18 giugno 2013 ore 08:15 —NON POSSO RIMETTERMI IN DIALOGO CON VOI SE NON “FACENDO PRIMA I CONTI”-RESOCONTI- CON ME STESSA “INSIEME A VOI”, SE CI STATE

 

Caro Prof. Gian Franco Placidi, mio psichiatra da ventanni,  e soprattutto, A VOI TUTTI

 

ho marcato con lei un appuntamento a Genova il 28 giugno, ma ho bisogno di raccogliermi per sapere cosa dirle. So da troppi anni che lo psichiatra è personaggio “da maneggiare con cura”. Quello che ci dice e anche i farmaci che ci da, dipendono molto (non del tutto, se vero professionista) da come ci presentiamo.

Ed io vorrei incontrarla dopo aver pescato il filo principale di questo tourbillion di immagini e di sentimenti che caratterizza la mia vita, potremmo dire “da settembre”, ma per fare chiarezza vorrei focalizzarmi sulle ultime settimane.

Il filo principale è lo stesso che ci siamo detti nell’ultima visita mesi fa. E’, la mia, una sensibilità che si fa sempre più acuta col passare degli anni e che adesso è diventata per me “insopportabile”. Cosa voglio dire? Sopportare si sopporta tutto (se non si muore), perché ci si abitua. Invece io non  mi abituo a questo tipo di sofferenza, anzi ci soffro ogni volta di più. Invece di un’abitudine, vedo un peggioramento.

All’epoca, lei mi aveva rassicurato dicendo che l’aumentare della sensibilità è assolutamente normale, che succede a tutti: io stessa l’ho “assistita”, questo eccesso di sensibilità,  in una mia zia che ho accompagnato, molto da vicino, nella vecchiaia e fino alla morte. Perciò capisco che sia normale. Ma solo in  un certo tipo di persone, vorrei adesso aggiungere,  quelle già “molto sensibili” di loro: mia madre non ha presentato questa segno di invecchiamento. Neanche nel senso di offendersi più facilmente. Il suo segno di invecchiamento è stato invece l’accentuarsi, e in modo deciso, di quell’autoritarismo che l’aveva sempre caratterizzata. A volte le dicevo bonariamente: “hai bisogno di togliere l’ossigeno”, quando,  per esempio, mi proibiva di fare la pasta al sugo coi peperoni – passione di casa- perché lei non poteva mangiarla.

Non per contrariarla, caro Professore, perché la sua esperienza è “immensa” rispetto alla mia, ma sarei più propensa a dire, se proprio dobbiamo pensare in generale, che la vecchiaia accentua quello che eravamo da giovani, addirittura, direi, più precisamente,  quello che eravamo”da bambini”. Si dice, infatti,  che i vecchi diventano bambini. Lo vedo anche dai nonni che stanno così bene con i nipotini e viceversa. Perché tra loro si capiscono. Si accettano e si parlano enormemente di più che con i figli cosiddetti “adulti”. Questi poi che sono nati computerizzati, mentre i vecchi potrebbero cantare a gran voce  “l’elogio della lentezza”!…

Ma ho osservato che Mario ed io “diventiamo bambini” in maniera diversa, come diversi tra di loro e da noi, mi paiono i nostri amici Donatella e Franco. Per questo, a questo punto del filo che vado srotolando ( si srotola da solo, in verità), mi permetterei di dire che “ognuno diventa bambino a modo proprio”, seguendo le tracce della sua infanzia.

“Sì, ha ragione, non dimentico che queste tracce-come tali- non esistono più: siamo noi che le rifacciamo, secondo i periodi della nostra vita o, meglio, nei momenti in cui  ri-aggiorniamo la nostra coscienza (per chi ha bisogno di fare questo- che è un vero e proprio “lavoro”- oggi desueto). E, concludendo, la nostra memoria, o la nostra coscienza (qui sinonimi), la ri-aggiorniamo sempre a partire da quello che siamo diventati. Per questo, se siamo fini osservatori, i nostri ricordi, la nostra storia, persino la nostra infanzia, si modificano. Quasi ogni volta ce la raccontiamo diversa, un po’ diversa a seconda delle esperienze attuali.

