MIMMO CALOPRESTI (REGISTA…). IL FATTO DEL 12 GIUGNO 2018 ::: DON ROBERTO, PRETE TRA GLI SCHIVI ” NIRI “

 

il fatto quotidiano del 12 giugno 2018

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Don Roberto, prete tra gli schiavi “niri”

Da bambino ho percorso il tratto di strada che collega Rosarno a Polistena (dove sono nato), a piedi con mia nonna Rosa che con un cesto di vimini in equilibrio sulla testa, attraversava gli agrumeti

domenico calopresti, detto mimmo—International Journalism Festival from Perugia, Italia— nasce a Polistena nel 1955,  è un registasceneggiatore e attore cinematografico italiano

Rosarno è uno svincolo dell’autostrada Salerno Reggio Calabria. È un non luogo, un cartello stradale per chi si addentra nella Piana di Gioia Tauro.

Da bambino ho percorso il tratto di strada che collega Rosarno a Polistena (dove sono nato), a piedi assieme a mia nonna Rosa che con un cesto di vimini in equilibrio sulla testa, attraversava gli agrumeti e la campagna per acquistare uova fresche e verdura da rivendere al mercato, la sua tessera sindacale indicava la numero 4 della Cgil braccianti, arruolata quando raccoglieva le olive a mano e veniva pagata a cottimo, tanto raccogli, tanto hai, qualche litro d’olio da rivendere, con i caporali che ti bastonavano se provavi a mettere da parte un pugno di olive.

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Vita da schiavi diceva. Sto pensando a lei mentre sto andando al campo di S. Ferdinando, a incontrare Jacob Atta, sindacalista della Cgil. Dentro lo spiazzo, una miriade di baracche di cartone e plastica attorniate da immondizia. Intorno tanta polizia. Vengo controllato insieme alla mia troupe e mi viene raccomandato di non entrare nel campo, per non eccitare gli animi, mi dicono. Mi guardo intorno spaesato, molta desolazione e poco più. Continuo a chiedermi cos’è questo posto di cui tutti hanno paura. Una baraccopoli, un campo raccolta di rifugiati e immigrati, una bidonville di una periferia di una qualsiasi città africana. È tutto questo insieme tecnicamente. I nigri , come vengono chiamati da queste parti, sono molti e affollano il posto. Tutto diventa chiaro, quando cominciano i primi racconti degli amici di Jacob. Nella quasi totalità, in mezzo al fango tra gli scoli del liquame e fuochi d’immondizia, vivono dei braccianti, lavoratori con regolare permesso di soggiorno. Mi urlano nel microfono che sono pagati poco, 1 euro per una cassa di mandarini, 50 centesimi per una di arance e che soprattutto i padroni, da quanto non sentivo questo termine, non pagano i contributi e quindi niente diritti a fine stagione. Niente di nuovo tutto come con mia nonna a inizio Novecento.

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nuovo campo di san ferdinando, la cordiretti dona i container per le docce…

In tutta questa zona della Calabria ci sono giovani uomini e donne che quando gli viene permesso lavorano come degli schiavi, che bramano la possibilità di avere una vita dignitosa, farsi una doccia quando tornano sudati dai campi, che cucinano il cibo del loro Paese d’origine e che cantano le loro canzoni intorno al fuoco, parlando dei figli e mogli che vorrebbero rivedere. Persone gentili che parlano inglese o francese, che hanno imparato anche il dialetto calabrese per farsi capire meglio, che vengono ripagati dall’indifferenza e dal disprezzo generale con un cordone di polizia che li tiene sotto controllo in un recinto. Queste persone sono per lo più impaurite e infreddolite, stanche e ammalate, in continua apprensione per la sorte dei loro parenti o delle loro famiglie che vivono in Paesi dove c’è la guerra e aspettano i soldi dall’Italia, per cominciare a camminare, attraversare deserti e mari e potersi ricongiungere ai loro cari in un luogo indefinito del mondo, in questo svincolo dell’autostrada della Salerno Reggio Calabria.

Il presidente della Camera Roberto Fico in visita alla tendopoli di San Ferdinando

il presidente della camera Roberto Fico si è presentato al campo dopo l’assassinio di Sumayla Sacko

 

