11 AGOSTO 2013 ORE 21:54 LE AVEVO DATO UN NOME DI FLAVIA DZODAN—TRADUZ/ ADATTAMENTO DI MARIA G. DI RIENZO

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Le avevo dato un nome

by lunanuvola

 

(tratto da: “Here I am. Fatigue, depression and infertility.”, un più ampio articolo di Flavia Dzodan per Tiger Beatdown, 2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Me ne sto seduta a battere sulla tastiera e cancellare tutto, digitare e cancellare, di nuovo, un altro tentativo. Continuo a pensare che devo ricominciare a scrivere, a pensare ad alta voce, a condividere, perché in questo stadio della mia vita è la sola cosa che so fare.

Respiro profondamente e scrivo.

Una volta ero una straniera illegale in Olanda. Una volta ero incinta. Una volta sono stata denunciata ai servizi per l’immigrazione da una donna olandese che sapeva sia che io ero illegale, sia che io ero incinta. Una volta sono stata arrestata. Una volta mi sono state negate cure mediche mentre mi trovavo nel centro di detenzione. Una volta sono stata deportata. Ho avuto un aborto spontaneo (la creatura era morta, sono stata ripulita alla bell’e meglio in un ospedale malmesso e dallo scarso personale in un sobborgo di Buenos Aires). Adesso sono sterile. Ciò è accaduto quindici anni fa.

Ecco, l’ho scritto. Questa è la mia storia in sintesi. Ed è la cosa più difficile che io abbia mai scritto in vita mia.

donne in attesa deportazione

Sono passati quindici anni ed ora siedo in pieno agio nella mia casa di Amsterdam. Non sono più illegale. In effetti, non lo sono più da dieci anni. Odio la parola “illegale” quando è applicata agli esseri umani. Pure, è una parola che ancora mi definisce. La mia impossibilità di avere bambini è illegale. Mi è stata somministrata dallo Stato. Immigrata illegale, madre illegale, donna illegale, straniera illegale, aliena illegale… mi fa pensare alle storie di rapimenti da parte degli extraterrestri e rido, anche se a distanza di 15 anni ancora di tanto in tanto non dormo la notte a causa dei flashback in cui lo Stato mi porta via – mi rapisce – dalla mia casa, la casa in cui vivevo con quello che allora ero il mio ragazzo ed oggi è mio marito, troppo poveri entrambi per pensare di chiedere permessi di soggiorno: non avevamo i requisiti che lo Stato domandava, non potevamo nemmeno permetterceli, e vi dico che con il tempo sono solo peggiorati. Vedete, la mia era “povertà europea”, all’epoca, molto differente dalla “povertà nel paese straniero” che sollecita gli “oh” e gli “ah” di simpatia dagli occidentali.

Andiamo all’ottobre 2012. Sono in un centro per la cura dell’infertilità in Spagna. Mio marito ha voluto darmi questo. Pensava mi avrebbe aiutata a guarire, che avrebbe aiutato entrambi a guarire. Una seconda possibilità. Non avrei mai avuto la bambina che morì mentre ero in detenzione (sapevo che era una femmina) ma almeno avrei avuto una possibilità. E’ irrazionale, lo so, ma la mia vita è stata un susseguirsi di vortici di irrazionalità e non intendo rompermi le scatole ancora sul piccolo dettaglio del come facevo a sapere che era una bambina. Le avevo dato un nome. Quando cominciai a sanguinare implorai. Piansi. Ripetei alle guardie che ero incinta. Loro mi risposero che non aveva importanza perché sarei stata deportata comunque. Mi lasciarono sanguinare e piangere. E adesso sono in una sala d’aspetto del centro spagnolo, terrorizzata, mentre i flashback continuano ad arrivare, la luce nella cella accesa da mezzanotte alle sette del mattino. Ho letto tanto sulla detenzione di migranti non regolari e nessun rapporto menziona il dettaglio: i tubi fluorescenti sempre accesi. Io li supplicai di spegnerli perché non riuscivo a dormire: insistetti sul fatto che ero incinta, ma non importava, sarai stata deportata comunque.

Ho la lista sul cellulare. Posso accedere alla lista ogni volta in cui ho bisogno di ricordarmi chi sono. Dalla metà degli anni ’90, circa 17.000 persone sono morte nei centri di detenzione europei. Io aggiungo sempre la mia morta alla lista. La mia morta non è stata conteggiata perché non è ufficiale. Non l’ho mai segnalata alle ong che tengono il registro dei cadaveri. Pure, sin dal giorno in cui seppi che stavo portando dentro di me una bimba morta (una bimba morta immigrata illegale) non ho fatto altro che onorare la sua memoria.