Se il mio problema fosse quello sto ipotizzando (mio e, per ipotesi, di altri anziani, o, meglio, “più grandi”, come dice Donatella, un po’ offesa dai termini), e cioè, che sto “tornando bambina”, bisogna che dica subito, e ben chiaro, che bambini non si ritorna, e non ci ritorna nessuno. Piuttosto riaffiorano alla mente certe immagini di allora, quelle più intensamente caricate di  emozioni (o energia), e noi le viviamo, anche fosse inconsciamente, come “reali”;  e, ed è importante, in quanto tali, hanno degli effetti sulla nostra vita pratica: “la colorano” in qualche modo, e i colori possono essere tenui e intensi e sfumati.

Un amico molto caro mi scriveva l’altro giorno, all’interno di un breve email, questa frase: “adesso che mi sento nell’ombra”: è una colorazione della sua vita che solo lui può interpretare, ma che mi suggerisce una cosa nuova cui non ero arrivata:  questi colori che attribuiamo al nostro vissuto di oggi, pur nella diversità delle persone, stanno, più precisamente di quello che sostenevo io, “tra l’infanzia e la morte / che è lì”, nascosta o assente come si vuole, “ma a settantanni – lunga vita a tutti!- / è lì”. E questo amico mi suggerisce ancora che questo periodo, per chiarezza, lasciatemela chiamare “vecchiaia”, è per tutti- sia chi lo nota sia chi no-un periodo “tra l’infanzia e la morte”, d’accordo, ma che “tra immagini affioranti dell’infanzia e del svanire delle cose” è “dedicato ad esercitarsi a poter – poter e come – morire”

Con questi suggerimenti, mi si è spalancato un ampio teatro nella mente. nel quale, in quell’arco delineatosi così vasto, situare i miei specifici problemi, di me Chiara. Ma un altro, se mai accettasse questa ipotesi, potrebbe riempirlo di contenuti suoi.

Non dimentico che ci sono tanti che riescono a “negare” tutto o quasi tutto: l’indebolimento della vecchiaia, cui contrappongono una vita da giovanissimi /palestra/ abiti/ donne o uomini o entrambi/ macchine poderosissime in cui…”specchiare la loro potenza”// ecc.  e la stessa morte; ma, pur essendo interessantissimi da osservare, li lascio da parte in questo momento, perché troppo lontani da me. Ed io, è il mio disagio che sto cercando di soluzionare.

 

La morte, a me, Chiara, non spaventa né mi manda suoni tristi, immagini lugubri perché mi sembra l’occasione di un buono e meritato riposo, cui anelo anche troppe volte, sempre ammesso che uno, in questi drammi, di se stesso veda qualcosa. Per esempio Freud, a partire dall’analisi di sé, diceva che l’uomo non può “rappresentarsi” la propria morte. E Chiara, come è ovvio, si inchina a questa illustre probabilità.  Chiara farà come il famoso legnaiolo dei sillabari: ” Cara Morte, ti ho chiamato solo per portarmi questo peso che è troppo per me, ma solo fino a là”.

Comunque sia,  se dico qualcosa che fa senso quando parlo della mia morte o no, sarei propensa a seguire quel filo sorto da quel groviglio che mi “sentivo” dentro e cioè quello dell’infanzia.


(Osservate il tempo del verbo sentire: “sentivo”. Da ieri, infatti, da quando ho iniziato a parlarvi, mi sento meglio, e mi accorgo che oggi non sto più parlando con lo psichiatra ma con voi: io vi parlo e voi mi suggerite. Sono uscita dal mondo della psichiatria e dalla patologia. Questo è quello che mi accade. Ci penso. Non posso che confermarlo. E’ un’autoanalisi a due. Ed è reale, per dire “autentica”. Io non sto giocando, e voi?
Se volete essere proprio noiosi e pedanti, posso dire che mi sono sdoppiata (come forse tutti quelli che scrivono): a voi, ma proprio a voi – che vedo nel numerino delle visite- voi che ci siete-  ho dato (ho proiettato, se preferite) una parte di me, a mio parere quella più inconscia o più legata all’inconscio;  a me che devo scrivere in maniera possibilmente leggibile, rimane la parte più vicino alla coscienza e la parte che osserva; questa, a mio parere, in questo tipo di mondo, quello interno (ma anche per chi scrive libri, credo) osserva – è sufficientemente lucida – ma è anche vicina a sentimenti “oscuri” che le originano dentro a partire dal lavoro che ha intrapreso.)

