PUBBLICHIAMO PER DOCUMENTAZIONE L’ARTICOLO DI SCALFARI A CUI FA UN COMMENTO BREVE ROSSANA ROSSANDA SU IL MANIFESTO (articolo successivo)–repubblica del 18 maggio 2019

 

REPUBBLICA / editoriale / del 18 maggio 2019

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Editoriale Elezioni Europee

La lezione morale di Berlinguer

E’ il patrimonio culturale e politico della sinistra italiana ed europea ed è in quest’ambito che dovrebbe rinascere il perno della democrazia
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A volte mi chiedo chi è la persona che ha combattuto meglio di altre per modernizzare il nostro Paese una volta conclusa l’ultima guerra mondiale e cioè dal 1945 in poi. Di personaggi importanti sia in Italia sia in Europa ce ne sono stati una quantità ma politicamente ce n’è uno che ha capovolto la posizione del partito da lui diretto rafforzando quel partito stesso e facendone il motore di un futuro che tuttora continua dopo che lui è morto da molti anni e il partito da lui diretto non esiste più. Eppure, nonostante queste osservazioni sui fatti avvenuti, è vero e anzi verissimo che il nostro Paese è politicamente cambiato in meglio per merito suo e in peggio per la vittoria dei suoi avversari. Parlo di Enrico Berlinguer e del Partito Comunista da lui trasformato che ha dato origine alla sinistra italiana moderna.

A volte quella sinistra ha vinto; a volte ha stravinto e infine in altre occasioni ha totalmente perduto. Questi alti e bassi configurano la realtà della vita in genere e della politica in particolare, ma è molto difficile la persistenza delle idee, sia che vincano sia che perdano. Si verifica spesso nelle religioni ma non nel mondo laico: di Enrico Berlinguer ce ne sono stati pochi nella storia d’Italia, anzi pochissimi in quella più moderna del Novecento. Quali sono state le ragioni positive e quelle negative che hanno costellato la vita del nostro Paese e la sua presenza nel continente europeo?

Berlinguer era un democratico, sentiva il valore dell’interesse generale e non lo identificava con l’interesse di partito e neppure di classe. Aveva un concetto alto delle istituzioni e ne vedeva la deformazione che la partitocrazia aveva introdotto nel sistema. Sapeva anche che il Pci a suo modo faceva parte della partitocrazia ma non condivideva il movimentismo di Pietro Ingrao né la posizione di Giorgio Amendola, democratico nella politica italiana ma legato all’alleanza con Mosca nella politica estera.

Berlinguer insomma fu il punto di svolta del Pci e lo condusse fuori dal ghetto. L’accordo con Aldo Moro fu il punto di partenza di un percorso che sarebbe stato molto lungo se l’uccisione del leader democristiano non avesse accelerato la transizione e la legittimazione democratica del Pci e di conseguenza quella democrazia compiuta che fu poi portata a termine da Achille Occhetto e finì addirittura con la dissoluzione del Pci e la nascita del postcomunismo.

Il partito per il quale personalmente ho votato negli ultimi anni e sempre voterò fin quando potrò non ha niente di comunista ma ne è comunque il figlio e Berlinguer ne è di fatto il padre o almeno il nonno se si considerano i tempi lunghi di quella trasformazione.

Ci vollero più di vent’anni perché quel percorso arrivasse alla sua conclusione. Berlinguer privilegiava il valore dell’eguaglianza anche se non avrebbe mai negato il valore della libertà. Ricordo ancora che un giorno, discutendo di queste questioni, gli dissi che la sua visione coincideva con il liberal-socialismo dei fratelli Rosselli e del Partito d’Azione. Rispose: «Lo so. Giustizia e libertà potrebbero essere benissimo lo slogan del Pci in un Paese diverso dal nostro. Forse in futuro questo avverrà, sarà possibile, ma quel futuro è molto lontano». Ricordo di avergli detto che il suo partito avrebbe dovuto affrettarne i tempi e scrissi su Repubblica un articolo intitolato: «Se Berlinguer diventa liberale». Avevo ragione: il Partito Comunista creato da Berlinguer è padre o nonno dell’attuale Partito Democratico. Non attraversa un buon periodo ma è comunque il depositario del comunismo democratico di Berlinguer innestato sul liberalismo di Francesco De Sanctis e di Benedetto Croce.