Adesso è il novembre 2012. Sono pompata di ormoni. Per quindici anni ho lottato con i flashback e la memoria ma ora è troppo. Ho cominciato ad avere idee suicide. Voglio tagliarmi e non so neppure perché. Mi dico ripetutamente: “Te la sei voluta, eri un’immigrata illegale, hai infranto la legge, dovevi aspettartelo.” E’ come se ogni commento su internet alle storie dei migranti non documentati mi stesse arrivando personalmente, a ricordarmi le mie scelte sbagliate. Ogni giorno, per dieci giorni, mio marito mi fa un’iniezione sul ventre. Ormoni, e il paradosso del voler portare vita al mondo nel mentre desidero uccidermi è una conseguenza non intenzionale della medicina che dovrebbe guarire la mia sterilità. Mi guardo allo specchio, nuda. Odio ogni particolare del mio corpo. Piangendo davanti allo specchio mi dico: “Questo è l’aspetto di una persona spezzata”. Non sono mai stata “bella”, non nel senso degli ideali di bellezza occidentali, ma non mi sono mai sentita più brutta. Ogni giorno, dodici pillole con altri ormoni mi ricordano che sono senza valore. Non sono neppure capace di fare una cosa basilare per cui il corpo è biologicamente disegnato, restare incinta. E lotto con un altro paradosso, e capisco quanto strano e raro sia: un tempo ero un’immigrata illegale che è stata resa sterile, e ora ho abbastanza denaro da tentare di aggiustare quel che si è rotto. La lista, dico a me stessa, la lista con i nomi di tutti quelli che non hanno avuto una possibilità. Il mio nome dovrebbe stare in quella lista.

Mi si accusa spesso di essere “risentita” o “razzista verso i bianchi” o “arrabbiata in modo irrazionale”. Compatisco quelli che non hanno mai fatto esperienza del vedersi portare via la cosa che volevano di più e sono capaci di chiamare un’altra persona “risentita”. Mio marito spesso mi dice: “Ma loro non conoscono i tuoi motivi.” Io rispondo che anche se li conoscessero chiederebbero più prove, più sofferenza, più dolore per potermi credere. E questa è la ragione per cui non ho mai parlato in pubblico del mio passato di immigrata illegale. Ho sempre pensato che se lo avessi fatto sarebbe stato usato contro di me, per togliere valore a tutto ciò per cui lotto: “Oh, ma tu sei coinvolta emotivamente”, “Non è possibile che tu abbia un’opinione imparziale su questo”… Perciò, sono rimasta zitta anche se credo con tutto il cuore che il personale è politico. Non ho parlato perché temevo di vittimizzare me stessa e, nel processo, di rendere sospetta ogni cosa che scrivo sulle politiche dell’Unione Europea. Provavo anche vergogna. I clandestini sono “la rovina della società”, “sono illegali”, “sono delinquenti”. Ma poiché non riesco a scrivere nulla da quattro mesi, non ho più niente da perdere. Adesso è il momento per portare alla luce la mia storia. Potrò non essere imparziale, o oggettiva, o non compromessa, ma non lo è nemmeno uno Stato che rende sterili delle persone in ragione del loro status come immigrate, o uno Stato che trova giusto permettere di morire a 17.000 individui perché costoro hanno avuto la sfacciataggine di migrare senza avere i documenti giusti.

Alla fine di novembre 2012 sono in Spagna per l’impianto dello zigote. Poi devo prendere altri ormoni, e dopo tre settimane fare l’esame del sangue per vedere se sono effettivamente incinta. Giorni di nausea e di terrore. Prendo le pillole e inserisco le cialde in vagina religiosamente, faccio esattamente tutto quel che mi hanno detto di fare. E’ la seconda settimana di dicembre 2012. Una mattina mi sveglio e so che non sono incinta. Lo so e basta, proprio come sapevo che la bimba dentro di me era una bimba. Due giorni dopo l’esame del sangue lo conferma. Non ho concepito. Piango disperata ma subito dopo mi sento stranamente sollevata. Posso infine smetterla con gli ormoni e forse non sentirò più il desiderio costante di uccidermi. Posso, forse, tornare ad essere la persona che non odiava totalmente il proprio corpo. Posso, forse, finalmente accettare che non avrò mai un figlio. Piango e valuto la mia vita come un rendiconto di fallimenti: questo non sei riuscita a farlo, in questo hai mancato, qui e qua hai sbagliato, e ora sei troppo vecchia per fare qualcosa di significativo e sei responsabile della morte di tua figlia, e la tua sterilità è il castigo per questo… I giorni passano, ma io non miglioro molto.

Arriva Natale e ho l’albero più bello che abbia mai avuto. Non sono cristiana, ma amo l’albero. Celebro l’inverno perché è la mia stagione preferita e celebro i cicli della vita e la benedizione di essere vicina a coloro che amo. Ma per quanto riguarda la cerchia sociale evito il contatto con chiunque. Non voglio parlare del fallimento dell’impianto. Non voglio vedere nessuno mostrarmi compassione. Continuo a pensare che è colpa mia, che l’ho meritato. Ecco cosa succede se non si sta alle regole. Poi, con la neve, è arrivato un senso di speranza. Posso almeno vivere. Posso, almeno, tentare di urlare che alcune cose sono sbagliate. Che le donne nei centri di detenzione non meritano vedersi negare cure sanitarie, che le persone deportate non meritano di suicidarsi a causa del trauma (una triste realtà di cui si parla pochissimo). Mi dico: almeno, la tua storia può fungere da allarme.

Nel febbraio 2013 ho scritto questo testo. Per poter essere in grado di scrivere altro di nuovo, avevo prima bisogno di raccontare la mia storia. Il suo nome sarebbe stato Francesca: un nome carino per quella che speravo sarebbe stata la mia carina figlia. Lei è morta mentre io ero detenuta ed aspettavo la deportazione. Lei meritava di meglio. E, da allora, io non ho fatto altro che tentare di onorare una vita che lei non ha mai avuto la possibilità di vivere.

 

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