 

 

NOTA.1  Seguiva a questo testo una parte di ieri, che adesso dovrei rifare, ma non “me” ne sento la necessità perché ormai sto bene con voi, ho  ristabilito il dialogo o canale (per chi è inteso di queste cose), “vi” amo di nuovo e sto bene al mondo; ricopierò su un’altra pagina questo pezzo che segue e chissà se mi potrà servire; farlo adesso mi sembrerebbe…vi ricordate quando si diceva “un esercizio di calligrafia”? Invece è molto più urgente metter musica sul blog, non parliamo della politica che ho seguito ben poco…Ogni tanto, quando vi ricordate, mandatemi degli stimoli affettivi…Ah! Ah! Ho un ricatto pronto: anche i numerini dei visitatori sono stimoli affettivi, appartengono a quel tipo di affetto che migliora la nostra austostima, si chiamerebbe “narcisico”, ma sempre affetto è! E poi, questo ritirarmi in me stessa, muta, anche per me, senza dimensioni come un foglio di carta leggera, una specie di annullamento, nel mio caso costretto dalle circostanze…ebbene non sarà proprio dovuto al fatto che, quel poco o tanto di autostima che posso avere,  mi era sceso sotto le scarpe! Voi cosa ne dite? Alcuni di voi scuotono la testa dicendo: “mah” oppure: “potrebbe essere”; un coretto di sì, ma… è la claque; uno invece urla, di tanto si è immedesimato: “SIIIIIIIII’!”: questa voce, la riconosco, è quella musicale di Donatella che fa gli acuti. Nemo tace ed osserva. Sembra distratto, ma vede. Dice che vede…Anche Chiara dice sì, ma – aggiunge- “purtroppo non è solo questo”. “non è così semplice”.

Mi inchino fino ai piedi per ringraziarvi del tifo che avete fatto. Avete visto che risultati sorprendenti? Siete dei co-terapeuti magnifici! Chi ha preferito portare sfiga desiderando, magari,  che scendessi ancora di più nella fossa, oltre le scarpe, ma è stato lì: lo ringrazio lo stesso per la resistenza.

Adesso: ragazzi tutti:  ai giochi  alle musiche e ai balli!

 

Nota.2  Rileggendo e rifacendo, su suggerimento del mio amico segreto, mi pare chiaro che: 1. ammesso questo riaffiorare dell’infanzia; 2. la nozione della morte; 3. l’allenamento a morire, che è così, si voglia o non voglia; lo è anche “per chi nega la morte” più o meno consciamente; 4.  tutto questo insieme – sempre ammesso che – mi pare giustifichi qualunque disagio o sofferenza o terribile sofferenza, a tratti, che dir si voglia.

L’essere umano, a questo punto della storia, avrebbe un compito immane: in un certo senso chiudere il cerchio della sua vita in modo organico. Oso dire: vitale.

Che, poi, uno debba organizzarsi un sistema di vita – se il disagio è grande – per soffrire di meno, come è il mio caso, e di  altri (quelli, ovviamente, che questo sistema non lo hanno già trovato) a me pare ovvio. C’è anche chi “ha bisogno di soffrire”, lo so, e invece di fuggire  la sofferenza come la morte, lo accetta perché rientra in un certo qual “equilibrio” vitale specificamente suo; evita così, forse, sofferenze peggiori.

A questi, e li vedo anche star male in modi diversi, non ho parole da offrire: io quello che so per me è che, questa sofferenza, voglio evitarla a qualunque costo; e sento in me una forza che nessuno puo’ fermare perché è la forza di sopravvivere / serenamente.

Vi confesso, però, che a volte, molte volte, mi chiedo: e se rompi tutto, se sfasci legami di tutta una vita pur di non soffrire, ne vale la pena?


 

 

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9 risposte a 18 giugno 2013 ore 08:15 —NON POSSO RIMETTERMI IN DIALOGO CON VOI SE NON “FACENDO PRIMA I CONTI”-RESOCONTI- CON ME STESSA “INSIEME A VOI”, SE CI STATE

  1. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    Non so proprio esattamente quello che vuoi dire, ma io ci sto.

