persona il diritto di esistere.

 

 

Il mezzadro è una figura legata per contratto a filo doppio con il padrone. Inoltre ero io che accompagnavo sempre mio padre in campagna e vedevo i loro rapporti di scambio e di amicizia.

Erano anche molto simili fisicamente, entrambi alti e robusti, scuri di capelli, quei tipi di persone che una volta si chiamavano “sanguigni”.

 

Era, forse, inevitabile che il mio inconscio li sovrapponesse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXX Quest’inghippo succedeva puntualmente in tutte le terapie.

Tento di dire qualcosa del mio delirio.

 

 

 

 

 

 

L’incertezza del terapeuta nel maneggiare questa difficile situazione, ammesso che ne avesse i dati, era da me interpretata come cedimento alle mie offerte.

 

Questa lettura aumentava la mia angoscia.

 

Il panico di infilarsi in una voragine buia che mi avrebbe obbligata a troncare i miei rapporti attuali.

 

Questi mi offrivano sicurezza e protezione, anche se non l’amore che pretendevo.

 

Da un lato stava un tu amato, che mi rendeva possibile un rapporto reciproco (così io fantasticavo) che, però, stranamente mi suscitava panico, dall’altro la protezione e la sicurezza.

 

La contraddizione era incomponibile, ancora più incomponibile perché era solo nella mia testa.

 

 

Il delirio intrecciava, così, strettamente, i miei rapporti attuali ad antiche situazioni che non ero riuscita ad elaborare.

 

Questo a me sembra il nucleo del mio delirio, intorno al quale, come in un citoplasma ricco di organelli con vita e funzioni autonome, si sviluppavano tutta una serie di vivenze legate a sentimenti e concezioni del mio mondo attuale, vivo e concreto.

 

Il terapeuta di cui mi credevo innamorata rappresentava una vero sentimento, ma era anche un pretesto per riattualizzare una storia con mio padre irrisolta, nella quale avevo, prima di tutto, bisogno di discriminare la sua figura da quella del mezzadro e, secondariamente, formarmi un’idea di padre, senza la quale, sentivo la mia identità sfaldata.

Per questo ho parlato di un duplice movimento che dal presente si rivolgeva al passato e dal passato andava al presente.

Tutto questo, però, avveniva al di fuori della mia coscienza per cui non ero in grado di verbalizzarlo né di aiutare il terapeuta.

 

 

Ma il delirio non era solo questo nucleo: per rimanere nell’immagine che ho usato c’era un ampio citolasma articolato in una visione del mondo.

 

Vorrei che un poeta dicesse, per me, prima di dire io le mie povere cose, qualcosa della persona che, ad un certo punto della sua vita, entra in delirio, perché questa non sarà mai qualcuno che vede una stella cadente senza formulare un desiderio, non solo, tutta la sua vita è desiderio: è questo che la confonde e la rende inabile a vivere nella realtà.

 

La persona che può entrare in delirio, a me pare, non ha bisogni perché questi fanno parte della realtà e possono essere soddisfatti, e quindi svanire (così mi ha insegnato il terapeuta), ma solo desideri, che, invece, sono illimitati ed è di questi che si alimenta: sfiora appena la realtà per intravvederne subito un’altra più luminosa, un altro cielo sorge sempre con nuove stelle ancora più attaenti.

Anche se è solo di me che posso parlare.

 

 

“Come se cadesse una stella filante, e nessuno la vedesse, nessuno avesse formulato un desiderio. Non dimenticare mai di formulare un desiderio, Malte. Mai rinunciare ai desideri. Io credo che non ci siano adempimenti, ma desideri che durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento” (Rilke)

 

 

 

Dal racconto dettagliato del suo contenuto, che ho già fatto nei capitoli precedenti, si vede che il delirio è fatto di desideri straordinari insoddisfatti : “ amarsi, essere trattati come persone, dei fini non dei mezzi, sarebbe stato normale” : solo questo, tra le tante cose che sognavo, nella nostra società sarebbe straordinario, ma era, prima di tutto, straordinario, per la mia storia di “pacchetto”, di persona che per ”semplificare” aveva sempre preferito omettersi fin dall’infanzia. Mia madre, già avanti negli anni, raccontava, ancora stupita, che, in campagna, piccolissima, mi ero allontanata su un prato per fare pipì senza rivolgermi a lei per chiederle aiuto.

 

Come ho raccontato, molto presto, ero stata profondamente turbata dalle ineguaglianze sociali, attorno a me, soprattutto, e a livello mondiale, e questo mi aveva portato a identificarmi con partiti riformisti di sinistra. Anche su questo fronte, le frustrazioni non erano state da poco e anche qui avevo bisogno di avere il diritto di sognare accordatomi dal delirio.

 

La mia testa, inoltre, era insoddisfatta di un modo di pensare, che era prima di tutto mio, ma anche di altri, e che tendeva a separare piuttosto che stabilire una rete, delle relazioni tra fenomeni che appaiono opposti e irrelati; chiamavo tutto questo “ mente unilaterale” senza sapere dove l’avessi preso: il delirio mi faceva vedere un mondo che era un organismo vivente con tutto quello che questo significa.

 

Tutta questa costruzione aveva un fuoco che la alimentava ed era la passione per il terapeuta le cui ragioni capisco e non capisco, oppure in parte capisco, ma vorrei poterne ragionare.

 

Quello che capisco bene è che lui era uno schermo su cui proiettavo un film già girato in tutti i suoi dettagli tanto tempo prima e che aveva bisogno di un finale.

Questo è avvenuto nell’ultima crisi e questa antica storia si è quietata.

 

Mi è anche chiaro che mi aveva permesso di uscire da un tunnel di pietra, dove c’ero solo io, e che io mi ero innamorata della reciprocità.

 

Ma perché scartare a tutti i costi che anche la sua persona, realisticamente, potesse essere amata? E’ possibile immaginare che un paziente vaneggi tutto il tempo?

DIRE COSA: la capacità di ricercare, ma non mi chiedevo se questa persona mi piaceva, ne avevo bisogno vitale e quello che non mi andava finiva in uno scantinato.

 

Forse anche il terapeuta non aveva sempre lavorato con il distacco necessario, anche se lo elogiavo per saper lavorare “ a basse temperature”, ma si può stare con una persona, aiutarla, con un bilancino in mano?

 

Allora ero innamorata, ma è solo adesso, che ho perso il conto degli anni che ci conosciamo, e che sono ritornata per una serie di sedute, che sento di volergli bene, in maniera amichevole, garbata e attenta.

Cosa ci può essere più dell’amore tra due persone ? – si chiede Pavese nel Diario – E’ “ carità”, è accettazione dei gesti dell’altro come dei propri…è accettazione della morte dell’altro come della propria…

 

 

 

 

 

 

XXXI nella mania rinasceva un’immagine grandiosa di me stessa

 

 

 

 

 

Un’altra conseguenza di questa storia con il mezzadro, era che la mia possibilità di volermi bene, di accettarmi, di sviluppare al meglio le mie capacità, quello che si chiama comunemente il narcisismo di una persona, il cui unico approvviggionatore era mio padre, era venuta meno in seconda media, mentre io avevo distrutto la mia capacità di fabbricarmelo.

 

Inoltre, coperta com’ero di vergogna dalla testa ai piedi, umiliata, non ero stata in grado di trovare, fuori della famiglia, qualcuno che potesse sostituirlo.

 

Quella mia immagine di bambina idolatrata era stata sepolta, non aveva potuto evolversi, e veniva fuori nella terapia con tutta la sua violenza e la sua pretesa di amore incondizionato e di ammirazione.

 

Purtroppo nessun terapeuta aveva potuto riconoscere che si trattava di una bambina che aveva bisogno solo di crescere ed invece veniva respinta.

 

L’immagine grandiosa di questa bambina rinasceva così puntualmente nella mania e nel delirio, ed io ero presa dalla sua meraviglia.

 

 

 

La strada che il terapeuta ha ritenuto di seguire perché io imparassi a sviluppare le mie capacità è stata molto difficile, molto tortuosa e infinitamente lunga, anche se le poche parole che troverò per raccontarlo non renderanno quello che ha significato.

 

Non potevo aspettarmi da lui elogi di sorta, ma trovarli fuori nella realtà.

Se uno non muore prima, è sicuramente la strada giusta, la più solida, perché uno impara a trovare le persone che gli offronto un sostegno affettivo e, anche, in mancanza di queste, a procurarselo da solo.

Bisogna però poter lavorare anni e anni senza alcun incentivo, e mentre ti senti nella melma, e non vedi a mezzo passo dal tuo naso.

 

La possibilità di formarmi un’immagine gradevole e intera di me stessa è forse stato ancora più difficile: questa possibilità è legata per me alla risoluzione della mia ultima crisi, di cui parlo in seguito, anche se è un lavoro sempre “in fieri”.

 

L’enorme difficoltà, per me, era passare da un’immagine esclusivamente fantasticata, meravigliosa o terribile, ad una sufficientemente realistica.

 

Questo obiettivo credo sia stato abbastanza raggiunto, anche se, a volte, vorrei potermi considerare con un po’ più di entusiasmo.

Forse la realtà mi sta sempre un po’ stretta, o forse anche il tono un po’ depressivo che a volte sento è dovuto al sentirmi preoccupata per mia figlia Francesca che, come molti ragazzi di oggi, sembra avere enormi difficoltà a crescere. E’ stata una bambina piena di vita e, oggi, che ha vent’anni, sembra non aver voglia di niente.

 

 

 

 

 

XXXII alla fine del delirio ho sentito molta violenza, ma mi sono accorta di aver mantenuto una pazzia privata e di non aver spezzato i legami

 

 

 

 

 

Il delirio, anche quando se ne va, rimane lì pronto per i momenti difficili.

 

Ero andata in clinica per il prelievo del litio e una visita cardiologia.

 

Era la clinica dove ero stata internata la prima volta.

E dove è morta mia madre.

 

Uno spazio carico di angoscia stratificata.

 

 

Mi guardavo intorno in cerca di telecamere e dovevo ripetermi, come una lezione da mandare a memoria, più e più volte, che qui non c’era nessuna telecamera che mi filmava, potevo fare e dire quello che volevo, non mi vedevano, non mi controllavano.

 

In treno, guardando fuori dal finestrino, mi ero accorta che la realtà può essere gratificante e splendente come nel delirio.

Era una realtà carica di affettività, un’energia in più che la rendeva brillante e perfetta.

 

Nel delirio, o nei momenti immediatamente successivi, la percezione della realtà è più “ricca”, proprio come nei sogni.

 

Vorrei non aver dovuto perdere questo tipo di sguardo.

 

 

 

 

Era come se la mia mente fosse rimasta traumatizzata e ci volesse un tempo lungo per rimettermi.

 

Nei due giorni che sono seguiti alla sparizione del delirio, avevo la sensazione di avere dentro di me una violenza inaudita… non veniva fuori affatto come violenza, ma nel dire le cose quotidiane, nel mio comportamento… sentivo un’ eco che mi spaventava. Non è facile comunicare questo rumore.

 

Questa crisi, la sofferenza – questa sì inaudita – di vivere continuamente in uno stato di panico e non poter far niente.

 

Questa traumatizzazione dei miei tessuti mentali, mi aveva lasciato dentro questa violenza.

Come la mia fosse stata un’ “impossibile” frustrazione.

 

Una notte avevo bruciato il lenzuolo con una sigaretta… incendiato il cestino buttando una sigaretta accesa…

 

 

 

 

 

A partire da una certa data ero andata al mare in vacanza a casa di mia sorella.

 

Erano tutti molto gentili.

Ogni tanto c’era chi mi parlava di persone interdette, di handicappati…ma col tempo – pensavo – riguadagnerò la faccia perduta o un po’ sgretolata.

 

Mi ero convinta di non aver fatto nessun danno perché in generale le persone non se ne erano accorte.

 

A Milano era stata a cena in casa di amici e, pur dovendo tradurre le loro parole nell’ideologia del delirio, un lavoro molto faticoso perché dovevo rispondere a loro e, contemporaneamente, all’ideologia del delirio, avevo potuto mantenere una pazzia privata.

Ero riuscita, anche se con fatica, a mantenere il senso comune della situazione.

 

I rapporti con la mia famiglia, a differenza che nelle altre crisi, si erano mantenuti uguali, costantemente affettuosi.

