continuazione da rifare, eventualmente, della parte “me-foglio piatto-

avrei, senza saperlo, pescato un altro filo del groviglio che mi sento dentro: sono stata una bimba molto sola, molto paurosa ed esageratamente autonoma in relazione all’età. Mia madre, quando avevo 18 mesi, ha smesso di allattarmi ed è tornata a lavorare nella ditta di esportazione di fiori che aveva con mio papà. Il suo orario di lavoro era dalle cinque del mattino fino alle otto e mezza di sera, quando cenavamo tutti insieme, e subito dopo, per circa due ore, faceva “una distinta” di quello che mio padre avrebbe dovuto comprare, il giorno dopo, al mercato dei fiori trascrivendo su tanti fogli le ordinazioni dei clienti, che allora si facevano per telegramma. Mio padre era già tornato al lavoro nel ’45 ed il suo orario di lavoro cominciava alle tre del mattino fino a sera, domenica compresa. Senza fare grandi calcoli, uno capisce che i miei genitori non li vedevo mai, che non erano una presenza nella mia vita e che su di me non avevano alcuna influenza “attiva”.

Mia madre mi raccontava spesso – come se a forza di ripeterlo uno potesse annullare il fatto- di un’estate ad Ormea (nell’entroterra di Sanremo): io avevo appena compiuto due anni o li stavo per compiere, e lei si trovava su un prato con degli amici. In un attimo, come fanno i bambini,  mi ha visto alzarmi, andare dietro ad un cespuglio, fare la pipì e tornare seduta sul prato. Lei non riusciva a capacitarsi che non mi fossi rivolta a lei. Nella sua ingenuità era sbalordita.

Ci sarebbero altri fatti analoghi, ma questo mi pare sufficiente come “biglietto da visita” per dire come ho passato l’infanzia, almeno in relazione ai genitori.

Vorrei però aggiungere che – a parte questo senso di desolazione che mi è rimasto dentro- una desolazione che più che abbandono è “sensazione di non essere vista” (lei, psichiatra, non può non capire quale “voragine di senso”, apre questa percezione di sè)–ma dicevo – vorrei aggiungere che la mia infanzia è stata un’infanzia indaffaratissima, piena di vita e di interessi, soprattutto di legami e di famiglie, dove nel mio giro quotidiano, stazionavo come in una “via crucis” che aveva lo scopo di farmi una famiglia a partire da tante immagini e vissuti familiari che, però, riguardavano altri. Forse il bisogno di sopravvivere inventa delle capacità di sintesi anche in bambini piccoli perché- anche a sentire da altri- ho passato un’infanzia tra le più normali…ovviamente senza dare la minima preoccupazione ai miei genitori, visto che questo era l’ultimo dei miei problemi…Ma come posso dire? Non erano per me degli interlocutori. Sopratutto mia madre. Mio papà, invece, anche se non era un interlocutore, quando mi vedeva era molto affettuoso, alla sera prima di dormire mi dava un bacio…Aveva una maniera curiosa di baciare, con le labbra aperta e la saliva pronta, era come se per un attimo ciucciasse la mia guancia. Poi dopo cena, mi faceva fare cavallino sul suo ginocchio…Poi ero nata con delle qualità che mi avevano sviluppato all’asilo (misteriosamente facevamo solo teatro musicale) e lui era così entusiasta di me, così orgoglioso quando mi vedeva brillare!

Ecco, per dire di oggi, mi ha ripreso questo senso di desolazione. Che diventa “insopportabile”, appunto, quando vedo che le persone a me vicino “non mi vedono”. Non  mi vedono per un sorriso, per un’attenzione, per una minuscola cosa fatta “per me”…ecco, le dico proprio una stupidaggine: tempo fa ho provato a mettere sul facebook dei miei ragazzi qualcosa per Nicolo’, un anno e mezzo, mio nipotino: non hanno mai trovato il tempo per farglielo vedere. Loro vivono a Milano ed io a Sanremo, ci vediamo molto poco, sentivo il bisogno di ricordarmi a questo bimbo, come dire, per costruire un legame che si mantenesse a distanza. Perché mi ritrovasse quando ci fossimo rincontrati. Così come è difficilissimo che gli possa parlare al telefono e adesso, poi, che risponde a quello che dici! L’ho avuto una volta sola questo dialogo, un dialogo incantato.

Sono sicura che mi dirà: ma cosa va a pescare, i giovani sono egoisti, hanno da pensare a farsi la loro vita, anche lei lo è stata.

Sì, è vero, anch’io lo sono stata: ma intanto per me, a ventanni, farmi una vita voleva dire vivere o suicidarsi o diventare matta. E matta sono diventata. Il suicidio era una parola che io usavo, ma sapevo che a casa mia,  pronunciarla, era come sparare un colpo di rivoltella.  Non so come dire: quell’atmosfera non avrebbe potuto “contenerla”.

Per forza pensavo a me, inoltre, i miei stavano bene e crescevano rigogliosi come il grano d’estate.  Ma il retroterra di rapporto che avevo con i miei genitori era ben diverso da quello che hanno i miei ragazzi.

Mi dice che è lo stesso?

Va bene, anche se i figli toccano di più di altri, quello che io vedo intorno a me // e ho un paesaggio assai affollato, con questa mania che ho sempre avuto di tenere “legami lunghi”…Avevo proprio un ago e un filo in mano con il quale ripescavo la persona sparita e…la cucivo nel presente! Ho legami lunghissimi, addirittura dall’asilo come mia cugina Linda.

Mi sono persa, ma si capisce quello che voglio dire. In questo momento mi appare con chiarezza che questa mania di cucire non veniva tanto da un cuore amoroso (che c’è: amo “eternamente” le persone che ho amato, anche quelle con cui non potrei più convivere da vicino), ma dal bisogno di farmi una tribù, la più ampia possibile, tanti fili tanti fili, che mi tenessero su come un immaginario girello.

Vede, questo girello amoroso ce l’ho, merito mio e di chi ha risposto al mio bisogno di amicizia, ma ho verificato in questi giorni che nelle crisi serie non mi serve. Rimango in silenzio. Non mi viene da parlarne. E’ una specie di segreto, da tener segreto: in questo buio, c’è una lucina, anche questa segreta. E’ tanto segreto che adesso lo svelo parlando con lei (lo psichiatra è “un intimo” per il paziente) e contemporaneamente a queste persone, che a volte mi seguono sul blog, e che mi sono immensamente care perché sono la mia “unica” compagnia. L’unica vera compagnia perché a loro posso manifestarmi come mi sento di essere, un’illusione amorosa certamente, ma che funziona perché mi fa del bene:  e un “gran bene” perché non ho “quasi” (“quasi”) persone con cui essere quello che sono.  E, poi, diciamoci la verità, quando uno parla da solo…

 

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2 risposte a continuazione da rifare, eventualmente, della parte “me-foglio piatto-

  1. nemo scrive:

    Apprezzo tutte le ‘versioni’ della tua auto-analisi, cara Chiara. L’ ultima, poi, conferma l’ effetto non so se terapeutico ( di queste cose non capisco né so nulla ) sicuramente di stile ( maggiore concentrazione minore ‘dispersione’ ).

  2. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    Sono d’accordo con quanto dice Nemo. Soprattutto sono d’accordo con affetto con te.

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