  2. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    La piccola sala della Civica Scuola di Musica era affollata: parenti, ma soprattutto giovani amici degli allievi della sezione di canto, che si sarebbero esibiti nel saggio finale del corso 2012-13. Le età erano un po’ tutte rappresentate, sia nei cantanti che nel pubblico. Prevalevano i giovani. C’era aspettativa e la tensione si poteva notare nelle occhiate che il pubblico lanciava agli amici e parenti che si sarebbero dovuti esibire: occhiate discrete, per non farsene accorgere, per non aumentare quella dei cantanti. Lei e il marito notarono subito il figlio, che stava in piedi, appoggiato alla parete, vestito con una certa cura, anche se molto semplicemente con jeans blu e camicia chiara. Si salutarono con affetto, si abbracciarono, ma con il dovuto distacco di chi sa di essere in pubblico e di non potere esprimere i propri sentimenti se non con estrema discrezione. E poi la madre temeva che il figlio si sarebbe vergognato un po’ di loro. Già era rimasta stupita che gli avesse comunicato la data del saggio, perché a suo tempo, quando lei si era trovata in una situazione analoga, non aveva voluto dirlo a nessuno. Cominciò l’esibizione: c’erano molte ragazze, alcune molto giovani. Le canzoni erano quasi tutte in inglese, le voci mediamente belle, alcune notevoli per timbro ed estensione, ma sarebbe stato difficile ricordarle. Lei guardava ogni tanto il figlio, che ascoltava con attenzione e applaudiva, come tutti gli altri, alla fine di ogni canzone. Dopo una decina di ragazze fu il turno del figlio: avrebbe cantato due canzoni famose in inglese. Quando la base musicale iniziò a sentirsi, lei provò una stretta allo stomaco: sapeva cosa si provava ad iniziare così a freddo, con la voce che non avrebbe avuto il tempo di abituarsi al canto. Poi iniziò ad udire, quasi in trance per l’emozione, la voce del figlio, che arrivava calda e profonda, ritmata e misurata al punto giusto, scura e precisa allo stesso tempo. Le parole, cosè pronunciate, acquistavano un valore che andava al di là del loro significato. Pur non sapendo una parola d’inglese, che non le era mai piaciuto, in quel momento riuscì ad apprezzare la strana musicalità di quella lingua, che si adattava così bene al ritmo della musica, esprimeva fino in fondo la concisione e la velocità della vita, con una voce che sapeva evocare profondità, passione, intelligenza. Riconobbe in quella voce suo figlio, così uomo e così dolce, come sempre l’aveva sognato, ancora prima che nascesse. Si ricordò di un sogno che aveva fatto durante la gravidanza: era in riva al mare, o così le pareva di ricordarsi, e mentre partoriva suo figlio, anche lei era rinata da se stessa. Un sogno bellissimo, che aveva mantenuto sempre nella sua mente. Ora l’emozione di quella voce e la sua propria emozione glielo facevano rivivere e si sentì una cosa sola col figlio, come tanti anni prima.

  3. nemo scrive:

    “….. bisogno di farmi una tribù …. ” ( tribù ? … ahi ahi, mi ricorda qualcosa questa parola … ). Molto bello il racconto/biografia /ricordo di Donatella. “”” Chi riesce a raccontare la propria storia, riesce a percepire anche quella degli altri “”” ( Francesco Biamonti intervistato da Paola Mallone , ‘ Il paesaggio è una compensazione. Itinerario a Biamonti, De Ferrari Genova 2001 ). Sosteneva anche,
    citando Valéry , che occorre alleggerire la memoria se si vuole che il ‘vascello’ ( noi ) navighi.

  4. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    Lascio qui un’idea, una sensazione che ho avuto qualche tempo fa, quando non stavo bene e vedevo tutto nero. Mi sembrava che tutti ce l’avessero con me, mi sentivo un’aggressività che mi faceva male. Poi, forse perché stavo meglio per non so quali motivi, ho pensato di guardarmi in giro togliendo la velina nera che avevo messo su tutto. E’ stato come ritrovarmi; sì, c’erano tante cose che non andavano, ma io ero sempre lì, non ero in balia della corrente, potevo sempre fare qualcosa, essere me stessa. Non credo che c’entri molto con il tuo percorso, ma mi piaceva affiancarmi al tuo. In due è meglio!