 

Questa volta non avevo rotto i legami.

 

 

 

 

 

 

XXXII e il mio terapeuta?

 

 

 

 

 

 

 

Lei non era neanche un po’ preoccupato a lasciarmi andare sola per il mondo e in delirio?

 

Al mio ritorno – pensavo – mi troverà “rifatta”…

 

Si stupirà di come ho potuto vivere bene senza di lui.

Vedrò nei suoi occhi la contentezza di sapere che posso essere felice lontano da lui.

 

Quando se n’era andato per le ferie, ero impazzita.

 

Ma poi, come sempre avevo obbedito.

 

 

Come mi vedrà il Professore dopo questa crisi? – mi chiedevo.

 

Ancora più stigmatizzata.

Lui che aveva creduto, tanto da regalarmela, in “ una mia parte sana e consistente…”

 

Sarà deluso?

 

Ma la mia parte sana aveva fatto miracoli, il successo del nostro viaggio era assicurato, una parte sana non può annullare la parte malata.

Può solo contenerla e l’aveva fatto.

 

Così pensavo io.

 

 

Forse ero troppo entusiasta.

Ma non avrei mai pensato di riuscirci.

 

Avevo evitato distruzioni, pur impazzendo, o forse è proprio impazzendo che le avevo evitate.

 

La mia parte sana, la parte protettiva della mia coscienza, il mio io, pur collassati, si erano comportati bene.

 

La fiducia che lui aveva riposto in me era stata un peso, ma anche un puntello.

 

Ma pensavo di avervi potuto rispondere.

Dentro le mie possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIV il delirio si esprime anche in una forma gruppale in cui gli altri partecipano al delirio senza saperlo

 

 

 

 

 

In quest’ultimo delirio, le persone intorno a me ricreavano le figure del mio mondo interno come in un teatro.

 

Tutti quei personaggi che vediamo nel terapeuta senza accorgercene, erano adesso vivi e autonomi.

 

Anche in una seduta sono lì e partecipano delle emozioni, ma sono tutte concentrate nella persona del terapeuta, nei suoi gesti, nelle sue espressioni, come quelle figure che si sovrappongono una all’altra nei sogni.

Il terapeuta è come una bambola russa, solo che si apre sull’infinito del nostro mondo interno.

 

Nel delirio, queste figure riprendono una loro autonomia di movimento e si spargono su tanti volti, su tanti gesti, tante espressioni e le vediamo reali.

 

Questo fatto documenta la frammentazione del mio mondo interno.

 

Mario, mio marito, era mia madre e mio padre, Francesca, mia figlia, era me stessa adulta e bambina.

Mia sorella e mio cognato, una coppia genitoriale cui affidarsi, ma nello stesso tempo, sottrarsi: a loro avevo nascosto il delirio.

 

Lei, il mio punto di riferimento, il mio Capitano, era rappresentato soprattutto da un’amica, “ una persona non esperta” perché lontanissima dalla psicoanalisi e dai problemi del mondo interno.

 

Forse per questo lei è rimasto ad un certo punto sullo sfondo.

Avevo bisogno di qualcuno concreto, un’immagine viva che mi stesse vicino.

 

La mia amica non era una buona ascoltatrice del delirio: mi stava a sentire qualche minuto, poi preferiva che cambiassi disco, mi riportassi alla realtà.

 

E questo lo sentivo come una violenza, anche se, a poco a poco, ho potuto servirmene.

 

 

 

Con mio marito e mia figlia il rapporto era più scoperto.

 

All’inizio credevo ci fosse un canovaccio cui si attenessero e li accusavo di dire delle grandi stupidaggini.

 

Ma poi ho capito che loro erano normali.

Dicevano quello che passava loro per la testa, solo si sottoponevano ad una terapia per me e per loro, per aiutarmi ed aiutarsi (così fantasticavo).

C’era la lontana giurisdizione degli Stati Uniti, ma le persone si facevano terapia tra di loro.

 

In fondo non è così strano: le persone che abitano insieme si fanno in un certo senso una terapia di sostegno, una terapia buona quando sono in armonia.

 

Il delirio aggiunge significati inediti alle cose reali.

 

 

 

 

 

Nella seduta con lei e con lo psichiatra, voi eravate solo dei professionisti incaricati di fare una terapia a me.

 

Ero nella realtà, volevo utilizzare quanto potevate dirmi al massimo. Sapevo di essere malata. Avevo messo il delirio fra parentesi. Abbastanza tra parentesi, del tutto è impossibile.

 

 

27 LUGLIO 2013 forse arrivo oggi fin qui

10 agosto 2013 ore 16:24 da qui: (dal 35 p.63 a

XXXV l’unico momento di requie dal delirio era la contemplazione delle case e ad essa ricorrevo quando il delirio diventava una vera e propria persecuzione

 

 

 

 

 

Ma la cosa più terribile che succedeva era che, dal momento che tutta la realtà che vivevo era avvolta dal delirio, ovunque mi facevano terapia.

 

Allora non avevo più un posto dove scappare: ad un certo momento il delirio diventava una tremenda persecuzione.

 

Non c’era un momento di pausa, di tregua, di respiro.

 

Allora guardavo le case, i bellissimi palazzi di Milano, il cielo, gli alberi silenziosi.

Una pura percezione senza parole che mi tranquillizzava.

 

Mi davano uno spazio mentale libero di cui avevo un estremo bisogno.

 

Anche se questo spazio non mi permetteva di pensare, ritrovavo la normalità delle percezioni.

 

Guardavo anche le macchine dalla mia finestra, ma a queste, a differenza della natura, annettevo un certo simbolismo che, alla fine mi stancava.

 

Solo la natura e le case erano esenti dal delirio.

 

 

 

Quando rientravo in me, il pericolo non era solo il panico, ma la depressione.

Una depressione cupa che parlava di suicidio e di morti che si riposano.

 

In questa crisi non c’era una distinzione netta tra mania e depressione come nelle altre.

 

In questi momenti mi sorgeva un grande amore per il mio terapeuta.

Una grande gratitudine, e questa era stata la mia salvezza.

 

Era una figura buona, o molto idealizzata, a seconda dei momenti, cui aggrapparmi.

 

 

 

 

 

Non che io non abbia pensato a suicidarmi.

Non ne potevo letteralmente più.

 

Mi sono avvicinata alla balaustra del terrazzo, però pensando: “Più che male dal secondo piano non potrò farmi”.

Ma non ho detto niente.

Nello stesso momento mia figlia era ferma davanti alla balaustra e mi ha guardato seria negli occhi.

 

Questo è bastato a farmi rientrare in me.

 

E’ stato un momento lungo di catarsi e l’ultimo atto del delirio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVI a poco a poco, l’ideologia del delirio si organizza in un sistema, che si fa sempre più rigido, e a cui tutto deve sottostare, mentre la persona tende sempre più a voler fuggire come il personaggio del film “ The Truman Show”.

 

 

 

 

 

Mi sono domandata se nella pazzia avessi un pensiero incoerente, intendendo per coerenza solo una qualità formale interna.

 

L’impressione è il contrario, nonostante una grande labilità per cui scivolavo facilmente da un’idea all’altra.

 

Questo tipo di pensiero spontaneo, sciolto, è solo in parte simile ad uno che è in associazione libera, perché in realtà s’inserisce in un sistema rigido e ad esso deve continuamente sottostare.

 

Questo sistema rigido è l’ideologia del delirio.

 

Quello che fa star così male è essere incassati, murati vivi in una pietra che ci sovrasta, ci circonda da tutte le parti, non c’è vuoto, non c’è spazio, è davanti, dai lati, dietro, sulla testa, resta libero il pavimento, le gambe e i piedi, puoi ballare come facevo io, ma non puoi usarli per scappare.

 

C’è un disegno circoscritto, un labirinto, anche se non lo sai, ma lo sai, io lo sapevo, da qualche parte c’era l’uscita, anche se ritenevo che fossero gli altri a dovermela mostrare.

 

E gli altri a cui chiedevo, soprattutto a Mario, non la sapevano.

 

Sapevo che c’era un’uscita, ma era presto per trovarla.

 

 

 

Ad un certo punto, mi è nata la convinzione che ero io ad alimentare quel incubo.

 

Io, con la mia testa, anche se contemporaneamente ritenevo che tutto dipendesse da stimoli esterni che ero impotente a far smettere.

 

Ma quest’idea ha messo a fuoco me stessa, invece che l’esterno.

 

Mi ha tolto, in parte, la sensazione di essere passiva, un puro contenitore di stimoli che venivano dal mondo.

Mi ha spostato da una posizione inerte ad una attiva.

 

E mi ha fatto baluginare il pensiero che stesse a me fare qualche cosa.

 

 

 

 

 

 

Quando sono matta succede una cosa strana.

 

So fare quasi tutto, giocare a bocce, come nella prima internazione in Brasile, partecipare a gare e vincerle, mentre in genere sono impossibilitata a vincere.

Manovrare macchinari vari, quando normalmente sono negata, lavorare il cuoio, dipingere…tutte cose che non so fare.

 

Mi chiedo come sia possibile.

Succederà anche agli altri pazienti?

Saltano certe inibizioni.

Ma queste capacità dove si trovano sepolte?

 

 

Ritrovavo anche la mia grande passione per il ballo.

Da bambina avevo fatto la Comunione un anno dopo i miei compagni, perché l’orario della dottrina coincideva con il programma “Ballate con noi”.

 

Sentivo continuamente della musica, il mio delirio era sonoro, una specie di “commedia musicale”.

 

Ogni pezzo che sceglievo si accordava al contenuto del delirio di quel momento e me lo suggeriva, il rapporto era sempre reciproco, un incastro perfetto tra parole e musica.

 

 

 

 

 

 

 

XXXVII Nel delirio non c’è distacco dal mondo reale quanto un affondarci, un supervalorizzarlo mentre ci si specchia.

Nel periodo preparatorio del delirio l’io è, nella mia esperienza, dilaniato dai conflitti, e questo stato modifica la forma del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

Il distacco presuppone una distanza, quello che si vive è un appiccico, un confondersi.

 

Il delirio non è una non-realtà, ma un’ iper-realtà.

 

 

Il matto affonda nel mondo, oppure si tira il mondo addosso per incapacità a differenziarsene.

 

E’ il contrario della distanza, anche se negli effetti egli è fuori, distante dalla realtà condivisa.

 

Ha fatto una palla confusa tra il suo io e il mondo.

Non ci sono più confini.

 

 

Certo, posso dire solo di me: il mondo era entrato in me, e questa sensazione era sconvolgente.

 

Si impazzisce perché la mente non regge l’impatto con questa massa gigantesca.

 

La distanza è una funzione della mente sana, una distanza equilibrata.

 

 

 

 

 

 

 

 

All’origine del delirio c’è sempre, almeno nella mia esperienza, uno stremarsi a tener dietro a tanti temi in conflitto.

 

L’io si collassa, è annichilito, perché non riesce più a stabilire una barriera, prima agli stimoli interni e, poi, a quelli esterni.

 

E, ad un certo momento, non c’è più una netta distinzione tra i due.

 

E’ invaso da un eccesso d’ informazione che non riesce più ad elaborare.

 

Non riesce più a trovare le parole che diano un significato, manca una rete che prenda quel flusso continuo.

 

Non può più pensare.

Il pensare è una funzione della distanza dalle percezioni e del linguaggio.

 

Eccessivamente frustrato non tollera più la frustrazione.

 

Ma è il poter sopportare la frustrazione che permette la riflessione su cosa ci sta accadendo e su come trasformare la situazione.

Altrimenti si passa ad agire.

 

E questo agire di tutto il proprio mondo interno è il delirio.

 

 

 

Perde la nozione di cosa è utile alla sopravvivenza e di inutile.

 

Il bisogno di sopravvivenza si sposta in un altro registro dove le parole utile e inutile hanno un senso diverso dal comune.

 

Utile diventa tutto quello che mantiene il delirio.

Utile è cosa abbassa il panico.

 

La sopravvivenza diventa una funzione del delirio.

 

 

 

XXXVIII cerco di dire qualcosa sul tipo di pensiero del delirio

 

 

 

 

 

 

La capacità di discriminazione, di differenziazione, così fondamentale nel mondo reale si dilegua completamente.

