ORE 23:04 LA TERAPIA DEL DOLORE E GLI OPPIACEI (GLI ANTALGICI DI NUOVA GENERAZIONE)

 

Parla Mario Bosco, antalgologo e ricercatore
dell’Università Cattolica di Roma
 

“La terapia del dolore?
L’Italia è ancora indietro”

di CLAUDIA DI GIORGIO

Mario Bosco è ricercatore dell’Istituto di anestesia e rianimazione dell’Università Cattolica di Roma e lavora al Complesso Integrato Columbus come terapista del dolore. Il termine tecnico che lo designa ha un bel suono greco: è un antalgologo, un medico specializzato nella cura del dolore. 

Dottor Bosco, come si definisce clinicamente il dolore?
Il dolore è uno stato di sofferenza che coinvolge totalmente l’individuo, dal punto di vista fisico, emotivo e psicologico. Bisogna tuttavia distinguere tra due aspetti del dolore. C’è il dolore acuto, che è un segno di malattia e rispecchia la presenza di una patologia. Quindi è un dolore “utile”, che serve da segnale d’allarme. Gli va attribuita la giusta importanza ma rimane un sintomo tra gli altri. Noi invece ci occupiamo di dolore cronico, dolore, cioè, che diventa la malattia in se stessa, che rappresenta la malattia perché condiziona l’intera esistenza dell’individuo, influenza profondamente la qualità della sua vita e non è utile al fine di migliorare e caratterizzare una diagnosi. Il dolore, inoltre, determina anche conseguenze familiari e sociali, influendo su tutta la vita di relazione del paziente. Di conseguenza, noi lo affrontiamo nella sua globalità, con un approccio multidisciplinare che vede l’intervento di competenze diverse”.

A quali condizioni patologiche si associa in prevalenza il dolore cronico?
“Anzitutto ai disturbi osteoarticolari e muscolari, quindi artrosi, deformazioni dello scheletro, lombalgie e mal di schiena. Un altro settore quantitativamente molto importante sono le cefalee. Le cefalee sono numerosissime: nel nostro paese colpiscono tra il 15 ed il 20 per cento della popolazione adulta, e non stiamo parlando di banali mal di testa occasionali ma di sofferenze che alterano la qualità di vita delle persone e ne limitano la funzionalità.
Perché curare il dolore e non la malattia? In primo luogo perché la malattia spesso è sfuggente, vale a dire che è assai difficile da diagnosticarne con esattezza la causa e quindi la cura (accade spessissimo con le cefalee). In altri casi non ci sono cure efficaci. Nell’artrosi generalizzata, ad esempio, i trattamenti di cui disponiamo sono solo palliativi, cioè evitano il peggioramento ma non guariscono. Tutti i disturbi cronici della colonna vertebrale di fatto non sono trattabili, e le terapie sono essenzialmente lenitive. Su questo tipo di disturbi la terapia del dolore è più efficace e i trattamenti fisioterapici di fatto sono adiuvanti rispetto al trattamento del dolore in sé. Inoltre, ci occupiamo di terapia del dolore per i malati neoplastici”.

Dato che non serve a “guarire”, che cosa si ottiene con la terapia del dolore?
“Un miglioramento, spesso decisivo, della qualità della vita, e quindi del livello di attività del paziente. In grande maggioranza i nostri pazienti sono anziani, quindi curare il dolore vuol dire contribuire alla loro autonomia, che di per se stessa è curativa anche dal punto di vista del tono dell’umore e di capacità di reazione all’invecchiamento. I malati di cefalea, al contrario, sono in gran parte giovani, quindi nel pieno dell’attività lavorativa. Migliorarne la funzionalità, oltre a rendere migliori le condizioni individuali, riduce anche gli elevati costi sociali di queste patologie, che sono sia costi diretti (per le terapie) che indiretti, in termini di giornate lavorative perse”.

In cosa consiste la terapia del dolore?
“C’è un intervento di tipo farmacologico, che segue protocolli terapeutici abbastanza standardizzati (pur essendo ogni terapia personalizzata, esistono linee di guida generali), in cui si usano farmaci analgesici, i cosiddetti antinfiammatori non steroidi, poi oppiacei ed una serie di farmaci ad attività psicotropa, che agiscono sul sistema nervoso centrale, e si adottano come modulatori, cioè per potenziare gli analgesici. Poi ci sono tecniche di terapia del dolore cosiddetta “invasiva”, con metodiche mediate sia dall’anestesia classica che dalla neurochirurgia, ad esempio l’impianto di cateteri permidollari (usati essenzialmente nei dolori neoplastici). Infine ci sono tecniche di biofeedback, tecniche di rilassamento, fino a interventi di tipo psicologico. Più che un singolo medico, infatti, la terapia del dolore richiede un centro ambulatoriale con specialisti di varie discipline, quindi, oltre all’antalgologo, un reumatologo, un ortopedico, uno psicologo eccetera”.