    • Chiara Salvini scrive:

      In due è sempre meglio! In quattro ancor di più!
      Anche se da lontano (ero a Sanremo e tu a Milano, e poi, mi pare-ma posso sbagliarmi- che quando “stai male”, diciamo “a cuore aperto”, non hai troppa voglia di mettere in parole quello che provi, anche se in genere lo fai -in relazione alla maggioranza delle persone- molto più frequentemente e meglio)…Dicevo che, anche se da lontano, credo di aver accompagnato un poco quello che passavi. Non è importante ricondurti a quello che ho sentito io, credo di aver appreso- a “sentirmi vicino come simile” – un’altra persona nella sua diversità, a volte grandissima, da me. Anche se non è facile e l’allenamento dura secoli anche per dei piccoli risultati: tanto è forte il nostro bisogno di aggrapparci a noi stessi, al nostro territorio come i gatti, e amare tutti quelli-e solo quelli– che lì -se non uguali almeno “assimilabili”- possiamo ricondurre. E’ questa, in sostanza, la tragedia dei nostri figli che, invece, finché dura l’adolescenza- e puo’ durare a lungo- non vogliono avere padri né maestri, non vogliono “dover nulla a nessuno” perché “sentono solo che sono nati da loro stessi”; e di questa sensazione “hanno bisogno” per potersi staccare dai vari cordoni ombelicali. La lotta – e a coltello perché di sopravvivenza reciproca- sta nel fatto che per ottenere questo risultato, questa loro “sicurezza” (cui arrivano certamente con una dose di onnipotenza / anche noi abbiamo fatto così all’epoca), ci rimandano a noi genitori “la certezza emotiva di essere inutili”, o se vuoi, “ormai inutili”. E’ molto difficile, forse impossibile per alcuni, o per tutti, accettare “bene” questa inutilità della propria vita e lasciar andare i figli…sì, proprio come la montagna segue un torrente e poi un fiume che va al mare, suo destino, e questi puo’ farlo solo allontanandosi da lei-loro che l’hanno generato con il loro amore di neve (Tagore). E’ molto difficile farlo anche quando sai, “con quasi certezza”, che è una tappa, che puo’ anche durare molti anni, ma è una tappa di crescita perché poi i figli ritornano. Non tutti, d’accordo. Soprattutto oggi, con la “libera o non autoritaria educazione impartita loro. Molti non ritornano, non ne vedono la ragione. Certo, io che credo fermamente che sia una tappa, tante volte mi chiedo, anche dati i miei vari acciacchi e l’usura della malattia mentale, “ma io ci saro’ ancora?”. E, come puoi immaginare, non so rispondere a questa domanda. Parlavo di una lotta a coltello, anche se voglio dire subito che, in genere, non si vede. Ma alcuni sensitivi come te, la sentono però tutta. E ne provano angoscia come di fronte a tutte le situazioni che paiono “insolubili”. E, soprattutto, che “momentaneamente” lo sono. Ma noi non vediamo dietro l’angolo. Non possiamo. In questo, la nostra angoscia, tua e mia (e di chissà quanti altri) è non solo simile, ma uguale. Vivere una situazione che ci procura molto dolore e della quale non intravvediamo, neanche in estrema lontananza, una lucina sparuta, dà, credo, angoscia a tutti. Riprendendo il filo: questo vissuto di inutilità vitale, vorrei dire, è una specie di uccisione simbolica”, se non si ha troppa paura delle parole e dei sentimenti “di base”, o alla base di noi stessi/ alla quale reagiamo in modi diversi: quando arrivo agli estremi, io divento “piatta e muta” con un’angoscia così sottile e acuta che non la vivo più come angoscia (forse è “un panico freddo”- senza emozione), ma come un vero e proprio dolore fisico che mi si situa nel petto. E rimane. Non so se il mio sia un velo nero, anzi in quest’ultimo caso che ho cercato di “balbettare” (18 