 

Tutto è ugualmente importante e ogni cosa si sposta, scivola nell’altra senza distinzione, perché l’insieme acquista il volto di una comune parentela.

 

La rappresentazione degli oggetti è realistica, una mela è una mela, ma questa informazione non interessa ed è lasciata cadere, a meno che a quella mela non si aggiunga un significato, un simbolo, che la faccia rientrare nel sistema generale.

 

Così dev’essere nella poesia.

 

Si perde ogni senso di stabilità che la rappresentazione degli oggetti del mondo ci comunica, quella possibilità di raggruppare le percezioni in schemi stabili e conosciuti.

 

Le percezioni risultano allora sciolte e sembrano andare per un corso proprio.

 

 

L’attenzione liberamente fluttuante che abbiamo sul mondo esterno e interno, si imbriglia in una griglia di ferro, focalizzata – a poco a poco – in un unico punto dove si aspetta il sorgere di un pericolo mortale.

 

In quel momento sorge il panico e il terrore, e non si può più parlare di attenzione nel senso comune perché si fissa e non vede altro.

 

 

La memoria viene messa come tra parentesi.

 

La memoria del passato e degli avvenimenti più recenti, come la intendiamo nella nostra vita normale, si dissolve.

 

Si registra il vissuto immediato, ma per incassarlo in quella che chiamo, forse impropriamente, l’ideologia del delirio.

 

 

 

 

 

La fantasia e l’immaginazione sono, invece, al potere, come si diceva nel maggio francese.

Come fossero rimaste le uniche facoltà del nostro apparato mentale.

 

 

 

 

L’io vive in uno stato di eccitazione continua, da cui non può rilassarsi nemmeno nel sonno.

 

Il pericolo che sta correndo lo tiene desto e, come in un movimento a spirale, l’io si disintegra sempre di più.

 

 

 

 

 

 

Quei grandi contenitori degli stimoli, che sono lo spazio e il tempo, perdono la loro funzione di organizzatori del reale, perché sono diventati evanescenti.

 

Non c’è un prima e un dopo, ma tutto è adesso o mai più.

 

Ogni forma di sintassi sparisce: non c’è un “ se faccio questo, allora succede quello”, ma tutto avviene congiuntamente e simultaneamente.

 

La categoria della totalità sembra l’unica rimasta sulla scena, perché ogni cosa deve esistere in quella globalità onnicomprensiva che è il significato del delirio.

 

E, in ogni piccola cosa, si riconosce, come condensata, quella totalità.

 

Ma, anche, ogni cosa è depositaria di una pluralità di significati che devono essere decifrati per poi svanire in una decifrazione successiva.

 

 

Si vive uno stato di energia libera da tutti gli schemi che la strutturano, che sembra inesauribile, come si fosse tolto il contenitore ad una caldaia sempre accesa, sempre autorigenerantesi.

 

L’impatto di questa straordinaria energia sciolta sopra la mente è sconvolgente.

 

 

A poco a poco, una stanchezza inenarrabile slabbra i confini tra l’io e il mondo esterno e tra lui e il mondo interno.

 

E il mondo entra in lui.

E il mondo interno esce fuori.

 

Non ce la fa ad accorgersene.

E’ un movimento graduale e continuo.

 

Sparisce la barriera tra passato e presente e i desideri situati nel futuro diventano attuali.

 

Anche lo spazio è dilatato dall’angoscia che sottende questo processo.

 

Nello stesso tempo gli spazi si ravvicinano e il lontano e il vicino fluiscono uno nell’altro.

 

Il campo mentale interno si annulla rendendo impossibile pensare.

 

Non c’è più interno ed esterno, anche se dei confini molto fluidi si mantengono secondo i momenti.

 

Il soggetto si sente riplasmato dal mondo, mentre lo riplasma.

 

Violentato e ferito trova nel delirio una risposta a questa violenza.

 

Con questo ridà un significato al mondo e a se stesso.

 

Si sente di nuovo io, ma questa volta è un io gigantesco, proporzionato al compito che gli spetta, al suo interlocutore, il mondo.

 

 

 

 

 

XLI Questa impossibilità a differenziarmi dal mondo esterno che appare nella malattia aveva origine nell’infanzia.

 

 

 

 

 

Avevo sempre avuto una costante difficoltà a differenziarmi dal mondo esterno, ad avere un perimetro che segnasse un mio territorio.

Un infantilismo emotivo che mi portavo dietro fin da piccola.

 

Non potevo andare al cinema perché entravo nella tela e anche i film di Totò e Rascel mi facevano piangere.

Il mio rito di passaggio al cinema era stato proprio un film di Rascel: “Atanasio cavallo vanesio”.

Una mia cugina mi aveva tenuto per mano nei punti difficili ed ero riuscita a vederlo fino alla fine.

 

Per la lettura ci aveva pensato mia sorella con un libro dei fratelli Delly : “Il marchese di Carabas”.

 

Da allora avevo letto tutta la collana della BUR cominciando dalla “A” e andavo due o tre volte alla settimana al cinema.

 

Un difetto della capacità di simbolizzazione, mi dicevo.

 

 

 

Le persone amate me le “ingoiavo”, s’installavano in me come un seme che cresceva con me e mi faceva assomigliare a loro.

 

Le persone amate erano tante, così la mia identità è stata sempre vacillante e multidirezionale.

 

Mi era difficile tenere il filo di tante possibilità.

Tutto era sempre troppo complesso.

 

 

In casa vivevo in un costante crocevia, con il rischio imminente di essere messa sotto dal traffico.

 

Ero identificata con le ragioni della ragazza che lavorava per noi, fino a sposarle, fino a diventare comunista, quando i miei erano vagamente di centro-destra.

Le ragazze si sfogavano con me, convinte della mia segretezza, ed erano violente nell’esporre le loro ragioni.

 

Ma nello stesso tempo ero identificata con le ragioni dei miei genitori, altrettanto violente, perché erano i miei genitori e io li amavo.

 

Mi ero scissa, per necessità, fin da piccola.

 

Questo mi ha obbligato ad avere costantemente una visione, per così dire, binoculare da strabico: un occhio guardava ad ovest ed uno ad est.

 

La lotta di classe l’ho imparata in casa, era una cosa reale.

Le ragioni di queste due parti erano incomponibili.

 

Come la mia visione della realtà.

 

Dovevo costruirmi un’io più forte per arrivare ad una sintesi, un’integrazione che fosse mia.

 

Ma questa era un’impresa lunga e difficile.

 

Oggi, a quasi sessant’anni, dentro la fragilità e la labilità delle cose umane, credo di esserci sufficientemente riuscita, ma ci sono volute quattro crisi di pazzia, tre internazioni, un numero infinito di depressioni, e oltre vent’anni di terapia.

 

E’ stato un lavoro lungo e faticoso.

 

Ma ne valeva la pena.

 

Vale la pena quando si può alla fine vivere la serenità di una persona sufficientemente integrata.

 

 

 

 

XLII

 

 

 

 

 

Da bambina mi era più facile intuire cosa le persone volevano che dicessi, più che capire cosa volevo dire io.

 

Finché un giorno, in un colloquio con la mia maestra, mi ero “ vista”.

 

Una luce fortissima mi aveva illuminato.

Avevo avuto il primo attacco d’angoscia, ma da allora non era stato più possibile annullarmi negli altri.

 

Anzi, per un’evidente reazione, non ho più potuto dire che quello che sentivo precisamente in quel momento.

 

Questo mi ha obbligato ad indagarmi per scoprire chi ero e cosa pensavo, cosa sentivo e cosa volevo.

 

 

La scuola è diventato un impegno difficile.

Non ho più potuto studiare sui manuali, non potevo ripetere le parole di un altro, dovevano diventare mie.

 

Così dovevo leggere gli autori direttamente: erano più comprensibili di qualunque manuale.

Ma questo ha comportato che impiegassi dodici anni a fare la facoltà di filosofia.

Con tutti gli effetti collaterali del caso, di cui, il più importante, era sentirsi un’idiota, più handicappata di qualunque altro.

Non conoscevo nessuno che avesse impiegato tanto tempo a fare una facoltà.

Io ero spregevolmente diversa.

 

 

 

 

Non ricordo di aver avuto nessuno che si occupasse specificamente di me, a parte una suora, la mia insegnante, nell’ultimo anno delle medie.

 

Il delirio è anche una compensazione di tante carenze passate, perché tutta la gente è lì per me, intorno a me, per assistermi o perseguitarmi a seconda dei momenti, come intorno ad una culla.

Tante fate benefiche o malefiche.

 

 

 

Per strano che sembri, la persona in delirio deve avere una buona capacità di percezione realistica che, io credo, certe trasformazioni biochimiche e del mondo interno, acuiscono.

 

La realtà è tutta lì, intatta come prima, e viene percepita in ogni dettaglio minuto.

Ma ogni cosa si accorda con l’altra come in una sinfonia, in un susseguirsi di accordi perfetti.

 

Il malato è un “traduttore” di ogni piccola percezione, al punto di vivere in continua meraviglia, perché inventarsi non si inventa niente, ma tutto rientra e diventa comprensibile all’interno dell’ideologia del delirio.

 

Cosa sarà questo straordinario adattatore della nostra testa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIII

 

 

 

 

 

Il delirio è uno sforzo prodigioso di sintesi, e questo lavoro sfinisce, perché tutta la realtà, anche la più distante nello spazio e nel tempo, la più diversa e contraddittoria, deve acquistare un unico senso.

 

Questo sforzo prodigioso è quello che impedisce alla persona di sminuzzarsi in tante piccole schegge.

 

 

C’è uno scambio continuo tra percezione e attribuzione di significato, tutta la realtà corre velocissima come il pensiero.

 

A volte è la percezione a chiedere una simbolizzazione, ma più spesso è l’immagine interna che la trova, lì, già pronta a riceverla e, in quel significato preciso, esatto di quel momento.

 

 

La realtà ha dei colori sempre molto caldi, tutte le sfumature dell’arancio e del rosso, dovuti alla tonalità affettiva della persona in delirio.

Il lavoro del delirio avviene a temperature incandescenti.

 

Non ci sono più legami di causa ed effetto, ma di somiglianza, contiguità, analogia, c’è una “simpatia” che pervade tutte le cose, accenni, echi, rispondenze, risonanze.

 

Si stabilisce una nuova vicinanza, una presenza e una comunicazione reciproca e il mondo si specchia nell’io e l’io nel mondo.

 

 

Come in un testo poetico.

 

 

Un solo spazio compenetra ogni essere:

spazio interiore del mondo. Uccelli taciti

ci attraversano. Oh, io che voglio crescere,

guardo fuori ed in me cresce l’albero.

 

Io sono in ansia e in me sorge la casa.

Cerco riparo ed ecco in me il riparo.

L’Amato, io divenni; e su la bella immagine

Del mondo posa e si libera in lacrime. ( Rilke)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIV

 

 

 

 

 

 

Il mondo diventa un organismo vivente dove ogni cosa è funzionale al tutto e il tutto alle parti e l’io è contemporaneamente una parte del tutto e il tutto.

 

 

Il delirio non è un non-pensiero, ma un modo di pensare arcaico, dal quale ci siamo allontanati per acquisire un controllo sulla natura.

 

Rinasce in noi in tanti momenti di stanchezza, di intimità, di violenza delle passioni e in tante malattie.

 

Qualcosa che, forse, abbiamo ereditato dai nostri ancestrali e che non abbiamo perso, ma siamo andati oltre con l’evoluzione.

Qualcosa che faceva parte della nostra mente bambina e che nella relazione con l’ambiente, con le persone a noi vicine, abbiamo trasformato.

 

 

Quando il delirio è passato, mi immaginavo che ci fosse una parte antica del nostro cervello che continuasse a funzionare così.

Che l’io stremato ritornasse ad un suo funzionamento antico.

 

Che lì dentro, in questa parte del nostro tessuto nervoso, ci fosse un omino in costante delirio e che noi utilizzassimo questo tipo di pensiero nella vita normale senza accorgercene.

 

Era il mio modo di rientrare nella normalità e quel piccolo omino mi faceva compagnia.

 

 

Il delirio deve essere aiutato dalle allucinazioni, ma io non me ne sono mai accorta.

Non ho avuto allucinazioni stabili di oggetti o persone. Quello che vedevo lo potevo toccare.