Entro con Jacob nel campo. Mi accorgo con stupore che qui ci sono le macchine di alcuni ragazzotti calabresi, i caporali, che stanno contrattando il poco lavoro del giorno dopo. Io non posso fare il mio lavoro per non eccitare gli animi e i caporali fanno invece indisturbati il loro sporco e illegale. Attraversiamo il campo, c’è il bar e l’alimentare e i gruppi di persone agli angoli che ascoltano la musica dai telefonini, al fondo verso l’uscita c’è lui. Don Roberto, accanto al suo furgoncino posteggiato sotto un albero, sembra abbia mille mani e cento bocche e mille occhi, parla con tutti, si occupa di tutti. Da vicino: è giovane, il suo fisico è piccolo e gracile, parla a bassa voce ed è vestito di nero. È il parroco di S. Ferdinando, che dopo le messe di ordinanza alla parrocchia, sale sul suo furgoncino e viene al campo. Per non essere soffocato dalle centinaia di mani che lo cercano si rifugia nel suo furgoncino e io dietro di lui mi accuccio tra scatole di medicine e centinaia di buste contenenti codici fiscali, fogli con richieste di permessi di soggiorno, lettere di avvocati, sentenze di giudici, qua dietro c’è di tutto. Intanto Don Roberto si attarda ai vetri laterali scorrevoli e con infinita pazienza affronta tutti i casi che gli vengono sottoposti. È insieme, medico, avvocato, giudice, amministratore locale, prete e assistente sociale e infine funzionario dello stato. Mi racconta la storia di tutti quelli che si affacciano, qualcuno di loro mi fa vedere le foto dei figli sul telefonino, lui conosce la storia di ognuno. Poi chiude bottega, si mette al volante e lentamente attraversiamo tutto il campo. “Di queste persone non gliene importa niente a nessuno. Ho visto passare tutti da qui, dalla Caritas a Emergency, nessuno è stato capace di fare niente. Tutti si occupano del loro orticello, nessuno di questo piccolo mondo di disperati”. Intanto qualcuno ci blocca in mezzo alla strada, un uomo si deve far medicare un dito, Don Roberto leva la garza piena di sangue e pus, poi ripulisce e disinfetta una ferita a un dito, piuttosto profonda. Poi allunga un antidolorifico. Un altro ne approfitta per sapere se può avere un sonnifero. Perché non vanno all’ospedale? chiedo. Si fanno male sul lavoro e non vogliono perdere la giornata, non possono tornare a casa senza niente. L’ospedale è lontano e bisogna andarci a piedi, e quindi vengono da me a farsi curare, prima di buttarsi su un materasso per terra.

Il prefetto dice che quelli come lui creano false speranze, il vescovo lo ignora, qualche poliziotto lo minaccia dandogli la colpa di quel che succede qui. Io invece penso che tutto questo enorme baraccone che si muove intorno a queste persone non serva a niente: sarebbe meglio aprire un presidio medico, la posta, e uno sportello per le pratiche burocratiche. “Ma a me comunque non m’importa nient’altro che venire tutti i giorni al campo a dare una mano”. E basta? Dico io. Sì e continua, io voglio andare in Paradiso e uscire da questo Inferno. Mi sembra una risposta che ha un senso. Sorrido e saluto. Torno verso Polistena, e in questo viaggio di ritorno verso casa, non riconosco niente della mia infanzia, la mutazione è totale, la modernità ha completamente cancellato la storia, le facce sono uguali a quelle di tutti, i tatuaggi sono i soliti, i vestiti, i capelli, le smorfie rendono tutti uguali è il reality che è diventato vita, storia. Polistena è diventato il posto della movida della Piana, tutte le sere migliaia di persone mangiano, bevono e si dedicano a ogni tipo di stupefacente, per divertirsi e dimenticare che ormai non esistono più. Nella navata centrale della chiesa Matrice, Don Pino De Masi mi dice che è appena tornato da Vibo Valentia dove aveva partecipato alla commemorazione di un altro assassinio di ’ndrangheta. Guardo a lungo la fonte battesimale, dove mia madre mi ha raccontato ero stato portato di corsa appena nato, perché non riuscivo a respirare, al contatto con l’acqua benedetta cominciai a piangere e i miei polmoni cominciarono a funzionare. E tutti gridarono al miracolo.

“Era un povero ragazzo veramente sfortunato, un anno e mezzo fa aveva chiamato il 118 perché aveva dolori addominali e non riusciva a mangiare, ma non gli avevano creduto. Io l’ho portato in ospedale alle 4 del mattino e lo hanno dovuto operare urgentemente di ulcera perforata. E l’ha scampata, poi altre due volte ha avuto problemi con la sua baracca. Ora i ragazzi andavano a prendere delle lamiere in una fabbrica abbandonata, oltretutto sotto sequestro. I ragazzi l’avevano scoperta e a turno erano andati a prendere lamiere per rinforzare la baracca. Questa volta gli hanno sparato”. È Don Roberto che racconta come è morto Soumayla Sacko. Ucciso da un colpo di fucile alla testa, a S. Calogero nel Vibonese, mentre si appropriava di un pezzo di lamiera. Noi condannati a morte nel vostro quieto vivere cantavano i Negazione nel 1985. Riposa in pace Soumayla Sacko. Uno di noi.

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