giugno) direi che non lo è proprio, ma uno sguardo ossessivo sì: uno sguardo che osserva freddamente come è caratteristica vitale dell’essere umano “farsi i fatti suoi”, per dirla volgarmente, oppure, in altra forma, vedere, a partire da me stessa, come ogni nostro atto, anche il cosiddetto “altruismo”, risponde ad un bisogno (o interesse) personale. Questo ce lo siamo detti molte volte anche perché è un mio chiodo fisso! Ma questo sguardo sul mondo e sugli altri, quanto tu hai la necessità per sopravvivere – letterale- di un gesto, fosse un minuscolo, invisibile gesto, che puoi percepire “gratuito”, nel senso che è fatto “per te” (la contraddizione non è mia ma nell’uomo), ti dà una solitudine che, per cercare di farmi capire, vorrei chiamare “metafisica”, nel senso che questa solitudine quasi siderale sta alle radici dell’essere di cui noi siamo parte, così come le fredde stelle. Per questo stai zitto e, direi, immobile, per il terrore che “una minima apertura”, anche uno spiraglio “verso” gli altri, ti possa uccidere. Io non sono arrivata fino a questo punto perché due parole le ho potute dire ad una persona che è per me più virtuale che reale. E da lei ho ricevuto “quell’accoglienza” di cui avevo necessità. Un vero abbraccio. Quando uno riesce a tenerti interamente tra le braccia come fai con un bambino: “lo raccogli tutto”, ecco. Bisogna aggiungere- senza voler neanche lontanamente disprezzare “il dono ricevuto”- che quando hai proprio fame, vera fame, una briciola ti sembra un banchetto! Ho conosciuto una persona tanti anni fa (di cui pero’, dei fatti accadutigli, so molto poco), una persona che aveva dovuto vivere “una tragedia”, non so proprio, posso pensare ad una perdita (morte) di una persona insostituibile per “poter” vivere, qualcuno – sempre immagino – con cui si ha un rapporto simbiotico nel senso buono della parola, per cui se la perdi perdi “una parte fisica di te stesso” o questa è la sensazione. Ebbene, adesso arriva la frase della persona: “Davo la doccia a mio padre e intanto piangevo”. Ecco, a questa frase, indipendentemente delle intenzioni di chi l’ha proferita, io assimilo la mia solitudine. Ma, anche se la lingua batte dove il dente duole, volevo tornare alla reazione che ci possono dare i nostri figli, soprattutto quando ci “testimoniano” che siamo oggetti inutili, e, insieme, ci chiamano sempre in causa per un aiuto, ma anche in casi meno dilanianti, è istintivo in noi una reazione -che è una risposta ad una specie di “sfida mortale” che ci lanciano – — (parlo sempre dei bassifondi, della logica della notte non di quella del giorno)— è istintivo reagire con un’affermazione violenta della nostra esistenza, un estremo bisogno di affermare con violenza la nostra “utilità” di vita, oggi e passata e futura, insomma: “NOI!” I meno inibiti questa ri-affermazione di sé devono farla “in faccia ai figli”. Ricordo bene… ma non è fatto che riguardi me, per cui deve rimanere segreto. A volte questa presa di posizione del genitore è risolutiva, come la famosa sculacciata al bimbo per cui la pianta di frignare, più spesso è tragedia. Sempre da quello che si vede dalla mia piccola tana. Ma se questo gesto di riaffermazione “non lo fai”, non lo metti in atto, cioè, non diventa un’azione verso l’esterno, tutta quell’aggressività buona e- per tanti – mista ad aggressività distruttiva (quando ci si è sentiti “offesi”, per esempio), te la devi ingoiare intera come una torta. E’ come ingoiare una bomba senza poter esplodere. Quella distruttività nera come la pece, per sopportarla, la spandi fuori come un velo nero sul mondo. Il mondo diventa un orrore, e da buon “intellettuale”, hai