 

L’impressione che ho avuto in seguito è che le allucinazioni aumentino la velocità del pensiero e della realtà, non si percepiscono perché sono inconsce, non le avvertivo, perché, nel mio caso, non mantenevano la costanza sufficiente per formare un oggetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLV

 

 

 

 

Strinberg nel saggio “ Il sogno” descrive molto bene il tipo di pensiero del delirio, anche se parla del sogno.

 

“… tutto può succedere, tutto è possibile e anche verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su di un fondamento insignificante di realtà, la mente intesse nuovi modelli: una commistione di ricordi, di esperienze di vita, di idee slegate, di sconcordanze e improvvisazioni…I personaggi si scindono, si moltiplicano, si sdoppiano, si concretano, svaniscono, si raccolgono…

 

E, in “ Verso Damasco”: “ Là dove prima io vedevo degli oggetti e degli avvenimenti, delle forme e dei colori, ora scorgo dei pensieri e dei simboli”.

 

 

Il delirio mi sembra però presentare alcune differenze rispetto al sogno.

 

La differenza più grossa mi pare il fatto che, mentre nel sogno non c’è una realtà esterna, oppure si presenta sotto forma di ricordi, per quanto trasformati, il delirio prende forma su una realtà esterna.

Non tutto allora diventa possibile né verosimile.

 

Quello che accomuna il sogno al delirio è il tipo di credenza che suscita nel sognatore o nel pensatore del delirio: quello che succede è proprio così, non ci sono dubbi, è proprio reale, con un’evidenza e una partecipazione emotiva che, forse, nessuna realtà può dare.

 

“La mente intesse nuovi modelli su un fondamento insignificante di realtà”: questo avviene anche nel delirio.

 

Ugualmente vero è che, non al posto, ma insieme a oggetti e avvenimenti, si scorgono pensieri e simboli.

I simboli che io scorgevo erano, in fondo, sempre gli stessi perché legati al principio maschile e femminile.

 

 

 

Non mi pare di aver visto una partecipazione dei ricordi al delirio, come invece avviene nei sogni : il tempo era solo presente e la percezione solo degli avvenimenti attuali.

I ricordi erano eliminati.

 

Se s’intende, invece, per ricordi, i ricordi inconsci, esperienze sotterrate da secoli, allora queste appaiono attuanti nel delirio, forse ancora più che nei sogni, perché essi sono lì e devono raccontare la loro storia fino alla fine.

 

Il delirio non può finire se non hanno sbobinato tutta la cassetta e se questi ricordi non hanno trovato una qualche possibile conclusione al loro racconto.

 

Vogliono a tutti i costi una fine. E’ solo per questo che si sono messi in moto.

Come fossero degli elementi insaturi che prendono vita fino a saturarsi.

 

 

Come volessero addormentarsi, ma non possono, perché qualcosa li ha bloccati all’inizio, ancor prima di essere vissuti, come una parola troncata a metà, che non quieta fino a che non la lasciano pronunciarsi tutta intera.

 

 

 

 

MESSO SUL BLOG FINO A QUI pag 87

 

 

23 OTTOBRE 2013 MESSO SUL BLOG FINO A PAG 96 MA NON HO MESSO IL LINK! MI PENTIRO’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVI

 

 

 

 

 

Il film “Colazione da Tiffany”, visto alla fine di luglio, mi aveva rimandato l’immagine di una me stessa che conoscevo, ma che facevo di tutto per non vedere.

Alla fine ho pianto tutte le mie lacrime.

 

Era la me stessa del deficit, come dicono gli specialisti, un cane perduto senza aver mai avuto un collare, prigioniero di se stesso, ma che non può scappare e non ha nessuno, neanche un altro cane che gli tenda la mano, una mano vera, concreta, fatta di carne, non le solite mani fatte di parole.

 

La depressione che sentivo era una depressione buona, non quella che di solito mi arrivava dopo la mania, era un contatto con la realtà doloroso, ma che non mi faceva precipitare negli abissi.

 

Dovevo accettare di avere uno stigma, questo non si poteva cancellare, era la mia storia, ce l’avevo impresso nella carne, ogni tanto fiorivo una primavera in più, come dicevano della famiglia di mia madre.

 

Mentre io, al lavoro, dove ero stata presentata come un “paziente guarito”, volevo dimostrare di essere sana come gli altri.

 

Quando invece, anche senza crisi, ero sempre una persona molto più fragile.

 

 

Il sogno grandissimo che alberga nel cuore di un malato mentale è di essere sano di mente… magari a ottant’anni…magari a cento…ma diventare come gli altri.

 

E’ questa la solitudine che pesa.

E’ essere fuori dal mondo degli altri.

 

 

Inoltre, il mio infantilismo non mi permetteva nel lavoro di darmi un obiettivo intermedio, pianificare i miei sforzi e risparmiarmi, acquisire un fiato lungo.

 

Sono sempre rimasta una bambina incollata ai vetri di una vetrina che non può vedere in prospettiva, che non ha idea di futuro.

 

Inoltre il lavoro era troppo vicino alla fine della terapia, il mio transfert (legame col terapeuta) era ancora troppo alto, mi obbligava a tagliare, comprimere dei sentimenti e questo mi consumava energia.

Era stato scelto male il momento.

 

Ero entusiasta di quella Chiara che vedevo apparire, una persona capace di lavorare…e l’entusiasmo non aiuta a prendere le misure.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVII

 

 

 

 

 

 

Quando il delirio se n’ è va rimane una grande labilità, la mia mente era molto stanca di tanto lavoro.

Questo mi portava spesso a piangere, anche se normalmente non piango mai.

 

Il delirio mi stava ancora vicino, stava con me anche se non mi recava alcun disturbo.

 

La percezione della realtà era più brillosa come se il mondo fosse rinato in primavera, bagnato di rugiada.

 

I processi della mente per riacquistare una sua normalità sono molto graduali e lenti.

Il delirio se ne va per piccoli territori e in ognuno bisogna passare.

 

La mente è sfinita e può fare solo un piccolo lavoro per volta.

 

Era come se avessi tagliato un cordone di ferro con cui mi ero tirato il mondo addosso, l’avevo tagliato quella notte in cui avevo pensato di suicidarmi e non l’avevo fatto.

 

Poi dovevo spostare il mondo al suo posto, la grossa spinta l’avevo data in una volta sola, un lavoro durato due giorni.

 

Poi ero rimasta un po’ qui e un po’ là.

 

In seguito il delirio non c’era più, ma rimaneva a mano come quando ero andata alla clinica per l’esame del litio.

 

 

 

 

 

 

Andando alla spiaggia, dovevo ogni volta spingere di nuovo il mondo indietro perché minacciava di ingoiarmi di nuovo.

 

E’ come una ginnastica pesante e bisogna farsi i muscoli per tenerlo là.

Fisso là.

 

Questa ginnastica consisteva nel fatto che se, per esempio, sentivo della gente parlare in spiaggia, ed era di nuovo “tutto giusto”, proprio come nel delirio, si incastrava tutto di nuovo, dovevo ripetermi continuamente:

“ not me”.

 

 

Così era per tutto, paesaggio per paesaggio, situazione per situazione.

 

Dovevo fare un continuo lavoro di discriminazione tra me e l’esterno.

 

Separare da me la gente e lasciarla là fuori in uno spazio che non era il mio.

 

A volte, mi dicevo ancora: ma potrebbe essere.

 

A volte, mentre piangevo, mi dicevo: “ Ce la vorrei una telecamera nascosta, mi terrebbe compagnia”. Tanto ero sola.

 

Ogni tanto, se scrivevo i miei quaderni, mi veniva l’idea che tutto era teletrasmesso al mio terapeuta.

 

A volte si ripresentava anche l’immagine dell’équipe americana.

 

Anche il mio terapeuta doveva abbandonarmi, diventare l’altro e stare nel mondo esterno in uno spazio e in un tempo cui non avevo accesso.

 

 

 

Oltre alla ginnastica di spostare le immagini del mondo fuori di me, la mia terapia consisteva nel guardare tranquillamente il mondo esterno, una terapia cui ero allenata perché la facevo da molti anni.

 

Lasciavo che le sue immagini entrassero dentro di me, occupassero uno spazio mentale giusto che mi faceva star bene.

Sentire i suoni, i rumori e accettare che a poco a poco queste figure luminose, era estate e c’erano le rondini nel cielo, si sostituissero alle immagini del mio mondo interno ancora confuse e fosche.

 

A volte, alla fine di questo lavoro, scoppiavo a piangere e mi dicevo: “Qualcuno mi è morto dentro” e non sapevo chi.

 

Invece, a volte, ringraziavo il Signore di essere ancora viva.

 

 

Mi dicevo anche : “ Perché, invece di lavorare tanto, non tenti di dimenticare?”

Passavo il tempo a scrivere sui miei quaderni.

Ma non potevo, dovevo finire questo lavoro della mia mente.

 

 

A volte il delirio rimaneva fermo nell’aria davanti a me: era lì, ci credevo, poi mi svegliavo, e non ci credevo più.

 

E andavo avanti con questo tormento.

 

Ne parlavo con Mario e mi faceva bene, mi faceva meglio dell’Haldol.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLVIII

 

 

 

 

 

 

Ho sognato, un sogno piccolo, lo studio del mio terapeuta, uno studio grande come un salotto, che non avevo mai visto, io ero un po’ addormentata su un piccolo tavolino vicino ai divani e sentivo il terapeuta nell’altra stanza sgridare una bambina.

 

Quando è venuto vicino a me ha detto: “ E’ un gran lavoro!”, ma io ho fatto finta di continuare a dormire.

Forse perché mi aveva abbandonato andando in ferie.

 

Ho inteso: “ E’ un lavoraccio uscire dal delirio”.

Quella bambina ero io, mi sgridava perché non ero stata capace di non impazzire.

 

 

Nell’altro, ero davanti ad un quadro con una palma dipinta, dicevo ad un pittore, una pittrice e uno scultore che mentre, per i disegni sul tronco il simbolismo non si discuteva, il ramo della palma, che si apriva ad arco, aveva un simbolismo mobile e relativo: poteva essere un elemento femminile rispetto al tronco, ma rispetto alle foglie poteva essere inteso come elemento maschile.

Mentre parlo, lo scultore si allontana come uno che deve stare a sentire cose trite e ritrite.

Il mio terapeuta, scultore di menti era arcistufo?

 

Questo tipo di lettura di simboli era presente in tutto il delirio.

 

 

Ho svegliato Mario e gli ho detto: “ Io non voglio più vederti come figlio, devo poter tirar fuori l’aggressività che ho verso di te, altrimenti non esco da questo delirio.”

 

Il delirio si manteneva anche per i conflitti che avevo con le persone a me vicine e con il mio terapeuta.

 

Lui, dovevo lasciarlo, abbandonarlo a se stesso e rinunciare al lavoro, anche se mi sembrava una cosa peggiore della morte.

 

Gli ero stata troppo vicina, incollata, e mi ero ingoiata anche la sua pazzia.

 

 

 

 

In tutta la vita non avevo potuto mantenere una professione per più di tre anni… sempre sopraggiungeva una crisi o di mania o di depressione.

 

Questo aveva lasciato un gran buco nella mia identità e aveva aumentato la mia vergogna di non essere come gli altri.

 

Lavorare presso il mio terapeuta, un lavoro che mi piaceva moltissimo, mi aveva dato il sogno di un riscatto anche davanti a mia figlia.

 

Mi era sembrata una garanzia e si era invece rivelato un gran pasticcio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XLIX

 

 

 

 

 

Tutta la vita avevo cercato nella terapia di restaurare la figura di mio padre, di riformarmi dentro un’immagine di padre autorevole cui potermi appoggiare e sentirmi protetta.

 

Avevo bisogno di spostare il mio interesse da una madre forte, bellissima e inaccessibile, ad un padre amorevole, ma dignitoso, convinto del suo ruolo di padre.

Questa figura non ero riuscita a costruirla.

 

Erano sorte, al suo posto, innumerevoli confusioni, perché puntualmente, nella terapia, risorgeva una Chiara bambina innamoratissima del suo papà buono e generoso.

Che mi faceva i disegni e scherzava con me.

Un papà identificato con un mezzadro.

 

Non era semplice contenere, nella terapia, quest’immagine, perché non si era evoluta, ma bloccata ai primi anni.