Chi pratica la terapia del dolore in Italia e da quanto tempo?
“A livello mondiale, a parte qualche pioniere una trentina d’anni fa, non sono più di 15-20 anni che si sono organizzate strutture di ricerca e di cura in questo campo di lavoro. Negli ultimi anni anche in Italia c’è stato un forte interesse, ed oggi in quasi tutte le regioni ci sono uno o più centri di terapia del dolore. Gli anestesisti in generale sono molto interessati, ed esistono due società scientifiche a livello nazionale che si occupano di dolore. In quasi tutti gli ospedali più importanti esistono servizi di terapia del dolore, anche se molti operano ancora su base volontaristica”.

Ma i medici di base quanto ne sanno?
“In Italia c’è molto da fare per far entrare nella cultura del medico di base il concetto di dolore cronico e di trattamento del dolore cronico. Le problematiche aperte sono varie, a cominciare dalla conoscenza dei farmaci da impiegare. Nel nostro paese esiste ancora una forte ostilità all’impiego di oppiacei nella terapia del cancro. In tutti i paesi occidentali più evoluti l’impiego di morfina nel dolore neoplastico è considerato tra gli indici di civiltà. Qui invece abbiamo grossissimi problemi, i medici hanno enormi resistenze. Il medico di base dovrebbe svolgere il ruolo di informatore del paziente riguardo alle possibilità di assistenza domicialere, cure palliative e terapia del dolore. Ma in effetti non lo fa. Più in generale, in Italia c’è un atteggiamento diffuso di paura nei confronti della morfina, considerata quasi come rimedio eroico che sottolinea l’ineluttabilità della situazione. Noi abbiamo una concezione ancora molto fatalistica del dolore”.

Cosa pensa, in base alla sua esperienza clinica, della ricerca americana che indica le donne come maggiormente colpite dal dolore ma anche più capaci di sopportarlo?
“Sono assolutamente d’accordo. Le donne sono certamente più soggette a sindromi dolorose croniche, soprattutto cefalee e dolori osteoarticolari. Ma rispetto agli uomini hanno una soglia del dolore più elevata, reagiscono meglio e gestiscono meglio la sofferenza. Insomma, lo provano di più ma sanno tollerano. Globalmente, infatti, rileviamo che le nostre terapie hanno maggiore successo sulle donne”.

(11 aprile 1998)

 


Il dolore?
Meglio le
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di Claudia Morgoglione

Parla lo
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di Claudia Di Giorgio

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This article was written on 23 set 2013, and is filled under Neuro News.

Oppiacei – L’abuso precede l’uso

(a cura di Angelo Sghirlanzoni)

I dati sono impressionanti e il governo inglese ha deciso di affrontare il problema dell’uso improprio di farmaci come fosse  una priorità. Di qui l’intenzione di  riclassificare  l’antidolorifico tramadolo ponendolo in classe C e di introdurre precise regole per custodirlo e limitarne l’uso. Il farmaco potrà ancora essere legalmente prescritto dai medici, ma non ceduto ai pazienti da parte di altre persone. Il provvedimento è giustificato da un uso improprio del farmaco   che ha provocato un aumento del numero dei decessi:  dagli 83 del 2008 ai 154 del 2011. Ma l’abuso di prescrizioni di oppioidi non si limita al tramadolo.

Da una indagine recente risulta che negli Stati Uniti il 2% delle prescrizioni di oppiacei, per un totale di 4,3 milioni ogni anno, è riconducibile ai cosiddetti doctor shoppers, ossia a coloro che si rivolgono a più medici  per avere “legalmente” dosi multiple del farmaco desiderato.

Nella prima  stima nazionale eseguita negli Stati Uniti sulla ricettazione di oppioidi, risulta che i cosiddetti “doctor shoppers” ottengono in media 32 ricette all’anno da dieci differenti medici. Nel 2008, sono state distribuite dalle farmacie americane circa 146 milioni prescrizioni di antidolorifici oppiacei, in genere una sola per medico, ma un paziente su 143 ottiene in media  32 ricette da dieci medici diversi.