duemila e più argomenti-fatti- che ti dimostrano che quella visione è realtà…basta attaccarsi alla politica! Magari della sinistra! Ma qui, scherzo. Questo mondo reso orrendo da questa che, mi permetto di chiamare, “parziale proiezione del nostro mondo interno”, ti fa vivere l’orrore del reale, ma-attenzione – ti salva da un’implosione.. Ti salva cioè dalla cosa più terribile per gli umani che è “attaccare la propria mente” e, volgarmente, diventare pazzo. Nella pece dentro e fuori ci sono anche tanti sensi di colpa o, meglio, di “indegnità”, non essere stato all’altezza ecc ecc. Tutte cose note a tutti noi. Fino ad arrivare a vergogne estreme, come quella di essere vivi. Si capisce per chi ci arriva. Io parlo per parlare, “come lingua di per se stessa mossa”, e lo verifichi bene da quello che dico, non voglio certo parlare di te. Ecco, voglio raccontare una storia dei nostri mondi interni, che tutti abbiamo dentro, sia che li guardiamo, sia no, una favola che come tutte le favole non esiste, ma volte, leggendola, sentiamo che “allude” a cose nostre, anche una piccolissima cosa nostra, e, in quell’attimo, ci sentiamo “rispecchiati” cioè capiti. Fosse in quel minuscolo pezzetto delle infinite facce di quel diamante che tutti siamo. Quando finisce questo nero? Be’, prima di tutto finisce quando è sazio. Quando alla fine sei stufo anche tu. Non ne puoi più. E così, da una posizione “passiva” in cui subivi tutto quello “come proveniente dall’esterno”, prendi quella che-sembra assurdo, ma è reale – c si puo’ chiamare “una decisione inconscia” (Zapparoli) e dici “BASTA!”. Non tutti riescono a dirlo, non tutti hanno la medesima forza vitale, non tutti tengono abbastanza al proprio benessere, ecc ecc, non tutti soprattutto hanno gli stessi tempi, ma quando lo fai, giri la frittata e diventi attivo, cioè – nel mio linguaggio- cominci a sentire che non è tutto esterno, quello che “ti schiaccia così” non è tutto esterno, anche da te viene qualcosa, ma- importante- finalmente il peso non è più un assoluto, te ne puoi “responsabilizzare”; non passi dall’impotenza assoluta all’onnipotenza o potenza grandiosa (pero’ un briciolo di questo condimento ci vuole!), ma-attento-“alla semplice potenza umana”. E sei libero! Tu dici molto meglio: “E’ stato come ritrovarmi; sì, c’erano tante cose che non andavano, ma io ero sempre lì, non ero in balìa della corrente, potevo sempre fare qualcosa, essere me stessa”. Mi dirai: e allora, se è per arrivare alle mie parole, perché hai fatto tutta ‘sta sproloquiata? Be’, innanzi tutto questa sproloquiata serve a me, a farmi sentire viva e comunicante con te, soprattutto “con il mio mondo interno” (che-ahimé- è per me spesso più reale dell’esterno perché vedo “come muove i fili”…); poi, sai, ammesso che tu ti riconosca in un francobollo delle mie parole, del mio modo di vivere “quest’insieme” di cose, questi grovigli, direi meglio, e poi, – sproloquiando sproloquiando- io arrivo alle “tue” parole / riconoscendo che “tu dici meglio”…Eh mì, bambìn, se fosse così, o anche se fosse “un barlume” di così, ma ci scherzi? Vorrebbe dire che “siamo proprio insieme”, che non ti sei semplicemente “affiancata”, ma che abbiamo trovato…, guarda se ti piace: un balcone più grande da condividere, ognuno standosene nella propria casetta. Proprio come è fatto, “ma belle”, il tuo attico provenzale qui a Sanremo: due casette (butto giù tuo fratello!) nostre ed un immenso balcone che guarda il mare. Se vuoi, per riserbo tuo e, come si dice?, ecco, privacy, puoi tenere la tua alta siepe, tanto io…cicca cicca, ci faccio dei gran buchi (strappo tutto) e ti vedo, amore bello e grande, ch.