La figura di mio padre era così forte e così meravigliosa perché era una figura combinata di madre e padre.

 

A lui, infatti, nel mio straordinario bisogno di affetto, mi ero rivolta di fronte ad una madre che io percepivo fredda e scostante, sempre distratta dagli affari.

 

Solo molto tardi ho potuto capire che avevo una bocca troppo grande sul mondo, che le persone mi apparivano troppo distanti perché i miei desideri erano sempre eccessivi.

 

Ero stata una bambina straordinariamente ammirata, ma poi tutto era sparito, come un teatrino sbaraccato dove ero sempre stata la primadonna.

Era cominciato tutto all’asilo dove facevamo teatro e io ero la più brava, sempre applauditissima al saggio finale.

 

Questa immagine era andata avanti per un po’, poi non c’era stata più.

 

Non so ricostruire quando questo era successo, forse semplicemente crescendo e perdendo quei vezzi che fanno i bambini straordinariamente amati.

 

Tutto era sparito improvvisamente, o così mi sembrava, e quell’immagine adorata era finita laggiù sotto i piedi, scivolata via su un pavimento qualsiasi.

Mi aveva lasciato dentro un vuoto incolmabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L

 

 

 

 

 

 

Ma nella terapia quest’immagine tornava viva, palpabile e palpitante, ma nessun terapeuta era stato in grado di prenderla per mano e farla crescere, accettarla e contenerla.

 

Trovavo un compenso a questo muro che trovavo nel terapeuta, offrendogli io la mia adorazione.

Amandolo, come si può amare il dio sole, un po’ di quel brillio si riverberava sopra di me.

 

Ma mi andavo sempre ad infilare in un vicolo cieco, una strada sbarrata, dovendo anche reggermi le oscillazioni che un contributo di ammirazione così alto suscitavano in quel essere umano che è un terapeuta.

 

In Brasile facevo analisi con una donna e supervisione con un uomo, con cui rifacevo lo stesso gioco.

In partenza per le vacanze, il supervisore mi aveva baciato sulla bocca e questo bacio, in me, si era trasformato in una bomba ingoiata che mi aveva fatto esplodere.

 

 

 

Mentre crescevo, mi ero accorta che mio padre era una vittima della situazione in casa, preda di due donne che a me sembravano due furie quando si avventavano su di lui.

Lo vedevo solo a tavola, davanti a me, incantato in pensieri oscuri.

Se domandavo cosa aveva rispondeva sempre: “Niente”.

 

Suo padre era stato una figura granitica, sopravissuto ad un terremoto dove erano morti i genitori, e questa vita così dura l’aveva portato ad essere molto rigido ed autoritario, sempre pronto a dirigere la vita degli altri come fossero bambini piccoli.

Quest’atteggiamento aveva impedito a mio padre di crescere e, quando si era sposato, aveva scelto una moglie ugualmente autoritaria.

 

Quando partivo per l’Università, sembrava che si spegnesse la luce dei suoi occhi.

Mia madre diceva sempre che se avessi voluto una stella sarebbe andato a prendermela.

Me n’ero poi andata anche in Brasile.

Quando sono tornata era già morto.

 

Mi ero sentita impotente ad aiutarlo, in casa non contavo niente, tutte le decisioni erano prese da mia madre e mia sorella.

Ho creduto di salvarmi abbandonandolo al suo destino.

L’avevo tradito.

 

Questo bisogno di riparare una figura maschile mi era rimasto dentro e l’avevo spostato su mio marito senza accorgermene.

Era una storia inconscia che mi faceva vedere mio marito come un figlio da crescere, quando lui era lui, semplicemente diverso dai miei parametri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LI

 

 

 

 

 

 

Ad un certo momento, quel delirio che stava fermo nel cielo se n’è andato.

E’ stato quando ho potuto tirar fuori un’aggressività costruttiva per risolvere i conflitti che avevo nei miei rapporti.

 

La ricetta finale era proprio questa: il delirio non è più ritornato.

 

 

Continuava solo nei sogni.

 

Avevo sognato la casa del mio analista, un ambiente di mobili antichi, un po’ buio, un salotto.

Arrivava una mia zia : era un’analista, mandata dal mio terapeuta, che mi portava dei libri.

Erano tests e, nello stesso tempo, suggerimenti, proprio come nel delirio.

Se avessi passato i tests, ne sarebbero arrivati più difficili e più vicini alla fine.

Questa mia zia era un emissario proprio come nel delirio.

I libri erano libri di agricoltura. In uno c’era scritto che è uno sbaglio lasciare il terreno solo con alberi, che la terra bisogna coltivarla tutta intensivamente.

 

Nel sogno intendo che la mia testa non posso lasciarla gerbida, che devo coltivare le mie capacità e leggere gli autori.

Si stava preparando una gran festa, si parlava di vestiti, e anch’io sarei andata quando il mio terapeuta mi avesse chiamata.

Ma prima dovevo passare i tests.

Era una festa per la fine del delirio.

La malattia mentale è un terrificante test per la nostra mente che non sempre si passa.

 

L’unica cosa che mi era sembrata interessante in questo sogno è che era identico al delirio.

Come se il delirio si fosse allontanato abbastanza dalla realtà da poter essere pensato in forma di sogno.

I bisogni che alimentavano il delirio, ridimensionati, si erano annidati, forse, in un’area da cui nascono i sogni.

Forse stavo ritornando a “poter pensare”.

 

 

Dall’immagine che ho usato per dire che uno si tira il mondo addosso, una corda da tirare o da spezzare, si può immaginare che quando uno è malato ritorna a vivere la fase di simbiosi con la madre, secondo i modi e i tempi in cui l’ha vissuta quella specifica persona.

 

Si ritorna indietro perché si arriva ad un muro davanti al quale non si può che retrocedere.

 

Inoltre, nella simbiosi, in una fase di così grande pericolo, la persona non si sente più né sola né isolata, ma un pezzetto di un altro che, in questo caso, è il mondo.

 

La mia simbiosi era prima di tutto con il terapeuta.

 

Aumentando il pericolo, lui era diventato il direttore di un’équipe americana.

Mia madre, da piccina, doveva sembrarmi potentissima, se me lo sembrava anche da grande.

 

E la vedevo nel terapeuta.

 

 

 

Nel delirio si allontanano quelle censure che ci nascondono i nostri desideri.

 

Volevo un rapporto con il mio terapeuta, ma per far questo dovevo tradire mio marito e mia figlia.

Dovevo tradire me stessa e diventare cenere.

 

La mia coscienza morale era lì, pronta ad uccidermi.

 

La coscienza mi diceva che i miei bisogni erano nefasti, dovevano essere annullati.

 

Ma era proprio questa coscienza morale che dovevo tradire, che mi impediva di vivere, di vedere la Primavera.

 

 

Voglio, devo, non posso.

 

“Quare id faciam, fortasse requiris, sed fieri sentior et excrucior “

( Catullo).

 

Odi et amo, era per me.

 

 

Se mi fossi trovata a lavorare nelle miniere del Belgio non avrei avuto questi dilemmi, ma non c’ero e li avevo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LII

 

 

 

 

 

 

Con il delirio, queste necessità, un tu, una reciprocità, diventano primari ed in primo piano, la censura è allontanata in un punto della mente da dove non si fa più sentire.

 

Se il mio terapeuta non mi voleva, era perché non ero pronta, non ero ancora degna di lui.

Il delirio era una scuola dove avrei imparato ad essere meritevole.

 

Potevo esistere perché mi muovevo in vista di una soddisfazione. Era solo ritardata dal lavoro del delirio.

 

La censura non mi veniva solo dalla mia famiglia, ma dal vedere nel mio terapeuta un padre e una madre e un padre identificato con un mezzadro.

 

La censura era anche di manifestarmi a lui.

 

Ero bloccata, tutta avvolta di interdizioni.

 

Nel delirio non sono più i desideri degli altri che emergono, ma i miei, e io ho finalmente diritto di esistere con tutta me stessa.

Il mio corpo torna a parlare.

 

Solo in questo delirio ho trovato il coraggio di presentarmi al mio analista e manifestarmi.

La relazione doveva essere davvero buona.

 

“ Ma signora, io ho altri interessi”.

 

L’ha detto bene, con gentilezza.

 

Questo rifiuto garbato è entrato in me lentamente e alla fine ho capito.

 

Ma, quando ho capito, ero già alla fine del delirio.

 

LIII

 

 

 

 

 

 

La coscienza morale è parte dell’io, mentre si collassa l’io, collassa anche la coscienza e le censure si allentano fino a sparire.

 

Si dice che nella mania la coscienza morale si prenda una vacanza.

Ma, nella mia esperienza, non era così.

 

Una grossa accelerazione verso il delirio sembrava averla data proprio la mia coscienza che, in questo modo, mi aveva bloccato dal prendere qualunque decisione che avrebbe potuto farmi andare contro le sue proibizioni.

 

Inoltre, la coscienza morale appare camuffata in quella struttura granitica del deliro che ti tiene presa e ti dà una certa consistenza.

 

Diventa l’obbligo di fare il lavoro del delirio.

Ti spinge ad andare avanti e ad affrontare i pericoli per salvarti.

Ti mette davanti un’immagine di te stessa ideale cui devi attenerti.

 

La persecuzione proviene dal mondo, è lì che si annida la coscienza, un mondo che continuamente ti invia degli stimoli che sei impotente a fermare.

E non ce la fai più a reggerli, ma vanno avanti.

 

La coscienza non va in vacanza, diventa solo più rigida e più oppressiva, ti appare arrivare da un esterno gigantesco perché tutta la realtà è una sua forma camuffata.

 

 

 

 

Alla fine del delirio era rimasta quella me stessa che aveva avuto il coraggio di affrontare i suoi bisogni ed affermarli come imprescindibili, anche se in modo malato.

Diventavano una cosa acquisita nella realtà.

 

La mia testa non era diventata un ammasso di pietre, anzi, la mia vita continuava, e a partire dal delirio e dalla pazzia.

 

Quei desideri erano stati incorporati nella mia identità e non avrei più potuto soffocarli.

 

Capivo che ci sarebbero voluti anni per realizzarli, ma avevo forze sufficienti per farlo.

 

Avevo posto sul tappeto una Bruna che non voleva solo rinunciare e soffrire, ma sentiva che aveva diritto ad un pezzetto di piacere.

 

Anche gli altri, a poco a poco, ne avrebbero tenuto conto.

 

 

 

Si trattava solo di avere calma e praticare la gradualità e gli obiettivi intermedi, anche insignificanti.

Sapevo che da un cambiamento piccolissimo ne può risultare uno grande.

 

 

Per la prima volta, a differenza che nelle altre crisi, questa nuova identità, fatta anche del piacere di vivere, del benessere del mio corpo, non era scomparsa con il delirio.

 

Anzi era il delirio che era scomparso quando questa Bruna si era decisa a venir fuori.

 

La crisi, forse, era stata utile.

Anche se avevo sempre ritenuto che le crisi fossero solo un terribile spreco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIV

 

 

 

 

 

Perché le altre crisi non erano stata utilizzabili?

Cosa era cambiato?

 

Mi era stata donata una parte sana e consistente di cui all’inizio della crisi avevo cominciato a vedere i vantaggi.

 

Avevo passato i primi quattro anni di terapia in regressione, depressa, confusa, senza che mi fosse concesso di prendere antidepressivi.

 

Il terapeuta mi ci aveva, per così dire, mollato senza rimpianti, facendomi sentire che lui non poteva fare niente se io non c’ero.

 

Per la prima volta avevo provato ad arrabattarmi da sola, ma accompagnata.

 

Il terapeuta svolgeva principalmente una figura di padre, accettante, ma fermo, anche se occasionalmente mi faceva sentita accolta incondizionatamente.

 

La mia analista in Brasile aveva svolto invece costantemente una figura materna.

Mi aveva permesso di farmi un’idea di madre capace di accompagnarmi con un’affettività costante.

 

Ma nei dieci anni di terapia in Brasile non ero mai stata sola.

 

 

Avere vicino una persona che non interferiva con il mio lavoro, ma che era lì, disponibile a soccorrermi, mi aveva fatto imparare che esiste la protezione.

Negli anni seguenti questa funzione era stata incorporata anche se ancora con molti dubbi.