Negli USA il problema si sta ampliando in modo esponenziale.      Contemporaneamente all’aumento delle prescrizioni, l’abuso  di oppioidi  ha provocato un incremento della mortalità da overdose di 4 volte in 10 anni: dai  4000 decessi del 1999 ai 16.651 del 2010. Attualmente la morte da sovradosaggio di oppioidi per uso antidolorifico è due volte più comune   di quella dovuta a sovradosaggio di cocaina e di eroina.

In una ricerca che ha esaminato 146 milioni  prescrizioni di oppiacei effettuate durante il 2008 provenienti dal 76% delle farmacie americane, risulta che mentre dal 1997 al 2011 la popolazione degli Stati Uniti è aumentata del 16% (McDonald e Carlson, 2013), la quantità di ossicodone venduto dalle farmacie ha visto un incremento del 1.259%. La quantità di idrossicodone, metadone, fentanyl e morfina, ottenuti in farmacia, si è accresciuta rispettivamente del 356%, del 1099%, del 711% e del 246%. Dalla metà degli anni 1990 le ammissioni ai Pronto Soccorso dovute a cattivo uso di oppiacei è aumentata di circa 10 volte, mentre la mortalità da sovra-dosaggio è passata dai 4000 eventi del 1999 ai 16.651 del 2010.

Ormai l’avvelenamento da medicinali è la prima causa di morte accidentale negli Stati Uniti e l’abuso di analgesici ed antidolorifici miete più vittime degli incidenti stradali.  Il primato della mortalità da antidolorifici si è verificato nel 2008. In quell’anno, 41 mila americani sono deceduti a causa di avvelenamento da farmaci contro 38 mila per incidenti stradali. Di questi 41 mila, il 90% è morto a causa di uso improprio di medicinali. Il 77% di queste morti è stato accidentale, il 13% ha deciso di suicidarsi.

Questi fatti, comuni a molte nazioni sviluppate o in via di sviluppo, rendono la prescrizione antidolorifica   una minaccia per la salute pubblica proprio mentre  si assiste ad una riduzione dell’abuso di eroina e di cocaina.

COMMENTO – Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rapida evoluzione del trattamento del dolore con una svolta in favore dell’utilizzo di oppiacei; sono stati sviluppati e messi in vendita composti sempre più potenti senza che  la terapia del dolore entrasse a far parte dell’insegnamento  medico.

Voci influenti hanno proposto il dolore come il “quinto segno vitale”. Molti hanno sottolineato come lo scarso controllo delle sindromi dolorose sia di per sé un problema di salute pubblica.

Si corre però il rischio di passare direttamente dal sotto-trattamento ad un potenziale “eccesso” di trattamento e sono aumentate le prescrizioni di oppioidi nei pazienti con dolore cronico non canceroso.

In Italia siamo appena usciti, o stiamo per farlo, da un atteggiamento di considerare quasi “peccaminoso”  l’uso antidolorifico di oppioidi e già rischiamo di abituarci a prescriverne troppi e con troppa facilità, con indicazioni scorrette. Dimentichiamo che ogni terapia, soprattutto se non razionalmente valutata, comporta effetti collaterali, anche inaccettabili.

Spesso nei centri di trattamento del dolore non c’è il problema di “fare diagnosi”; i pazienti arrivano con diagnosi già fatta, frequentemente con l’etichetta di “sindrome dolorosa da causa non nota”, dizione questa che può comprendere patologie  definite dagli internisti “sindromi somatiche funzionali” oppure conosciute come “disordini somatoformi” o “disturbi algici”, nel linguaggio psichiatrico.

Del resto, quasi sempre le sindromi dolorose mettono in gioco  fattori psicologici che rivestono ruoli importanti nell’esordio, gravità, esacerbazione o mantenimento dei sintomi. Addirittura, è nozione generale che la simulazione o la dissimulazione si manifestano nell’1,5-10% dei pazienti con dolore cronico.

Perciò la diagnosi di “sindrome dolorosa cronica” va preceduta da un  approccio psichiatrico-psico-dinamico che porti a eludere l’impiego di strumenti impropri quali appunto gli oppioidi e la miriade di stimolazioni, locali, midollari spesso utili solo a curare l’ansia del medico e del paziente. Bisogna tener conto dell’articolo di McDonald e Carlson, come degli altri studi che arricchiscono la stampa internazionale per evitare di uscire dalla padella del sotto-trattamento del dolore per cadere nei tizzoni dell’eccesso di trattamento e della dipendenza da oppiacei da trattamento improprio.

Bibliografia:  McDonald DC, Carlson KE (2013) Estimating the Prevalence of Opioid Diversion by “Doctor Shoppers” in theUnited   States. PLoS ONE 8(7): e69241. doi:10.1371/journal.pone.0069241.

 

 

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