  5. nemo scrive:

    Non riesco ad analizzare, come fa così in profondità Chiara, il rapporto genitori-figli: l’ unico pensiero ‘drammatico’ è sapere che si concluderà con un ‘immedicabile’ dolore per i figli ( e va bene così !).

    • Chiara Salvini scrive:

      Tu credi? Certamente sarà così per alcuni, ma forse, per altri, sarà un sollievo: l’ho già visto; addirittura Donatella ed io abbiamo avuto un compagno di classe, che stava proprio sotto Donatella, per questo l’ha saputo, che il giorno del funerale della madre ha dato una gran festa in giardino con musica alta ché tutti sentissero. Un altro nostro amico comune, il giorno del funerale del padre, rimasta viva la madre, l’ho visto che aveva gli occhi umidi, non ricordo se gli ho fatto una carezza sul viso e lui mi ha detto: “Meno uno!”. Per tante persone, specie ci sono delle proprietà di mezzo, la morte dei genitori ha il senso per i figli di essere veramente liberi di fare quello che vogliono: se, per esempio, vogliono vendersi tutto, posso finalmente farlo, e poi- cosa che molti non trascurano affatto – passano loro ad essere “i padroni”. A comandare invece che ad ubbidire. Conosco abbastanza da vicino una persona, più vecchia di me, che ha avuto la mia stessa malattia, il disturbo bipolare, come si chiama oggi. La chiamerò Chiara come me. La grande differenza tra lei e me, tra la sua guarigione e la mia, sta nella enorme differenza di mezzi che lei ed io avevamo a disposizione e, anche, nella diversa strumentazione mentale. Che è, come si sa, anche questa, nella maggioranza dei casi, una differenza di classe sociale e di mezzi a disposizione per studiare. Queste le grandi differenze, anche se ce ne saranno delle altre. Anche lei come me è piena di acciacchi fisici, frutto dell’usura della malattia, i suoi molto molto più gravi dei miei, non solo per una differenza di età significativa, ma certamente perché ad ogni sospiro storto, grazie al tanto lavoro dei miei genitori, ho sempre potuto permettermi i migliori medici (a parte una fissa mia di curarmi al massimo per non dover pesare eccessivamente sui mal capitati familiari). La osservo molto da lontano, soprattutto le dinamiche della sua famiglia, in particolare dei figli (è vedova da tantissimi anni, anzi è stato questo lutto che in lei ha scatenato la malattia, e ha due figli maschi.)- Per come vedo che si relazionano con lei (se si puo’, quelle, chiamarle “relazioni”), la sua scomparsa, oltre ad essere un enorme sollievo per lei, lo sarà anche per i suoi figli. I malati pesano sulla famiglia, specie quelli mentali, in modo abnorme, ma anche qualunque altro malato grave o terminale, per esempio un genitore con l’Alzheimer. Ma non solo: anche qualunque altro genitore cui la piccola circolazione cerebrale sia lesa (mi pare si chiami così quando i capillari vengono ostruiti) e, come conseguenza, in certi momenti la persona delira. La prima cosa di cui si parla è se ci sono i soldi per mantenerla in un ospizio, lontano da casa. Nella mia piccola esperienza, fuori i nostri vecchi, i miei genitori, i miei zii, che appartenevano ad una generazione in cui “non si sentiva necessità” di nascondere la morte e il dolore negli ospedali o negli ospizi, non credo proprio di aver potuto osservare gente della mia generazione soffrire molto per la perdita dei genitori. Ormai da tempo siamo nell’era in cui i genitori si ammazzano: leggevo, parecchi anni fa, di uno studio sugli Stati Uniti dove questo fenomeno si vede – come tutto del resto – in grande (mi hanno detto che è così anche in Brasile): in generale, i genitori abbandonano i figli a loro stessi o ad impiegati quando ci sono. Sono pochi i genitori che ritengono loro dovere accudire i figli: ebbene sono proprio questi ad essere ammazzati, primo per il semplice fatto che ci sono, fisicamente lì, e, in più, che “rompono”. La moglie di mio zio Eliano, brasiliana che vive a San Paulo, mi diceva anni fa che, oltre agli omicidi dei genitori, si verificava un altro fatto tremendo: un genitore contraria il figlio su una cosa cui lui tiene molto e il ragazzo si suicida…mandando così un telegramma in tempo reale, come è obbligatorio dire, così fatto: “Siete voi che mi ci avete costretto!”. Penso che le mie belle notizie, oltre che sollevato, ti abbiano anche saturato, per cui smetto gli elenchi e ti do una bella, grande, felice “buona notte”, ch.
      Ps: anch’io so cosa è un immedicabile dolore. grazie.

  6. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    Mi sono fermata, oppressa dal mio fardello:
    qualcuno ha raccolto il mio peso.
    Mi sono fermata per riposare
    ma la persona vicina faceva molta fatica.
    Ci siamo divisi il peso e camminando
    abbiamo sorriso.

  7. nemo scrive:

    Bello questo poetico apologo. Temo però che quel ‘qualcuno che ha raccolto il mio peso’ difficilmente sia un ‘figlio/figlia’ ( in particolare se giovane ) …. normalmente sono i figli un fardello, naturalmente amato e voluto … Anche quando sono autonomi, sono un costante ‘pensiero’ ( preoccupazione ) per i genitori .

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