 

 

All’inizio della crisi ero stata trattata dallo psichiatra, dal terapeuta, da mio marito e mia sorella come una persona responsabile, capace di tutelarsi autonomamente.

 

Una parte della mia coscienza, quella protettiva, si era affacciata sulla realtà verificando che c’era bisogno di lei.

E che esistere e rafforzarsi portava degli incredibili vantaggi.

 

Per la prima volta avevo capito che l’autonomia mi avrebbe evitato quei terribili traumi delle internazioni forzate.

 

Essere trattata come una persona mi aveva comunicato una sensazione alla quale non volevo più rinunciare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LV

 

 

 

 

 

 

 

“ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ( Pavese).

 

Perché la vita, che sentivo rinata in me, mi rimandava sempre alla morte, o era al mio terapeuta che mi rimandava?

 

Lui che, nella mia testa, era legato al piacere e non al dovere?

 

 

Eu abri a anela e o sol entrou…una canzone brasiliana: “ Ho aperto la finestra ed è entrato il sole…”

 

 

In un sogno successivo, ho sognato mio padre vivo, bello, felice come quell’estate a Roma…

Pochi mesi prima, a Pasqua, avevo sognato mio padre morto, un morto che si risvegliava…

 

In tutta la mia vita avevo sognato mio padre solo due volte e, questa volta, era tanto “risvegliato” da essere vivo, con quella camicia bianca a piccoli disegni gialli che io stessa gli avevo comperato…

 

Gli racconto che mi allontano tanto da mia madre, che desidero stare con un uomo.

Mio padre rimane contento mentre parlo e anche dopo, quando ho finito.

Vedo mia madre isolata, lontana.

 

Improvvisamente mi vengono in mente le parole di una canzone : “ Vivere insieme a te è stato inutile, senza un sorriso, neanche una lacrima…”.

Me la canto nel sogno, piango, una crisi di avvilimento, sono disperata.

 

Sono io quella persona con cui è inutile vivere?

 

Mi dico: “ Non posso vivere con mia madre né vicina né lontana”.

 

Appare il mio terapeuta che dà lezione a dei bambini molto piccoli, è girato di schiena, non li guarda e continua a parlare anche quando si sono assentati.

Sono io in quei banchetti e me ne vado per non ascoltare il terapeuta?

 

Quando mi sveglio, penso che la mania, l’onnipotenza, mi hanno permesso di superare un tremendo avvilimento, un’aggressività rivolta contro di me per soddisfare la quale non sarebbe bastato un suicidio.

 

Penso anche che sono ammattita per cose che hanno la consistenza del fumo.

E questo mi ha dato una gran rabbia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LVI

 

 

 

 

 

 

 

Prima del precipitare della malattia vivevo in uno stato di grande incertezza.

Uno stato cui ero abituata e, nello stesso tempo, mi pareva che un essere umano non poteva abituarcisi.

 

Perché era un’incertezza totale.

 

Forse mi lasciavo anche sedurre da questo stato di mente, in fondo affascinante.

 

Come un bambino che s’incanta a guardare la giostra che gira, tante luci e tante figure che passano sempre diverse, senza capire che lui può essere preso dentro alla giostra, incantato com’è.

 

Vivevo in uno stato di pericolo acutissimo, non potevo dormire perché dovevo vigilare sempre, fuori e dentro di me.

 

Pericolo di sfasciarmi del tutto, di lasciarmi indurre dalla tentazione di dire, una volta per tutte, agli altri, che non ce la facevo ad essere sana.

 

Anche nella depressione dei dodici anni, avevo detto a tutti che non era vero che ero quella ragazza in gamba, che era tutto falso, che l’avrei dimostrato.

 

E l’avevo dimostrato.

Tutti avevano cominciato a trattarmi da poverina.

 

 

Una forza interna mi tampinava di continuo di mollare, di abbandonarmi alla deriva… questa Bruna che lavorava, che era efficiente, non ero io, troppi pesi, troppe responsabilità… ero troppo fragile per questa vita, dovevo capirlo.

 

 

 

 

Mi dicevo anche che con la terapia non mi ero rifatta una storia, una terapia non poteva fare tanto, dovevo parlare con il mio terapeuta e restituirgli quella parte sana che mi aveva obbligato ad ingoiare, non era mia.

 

Come un antico film che mi passava nella mente, ridrammatizzavo nella pratica la solita storia delle crisi: rischiavo di essere uccisa due volte da mia madre e due volte da mio padre, evidentemente una non era sufficiente per quella mia parte che mi perseguitava.

 

Questa volta rischiavo di morire perché volevo separarmi, senza sposarmi con nessuno, sposarmi solo con me stessa, volevo avere un’unica casa, la mia.

 

“Ne valeva la pena?”: questa era la domanda fondamentale.

 

Non avevo dimestichezza con questa Bruna con una casa sola.

 

Rimarrò sempre più sola, mi dicevo.

 

Una Bruna che avrebbe dato sempre più fastidio: sentivo una prepotenza in me intollerabile.

 

Non avrei fatto più da spalla ad un altro, qualunque altro, perché dicesse delle battute.

 

Volevo essere protagonista.

 

Dopo tanti anni che mi sprofondavo in ossequi, nessuno mi avrebbe tollerato.

 

E poi, da una psicotica, un paria già condannato molte volte.

 

 

Soprattutto questa me stessa non la tolleravo io.

 

LVII

 

 

 

 

 

 

Era un liberarsi di cartilagini, che erano protettive mentre m’imprigionavano, un librarsi nel vuoto.

 

E vacillavo spaventata.

Troppo ossigeno o troppo poco.

 

 

Dovevo imparare a mollare i cappotti nei quali mi ero avvoltolata per difendermi.

 

E anche le persone.

 

Non ne ero capace.

 

Io dovevo “tenere” tutto, cose buone e veleni, non potevo espellere niente, mollare nessuna persona.

 

Forse non sapevo discriminare tra “buono da mangiare” e veleno.

 

Non mi riconoscevo il diritto di un essere sano, che ingoia ed espelle.

Dovevo fare le due parti.

 

Potevo alimentarmi, di me stessa e degli altri, ma anche le parti brutte, il male, doveva essere metabolizzato, fatto rifiorire come da un buon letame spuntano i fiori.

 

 

Mi era rimasta nella testa una parte di pietra, una parte ferrea, un granito che non riconosceva di avere bisogno degli altri, del sole e della luna che spuntavano fuori di lei.

 

Doveva fare tutte le funzioni, essere autarchica, controllare le entrate e le uscite, solo che poi uscite non ce n’erano.

Una forma di risparmio di chi si sente poverissimo come era sempre stata la Liguria di ponente.

 

Un aspetto paranoico, di chi vive in un corpo e in una mente umano, ma giganteggia come un super-ominide.

 

Era questa parte che mi aveva permesso di essere ancora viva e io mi ostinavo a non mollarla.

 

 

 

 

 

 

 

Il mondo esterno era sempre stato fonte di molti pericoli dai quali non avevo imparato a proteggermi.

 

Alla notte non avevo mai potuto addormentarmi se qualcuno mi sfiorava… dormendo, qualcuno avrebbe potuto uccidermi, anche la persona che mi aveva più cara.

 

Una parte antica che mi ero portata dietro per barricarmici dentro, che certe esperienze avevano rafforzato, obbligandomi a conservarla intatta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LVIII

 

 

 

 

 

 

Questo stato d’incertezza stava diventando minaccioso.

 

Il senso di pericolo mi veniva dal non potermi aggrappare a qualcosa di buono in me, un pezzo di terra buona, mia.

 

Mi ero liberata di questa parte, perché troppo faticosa, e l’avevo depositata nel mio terapeuta che splendeva di mille meraviglie, perché se ne prendesse cura lui.

 

Ma io ne ero rimasta priva e il mio io cominciava a vacillare senza un terreno solido cui appoggiarsi.

 

La mia coscienza, quella parte di lei che mi proteggeva, che mi diceva di volermi bene, di tutelarmi, di usare la percezione, di stare attenta alla realtà, una me stessa intera, corpo e mente, se n’era andata.

 

E io ero rimasta lì con una parte nera, pericolante e minacciosa, che sentivo persecutoria.

 

Da qui, il pericolo delle varie uccisioni da parte dei miei, di qui il bisogno di suicidarsi, anche se era ancora in tono basso.

 

 

Rimaneva con me la voglia di sfasciare tutto di nuovo, fare di me stessa nuovamente un dirupo di pietre, perché stavo cedendo alla persecuzione.

 

L’innamoramento del mio terapeuta era una scusa, l’erotismo non c’entrava niente, volevo aver mano libera allo sfascio, non aver da lottare con una parte antitetica.

 

Poter sfasciare, tutto in una volta, dieci anni di terapia e, poi… ripetere, come Zorba: “ Che sfascio magnifico!”

 

Solo che ogni volta cadevo sempre più dall’alto, dalla strada che avevo fatto nella terapia.

E questo mi faceva sentire molta paura.

 

Era difficile sopportare la paura.

 

Non volevo avere una casa, soprattutto non volevo che fosse questa, pesante com’era da reggere.

 

Meglio malata, che sana.

 

Avevo nostalgia delle mie palafitte continuamente terremotate.

Sentivo il bisogno di ricominciare da zero.

 

Era di me stessa che dovevo liberarmi, non degli altri.

 

 

Vedevo il mio terapeuta con una parte debole, ferita, e sentivo che dovevo accudirla.

Era così più facile amarmi in una persona già così ben realizzata, con tante cose di valore e tutte già pronte, già costruite!

 

 

La mia parte sana era solo potenzialità.

 

E poi, che tipo di potenzialità?

Non le avevo mai viste concretamente e oscillavo tra una magnificenza che mi terrorizzava e un miseria che mi avviliva.

 

E poi, tutte da provare, con angoscia, fatica, arrancando.

 

Quello che mi si prospettava era espresso in una poesia di Montale:

 

“com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”

 

 

 

 

 

 

 

 

LIX

 

 

 

 

 

 

Mi cantavo anche la parte di Adalgisa, dalla “ Norma” di Bellini, che un tempo avevo studiato, quando, presso gli altari, invoca :

“Liberami da me stessa, dal mio cuor”.

 

Adalgisa canta a un dio, io cantavo al mio terapeuta.

 

Lui diventava così alto perché era se stesso più me.

E non solo la me stessa reale, ma anche quella ideale.

 

Purtroppo la parte buona e quella ideale erano ancora confuse perché non viste, non sperimentate nella realtà.

 

Forse diventava così alto perché doveva proteggere una bambina, una bambina che rischiava di non esserci più.

 

Mi cantavo anche una canzone di Jacques Brel, in cui odiavo vedermi, ma mi sorgeva continuamente:

 

“ ne me quittes pas, ne me quittes pas…laisses-moi devenir l’ombre de ton ombre, l’ombre de ta main, l’ombre de ton chien…ne me quittes pas, ne me quittes pas « .

 

Nel mio caso – pensavo anche – sarò il cane di quello che va dal barbiere e paga il conto di un cane che non è più il suo, non lo riconosce.

Paga solo il conto ed è obbligato a portarselo via.

L’entusiasmo era del barbiere e lui ha dovuto incassare… a lui, il cane, andava bene così, l’ha portato lì tanto per portarlo, era lui che andava dal barbiere.

 

Anch’io una parte sana non la volevo, avevo solo pagato il conto, mi andava bene restare con la parte malata, almeno la conoscevo e sapevo come girarmi.

 

 

 

 

LX

 

 

 

 

Quando sono ammattita ero andata dallo psichiatra e poi dal mio terapeuta.

 

Mi ero sentita trattata come una persona.

Una persona responsabile.

Nessuno si era sognato di chiamare la mia famiglia o parlato di internarmi.

 

Era la prima volta che dei professionisti mi trattavano così.

Non avevo mai visto, neanche nei vari ospedali, trattare un matto come una persona.

 

Solo mia madre l’aveva fatto nell’ultima crisi in Brasile.

 

Aveva chiamato lo psichiatra, ma mi aveva avvisato e io l’avevo ricevuto bene.

 

A differenza che nelle altre due crisi in Brasile, quando me l’avevano messo davanti improvvisamente, non mi ero sentita violentata, e avevo reagito come una persona responsabile che parla con il proprio medico.

 

Mia madre non aveva voluto internarmi, sapendo che trauma era per me.

 

Si era assunta lei la responsabilità di stare con me, senza infermiere.

 

Un po’ mi lasciava delirare, un po’ mi diceva: ” Dai, giochiamo a carte”, una valanga di partite a scopa noiosissime.

 

All’epoca, mia madre, aveva già passato gli ottant’anni.

 

Ma era una persona forte, coraggiosa, intelligente, capace di lottare.

E poi, mi conosceva e mi amava come solo può amare una madre.

 

In questa crisi, anche Mario, mio marito, mi aveva trattato come una persona.

Mi aveva accompagnato dal terapeuta, ma era rimasto fuori.

 

 

Non è facile raccontare quanto bene mi ha fatto questo modo di trattarmi.

 

Ha senz’altro fatto decidere la mia parte sana a restare con me, a non volermene più liberare, perché cominciavo a vederne i vantaggi.

 

Era un’esperienza nuova ed io, nonostante il delirio, che all’epoca, non era ancora stabile, ero ansiosa di apprendere.

 

Al vedermi trattata così, ero rimasta allibita, come qualcuno davanti a qualcosa che pensava non potesse mai succedere.

 

Qualcosa che era l’opposto di tutta la mia esperienza passata.

 

Nell’ultima telefonata, prima di partire per il mare, lo psichiatra mi aveva detto: “ Se a lei sembra di star meglio, diminuisca pure le medicine a suo criterio”.

 

Valeva la pena tenermi stretta la mia parte sana, quella che mi aveva fatto andare dallo psichiatra e dal terapeuta spontaneamente.

 

Non volevo più ascoltare il canto delle sirene, così affascinante, che mi chiamava nella terra dei malati.

 

Valeva la pena rinunciare ad un’identità già pronta, sedimentata da tanti anni.

All’epoca avevo già cinquant’anni.

 

Valeva la pena lavorare per formarsi un’identità di stigmatizzata abbastanza sana.

 

Valeva la pena…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXI

 

 

 

 

 

Questa nuova identità avevo cominciato a conquistarmela durante questa crisi.

Tutti avevano visto che ero malata e avevano visto come la mia parte sana lottava per sopravvivere, per non perdere troppo terreno.

Aveva l’energia dei bambini.

 

 

Quando è incominciato il delirio, avevo fatto questo sogno.

 

Una casa poligonale di vetri-cristalli, con due porte, una a nord e l’altra a sud. Erano di un legno bellissimo, come quelle che avevo visto in Finlandia nella biblioteca di Alvar Aalto.

Nella serratura erano appese delle chiavi, semplici chiavi, che chiudevano le porte dall’esterno.

Erano state lasciate lì per chi volesse entrare.

Il proprietario era uscito. Non aveva evidentemente paura che rubassero qualcosa.

Era tutta in mezzo al verde come la Casa della Cascata di Wright.

 

Nel raccontarlo a tavola, dico: “Una casa è un’identità”.

 

E sto male in quel modo strano che mi prendeva da un po’ di tempo.

Mi sono ricordata, allora, di aver scritto che non avrei potuto avere un’identità che guardasse solo in avanti.

 

Era un’identità in cui il proprietario non c’era.

 

 

 

Mi era venuto anche in mente il sogno di luglio.

 

Avevo sognato un grattacielo che era tutto del mio terapeuta, lo occupava tutto lui, per abitazione e studio.

 

A tavola, racconto anche la favola di Rodari “ L’uomo di cristallo”, un mito che mi apparteneva e che risaliva ai tempi del liceo.

Avrei voluto essere io, allora, quell’ uomo di cristallo.

 

Ho pensato che mi era stata data un’identità possibile, ma solo virtuale, di cui non sapevo che fare.

Il progetto però non mi era stato dato, era solo mio.

 

Era un suggerimento del mio inconscio, un seme piccolo che avrebbe avuto bisogno di tanti anni e di tante esperienze per dare i suoi frutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXII

 

 

 

 

 

 

 

 

Avevo portato al mio terapeuta, sul lavoro, il compact con le musiche del film “ Guardia del corpo”.

Gli avevo anche scritto, su un biglietto, di questo terrore di essere matta.

 

 

Vivevo il delirio, in quei momenti che c’era, esperimenti e tutto, come un parassita che stava nella mia mente.

 

Stava lì, era un parassita piccolo, occupava un piccolo spazio.

Pensavo che un po’ bisognasse lasciarcelo stare, non disturbava il resto della mia mente.

 

Continuavo ad andare al lavoro e, a parte quel momento in cui avevo parlato al mio analista, il mio comportamento mi pareva normale.

 

Il mio analista non sembrava allarmato.

Sapeva e non prendeva provvedimenti.

 

Stava lì come una roccia.

Mio marito non diceva nulla.

 

 

Da alcune domande, che il terapeuta mi aveva fatto sul lavoro, mi era però sembrato che saggiasse fino a che punto ero matta.

Mi ero lasciata guardare tranquillamente.

 

Diceva delle cose strane, come uno che recitasse il delirio.

Ma non aveva disturbato il mio.

 

Sentivo che mi comunicava una grossa fiducia, e ancora più grande era la mia fiducia in lui.

Questa fiducia reciproca, che sentivo io, era così forte che mi “teneva”, anche mentre sentivo che stavo naufragando o che volevo naufragare.

 

Tutto mi sembrava troppo pesante, troppe cose si erano accumulate negli anni.

E anche non avevo gli strumenti per affrontarle, come per esempio, quella meravigliosa risorsa che era girare pagina, lasciarsi cadere le cose nel nulla, alle spalle.

 

Ma sapevo di non potere.

 

 

 

Avevo lasciato la mia capacità di protezione nel mio terapeuta, la mia fiducia era troppo grande, era una fiducia assoluta, era la mia guardia del corpo, proprio come di chi si sente in pericolo mortale.

 

Ma allora io non esistevo più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXIII

 

 

 

 

 

Parlando con la mia amica Donatella, avevo capito che ormai ero dentro una bella crisi.

Accettavo di mostrare a lei, e per la prima volta, la mia testa in effervescenza.

Così come accettavo di farlo con il mio terapeuta sul lavoro.

 

Dicevo alla mia amica che sentivo che c’era una situazione traumatica che ritornava e che, per nessi analogici, si incollava alla mia realtà.

 

Come se questi nessi, che poi vedevo io, avessero messo in funzione una vecchia bobina già filmata.

Che si sbobinava da sola.

 

E che la mia mente si trascinava là irrimediabilmente.

 

 

 

 

 

Ma non mi sentivo abbastanza forte, abbastanza aggressiva, per stringere in mano le differenze che erano macroscopiche.

 

Non ero più capace di difendermi e il mio io era troppo debole.

 

Nel quaderno avevo scritto, un po’ oscuramente: “La multistratificazione serve a non sapere più cosa c’è sopra, alla superficie”.

 

Era proprio la realtà e la coscienza che stavo perdendo.

 

 

 

Mi ripetevo e lo scrivevo sul quaderno:

“ Gli esperimenti, le telecamere, i films che leggi alla sera come un sogno, sono deliri, malattia, non devi avere dubbi, non bamboleggiarti in questo stato affascinante di incertezza, non c’è nessuna incertezza, è una tua parte malata, tua finché vuoi, ma malata.

Devi combatterla con tutte le tue forze, agganciarti alla realtà.

Hai cinquant’anni.

Perché diavolo li vuoi regalare al tuo terapeuta che ne ha già settanta?

 

Pensi che sia un regalo mostrargli che tutto il suo lavoro è stato inutile?”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXIV

 

 

 

 

 

Il mio problema immediato non era il mio terapeuta, ma il delirio.

 

L’avevo identificato come delirio e volevo combatterlo ossessivamente fino a farlo sparire.

 

Non occupava tutta la mia mente ancora, ma solo una piccola parte e andava e veniva, non era stabile.

 

Sapevo che lo stress, a cui mi ero sottoposta, aveva fatto emergere il mio inconscio, e che il mio io si era lasciato un po’ invadere.

 

Lo sentivo ammosciato, si era lasciato un po’ naufragare.

 

Dovevo ritrovare dentro di me tutto l’odio che avevo per la malattia, stigmatizzare io questa mia parte e ricacciarla indietro.

Separarla da me con fermezza.

 

Dovevo riprendere la mia età, la mia storia e la mia capacità di protezione di cui mi ero liberata.

Dovevo sapere che competeva solo a me farmi da guardia del corpo.

 

La mia testa era andata insieme e finalmente lo sapevo.

 

 

Ero pazza.

 

 

 

 

 

Il terapeuta mi aveva suggerito che il delirio bisogna viverlo per farlo passare.

 

Ma non potevo consegnarmi al delirio.

Dovevo viverlo, ma con una parte in armi.

La mia parte sana che, grazie a Dio, c’era.

E decisa a combattere la parte malata per affermarsi più saldamente lei.

 

Non potevo permettermi nessuna partecipazione al delirio.

 

Dovevo trovare l’energia dell’emergenza.

Il mio io doveva riprendere il suo terreno, riappropriarsi di tutto quel bel solido pavimento e fare barriera.

 

Appoggiandomi sulla mia parte sana, avrei riguadagnato anche la mia parte protettiva.

Non era più il momento di bamboleggiare, di passare il tempo a sognare un papà che fa danzare la sua piccola bambina per il mondo.

 

Il terapeuta mi aveva anche chiesto: “ Lei, la realtà la vede?”

 

Lì stava l’aggancio essenziale attorno al quale far ruotare tutte le mie forze positive.

 

Adesso si trattava di lavorare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXV

 

 

 

 

 

Il ventiquattro giugno era l’anniversario della morte di mia mamma.

Era morta l’anno precedente.

Avevo paura di andare alla messa e sentir pronunciare il suo nome.

 

Avevamo lo stesso nome oltre che lo stesso cognome.

In tempo di guerra – mi aveva detto una volta – non c’era tempo per cercare nomi.

 

Avrei sentito dire forte in chiesa che io ero morta.

Anch’io con lei.

Così mi ero sentita alla sua morte.

 

Era un lutto da cui non mi ero ancora ripresa.

Troppo importante era stata la sua figura nella mia vita.

 

 

Si era accorta che ero malata, e che avevo bisogno di cure, solo quando mi avevano internato a Parabiago.

 

Da quando sua madre si era ammalata, un ictus, tutte le sere, tardi, subito prima di cena, usciva dal lavoro e andava a trovarla.

 

Mi era sempre sembrato che fosse rimasta solo figlia.

Che non avesse potuto accedere all’idea di essere anche madre.

 

Troppo distratta dagli affari.

 

Non aveva potuto sposarsi l’uomo che amava, lui non aveva voluto perché troppo poveri.

Lui non si era mai sposato e mia madre, fino alla fine, aveva tenuto la sua foto nella sua agenda.

Allora aveva immaginato che i soldi, nella vita, aprissero tutte le porte.

 

 

 

Quando il medico di famiglia la incontrava da sua madre, le diceva sempre:

“ Ma perché invece di occuparsi di sua madre che sta bene, non si occupa un po’ di sua figlia? “

 

Mia madre non aveva mai chiesto di cosa parlasse.

 

L’aveva capito – così mi aveva detto – solo quando ero stata internata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXVI

 

 

 

 

Ma da allora non aveva smesso di occuparsi di me.

 

Era una persona che non avevo mai sentito lamentarsi di fronte alle difficoltà, ma diceva solo: “ Cosa c’è da fare?”

 

Mi aveva raccontato che una volta, appena sposata, con mia sorella piccola, era andata a lamentarsi dalla madre che tutto era sempre troppo difficile, che bisognava sempre lottare.

 

E sua madre le aveva detto: “ Figlia, augurati di lottare sempre, perché quando non lotti più, vuol dire che parti”.

 

 

Con la malattia mi ero avvicinata straordinariamente a lei: avevo bisogno di una figura molto forte nel mio mondo interno, una figura battagliera, capace di far fronte ad una malattia grave.

 

Mia madre era una persona ossessiva, non trascurava il più piccolo dettaglio.

Si mobilitava anche per quelle cose che, ad altri, sarebbero sembrate inezie.

 

Da una parte mi sentivo perseguitata e invasa, dall’altra ero sostenuta ad ogni più lieve respiro.

 

Mi intesseva una rete nella quale un po’ diventavo inerte, un po’ mi arrischiavo a qualche piccola iniziativa.

 

 

I miei dissapori con lei erano apparentemente spariti.

Avevo bisogno di lei come alleata.

 

Era lei che troneggiava nella mia mente e io cercavo di assomigliarle.

 

Quando era morta era sparita più di una parte di me.

Avevo perso l’unica vera alleata contro la malattia.

 

L’unica persona che mi aveva risparmiato l’internazione e che mi aveva sempre trattato come una persona.

Il vuoto che mi lasciava era infinito.

 

 

L’immagine del mio terapeuta mi aveva abbandonato.

 

Alla messa avrei sentito la morte anche della madre che vedevo in lui.

 

Non avevo più nessuno, neanche me stessa.

 

Ormai ero in completo delirio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LXVII

 

 

 

 

In agosto, al mare, avevo avuto un sogno d’angoscia.

 

Ero in un ospedale psichiatrico, ma matta c’ero solo io, pubblicamente dichiarata matta.

C’erano degli psichiatri.

Ad un tavolo molto grande è seduto il mio terapeuta. La sua figura si confonde con quella di un fratello di mia madre morto da tempo.

 

E’ più giovane, lunghi capelli neri e grandi occhi neri come mio zio.

Dietro il tavolo, una tenda da sceicco e uno spiazzo che dà in un mercato di frutta e verdura.

Passo davanti al terapeuta, che gesticola e parla con altri, per andare al mercato.

E’ la prima volta che mi vedo in un sogno: pantaloni blu, ballerine e sopra nuda con le tette penzolanti.

 

Forse al mercato non ci sono mai arrivata, perché mi trovo in una stanza stretta.

E qui mi rendo conto di cosa ho fatto: tutti sanno che sono pazza, l’ho annunciato io a tutti senza sapere cosa stavo facendo.

Non si può più tornare indietro.

 

Posso solo chinare il capo e vivere la pazzia pubblicamente.

Non mi ribello, è ineluttabile.

 

Non sono angosciata, solo molto seria, quella serietà, una concentrazione della mente, tipica del delirio.

Che dà un cerchio particolare alla testa.

 

Sono seduta per terra, con le spalle contro il muro, vicino ad una porta aperta, da dove sono entrata.

Uno psichiatra, col camice, alla mia sinistra, mi chiede della psichiatria in Brasile. Parliamo.

 

Nel sottofondo si parla bisbigliando di medicine, sottovoce, quasi una congiura fitta, a bassa voce, una rete, mi viene in mente.

Una signora, tipo megera, magra e secca, con una padella in mano da caldarroste, borbotta con qualcuno. Forse è una paziente.

 

Nel sogno mi viene in mente il popolino di Napoli, la leggenda, che vive di superstizioni, malocchi, fatture, numeri del lotto…

Questo popolino è presente, sparso dappertutto, ma sono molto piccoli e parlano sottovoce.

Nessuno si occupa di quello che dicono e loro non si rivolgono agli altri personaggi, che sono tutti più alti, me compresa.

 

La donna della padella dice che questa non si può più usare perché l’ho usata io per qualcosa di losco, qualche pozione magica, di magia nera.

La sento in sottofondo parlare con altri, mentre parlo con lo psichiatra.

 

Ad un certo momento dico: “ Bene, se è così, se sono proprio matta, per prima cosa voglio parlare con il mio terapeuta” e chiedo di chiamarlo.

Qui c’è una parte che è stata cancellata.

 

Al risveglio ho avuto un vero e proprio attacco di angoscia, avevo bisogno di luce e sono andata sul terrazzo.

 

Era un incubo tutto scuro, sembrava una spelonca, anche la piazza e il mercato, solo la stanzina aveva una luce azzurrina da ospedale.

 

Non riuscivo a pensare proprio a niente, ero presa da tutto quel nero.

 

L’ho considerata un’immagine della mia identità, la parte conscia e inconscia.

La parte sana e la parte malata.

 

E quest’ idea non mi dispiaceva.

Pensavo a tutto quel brulicare di vita che era rappresentato dal popolo di Napoli.

 

Pensavo anche all’accusa di magia nera, magia che uccide, come una metafora della pazzia.

 

La mia parte cosciente, che sapeva di essere pazza, voleva parlare con il terapeuta.

Proprio come era successo nella realtà.

 

E quella padella che aveva fatto qualcosa di losco, cosa rappresentava? Una padella è un contenitore.

Era la mia parte femminile che era inservibile?

 

Forse era stata rovinata quando mi ero innamorata del terapeuta, un padre identificato con un mezzadro e, allo stesso tempo, una madre?

 

Ma da dove mi veniva una proibizione dell’incesto così terribile?

Avevo un gran buco nella testa.

 

In verità, nel rapporto con il terapeuta, mi ero costituita come figlia, figlia di un padre amoroso, comprensivo, ma fermo.

 

 

 

O forse la pazzia era qualcosa di nero, come un catrame, che attaccava tutta me stessa e gli oggetti che toccavo?

 

Mi ero anche stupita di aver fatto un sogno così arabescato, i miei sogni erano sempre molto semplici, “ da bambini”, aveva detto il terapeuta.

 

Ero ancora angosciata, forse era panico, qualcosa che veniva fuori dal nulla e si moltiplicava da solo.

 

 

Mi ero anche vista, nel sogno, per la prima volta.

 

Ero proprio io, così com’ero.

Vestita come mi vestivo.

Una rappresentazione realistica.

 

Era la prima volta che mi vedevo in un sogno.

Ho pensato che nella crisi avevo guadagnato un’immagine di me stessa intera, corpo e mente. Un’identità reale.

Potevo vedermi dall’esterno come si vede un altro.

 

Cosa avrebbe significato nella mia vita questa acquisizione?

 

Non sapevo ancora che questo era il passo necessario per percepirmi:

io, esistente, una delle tante figurine che hanno diritto a passeggiare nel mondo.

Approdata al mondo della natura e a quello degli altri.

 

 

LXVIII

 

 

 

 

 

Sentivo che adesso la mia parte malata si era compattata, non era più slabbrata, sparsa dappertutto, era ben irreggimentata.

La tenevo vicina perché non mi sfuggisse e andasse per conto suo.

 

Non volevo più vivere né da sana né da malata, ma le due cose insieme. Un’identità fatta così, con due porte.

 

La mia casa non era proprio di cristallo, la mia casa ancora da costruire.

Sapevo che sarebbe stata fatta di una duplice identità.

 

Sapevo anche che avevo bisogno di una sintesi.

 

Questa sintesi era rappresentata da me stessa, tutta intera, io ero tutte e due, il mio io che sarebbe rimasto per sempre strabico, con un occhio che guardava a ovest e un altro a est.

 

Gli strabici esistono, sono persone come tutte le altre.

Anch’io avrei potuto essere una persona come tutte le altre.

 

Con un’area di solitudine che non avrei potuto mettere in comune con gli altri.

Potevo immedesimarmi nei malati, ma ciascuno di noi aveva una storia diversa.

E poi non rappresentavano una comunità.

 

Potevo immedesimarmi nei sani, ma una parte mia sarebbe stata per loro inaccessibile.

 

 

Non era la solitudine che abbiamo tutti per il fatto di essere nati con un’individualità unica.

 

Era una solitudine che cementava la mia individualità di sana e malata.

Una persona con due porte.

 

 

Un giorno – mi dicevo – avrei sentito la mia parte pazza così bene in mano da tenerla in tasca e tirarla fuori al momento del bisogno.

Sapevo che aveva un’energia e un tipo di pensiero che mi sarebbero stati utili.

 

Se solo riuscivo a non farmela sfuggire.

 

Dovevo addomesticarla e insegnarle a non aver paura.

Tenendola vicino alla parte sana, avrebbe imparato.

Doveva imparare ad abitare nei propri territori senza invadere.

 

Sapevo che non dovevo eccitarla esasperandola con tanti conflitti.

Non dovevo più sottopormi a stress per non perderne il controllo.

 

E comunicarle che la sentivo mia, che l’amavo come amavo la parte sana.

Che me la tenevo vicina perché sapevo che mi era utile.

 

 

Ero una persona stigmatizzata che avrebbe cercato di essere produttiva nonostante questo e a partire da questo.

Questo lavoro è una testimonianza di questo bisogno.

 

E, grazie al cielo, la mia sanità non sarebbe mai stata molto squadrata. Non sarei mai stata una persona come quelle “… cui risuona lo scheletro e cantano con una voce piena di sole e di sassi” ( Garcia Lorca).

 

 

 

Cercavo più di tutto di mettermi davanti i vantaggi di avere una parte sana, che si era già vista nella crisi, e una parte malata che rimanesse tranquilla.

 

Era lei il retroterra della mia personalità, mi dava profondità e spessore.

Sapevo che era sensibile all’adulazione e a me non costava vezzeggiarla.

 

 

 

 

 

 

LXIX

 

 

 

 

 

Mi ripetevo tutte queste cose positive per avere il coraggio della costruzione che sarebbe stata lunga e difficile.

 

Mi cantavo una canzone brasiliana: “ L’amore è un’agonia, viene di notte e poi va via, è un’allegria e un pianto e poi soltanto nostalgia”.

 

L’amore che sentivo, adesso, per me, era stato un sentimento difficile da far sbocciare.

Ma non volevo lasciarlo andar via.

 

Anch’io ero un’allegria e un pianto che, forse, con gli anni, sarebbero diventati solo nostalgia.

 

La nostalgia è un bellissimo sentimento, si ha nostalgia solo di una cosa buona.

Con gli anni avrei potuto guardare ad un percorso tanto lungo con il sentimento della nostalgia, perché mi sarei riconciliata con il mio destino.

 

Ma non avevo più nostalgia di una parte solo malata.

 

 

Una persona psicotica, psicotica e sana, allo stesso tempo, mi sembrava molto diversa dalle persone cosiddette normali, tutte variamente nevrotiche.

 

Sentivo che sarei stata un’innamorata della realtà, la realtà era la mia unica vera bussola.

Mi ci sarei radicata, amandola come solo può amare un amante separato da troppo tempo dalla donna amata.

 

Mi sembrava che tra la mia parte conscia e quella inconscia ci fosse un rapporto fluido, come di un liquido che circola.

 

Questo tipo di rapporto mi portava ad avere il bisogno di una continua elaborazione.

Non potevo tagliarmi delle parti, delle esperienze, e lasciarle cadere nel vuoto.

 

Bisognava ancora vedere se ero capace di egemonizzare questa parte inconscia: ma nel sogno dell’ospedale ero più alta del popolino.

Questo mi sembrava di buon augurio.

 

 

Mi sentivo capace di modificare la mia realtà interna e, nello stesso tempo, rivendicavo il piacere, la reciprocità…

 

Potevo finalmente affrontare la realtà esterna, adesso ero equipaggiata.

 

Sentivo la necessità di trovare situazioni in cui fosse possibile realizzare i miei bisogni.

 

Adesso che sapevo che non erano più infiniti.

Che una volta soddisfatti si saturavano.

Era stata, questa, una scoperta straordinaria.

 

 

 

Mio marito era il mio tu, nella crisi avevamo ritrovato una nuova solidarietà, quell’intimità che nasce quando si riconosce un bisogno reciproco.

Una simbiosi limitata che non costringeva, ma cementava il nostro essere.

Non faceva più paura perché era soave.

 

 

Dovevo solo capire che non si trattava di trovare una persona capace di soddisfare i miei bisogni, sempre eccessivi, ma che ogni persona sarebbe stata in grado di darmi una pagliuzza, o più di una, e che io le avrei raccolte per farmi un nido nel cuore.

Come fanno gli uccellini che usano le cose più disparate.

 

Solo così mi sarei sentita amata, di quell’amore che mi sembrava necessario per vivere.

 

E che, soprattutto, quell’amore che cercavo non poteva nascere solo dagli altri, ma dal poter mettere a frutto le mie capacità.

Non sapevo ancora come, ma avevo la pazienza di aspettare.

 

Ho provato a farlo con questo lavoro.

 

Avevo un’emozionalità tranquilla, costante, che mi veniva dalla sicurezza di aver potuto sopportare di perdere tutto, di morire quasi, e poi di aver saputo ricostruire.

 

Era meglio che niente fosse successo?

Forse, ma avevo imparato molto.

 

E mi rimaneva dentro una gran voglia di ridere di questo mondo così buffo.

 

 

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