Se c’è ancora in Italia una vera democrazia liberale e socialista questa viene congiuntamente da Enrico Berlinguer e da Ugo La Malfa. Ho avuto la fortuna di essere intimo amico di entrambi e di averne ereditato le idee che questo giornale, dopo quarantatré anni dalla sua fondazione, ancora coltiva e difende alimentandone l’attuazione a vantaggio del Paese e dell’Europa.

Ieri Matteo Salvini ha radunato i sostenitori della Lega in piazza del Duomo a Milano. Un tempo la Lega aggiungeva a quella sua parola anche l’indicazione localistica del Nord. Erano i tempi di Umberto Bossi e dei suoi più stretti seguaci che avevano un rilievo notevole, anche se non immenso, soprattutto in Lombardia e quindi a Milano, ma poi anche in Piemonte e in qualche località veneta. Insomma Lega Nord. Ma ora la Lega è diventata per merito organizzativo di Salvini un partito esteso anche nel centro d’Italia, sia adriatico che tirrenico, sia al Sud e nelle isole, Sicilia e Sardegna. Insomma un partito nazionale che affronta tra pochi giorni le elezioni europee.

Le elezioni europee sono molto imbarazzanti per la Lega la quale si qualifica ed è “sovranista”. Il significato di questa parola svaluta l’europeismo: i sovranisti non sono europeisti, difendono in tutto il continente del quale geograficamente facciamo parte sottolineando che a loro interessano soltanto gli interessi “sovrani” del loro Paese e cioè l’Italia. Ma con chi dovrebbero allearsi in Europa? Ovviamente con i sovranisti europei che sono una parte notevole dei membri dell’Unione. Diciannove di essi condividono l’euro che hanno ereditato fin dal 2002, ma il fatto di avere una moneta comune non diminuisce il loro sovranismo e anzi l’euro fa da cemento con i molti partiti sovranisti d’Europa. Più sovranisti ci sono e più la loro forza a favore del proprio Paese si moltiplica: un sovranista appoggia l’altro e ne è appoggiato. È un’alleanza assai singolare che la Lega italiana veda con piacere e appoggi per quel che può il Partito della Libertà austriaco, sovranista più che mai, e così pure i sovranisti della Sassonia, dell’Ungheria, del Belgio, del Portogallo, della Catalogna, della Savoia e ovviamente della Germania: un sovranista appoggia l’altro oltre che se stesso e i suoi interessi e reciprocamente. In Francia c’è addirittura un partito simile alla Lega, guidato da Marine Le Pen, e lì l’accordo è ancora più stravagante poiché i due movimenti sono in tutto e per tutto simili e in tutto e per tutto agganciati alla Russia di Putin.

L’obiettivo più vistoso di un partito sovranista è quello di governare il proprio Paese d’origine con una dittatura. Si dirà, prendendo un esempio storico assai illustre, che l’antica Repubblica romana e poi anche quella imperiale erano sovraniste: una dittatura la quale dominava tutti i Paesi affacciati sul Mediterraneo e anche l’Inghilterra e tutta l’Africa centrale dall’Atlantico al Golfo arabico e fino al Mar Nero.

Ricordo l’esempio dell’antico stato romano, sia ai tempi della Repubblica e sia a quelli dell’Impero vero e proprio perché i romani avevano la cittadinanza che poi fu estesa agli italici e infine a tutti quelli che abitavano regioni dominate da Roma. Il civis romanus coincideva ormai con i confini dell’Impero. Naturalmente chi guidava la Repubblica era il Senato e il popolo (Senatus Populusque) e poi, quando l’Impero sostituì Repubblica il potere era nelle mani dell’imperatore cui il Senato offriva un personale di governo che l’imperatore usava almeno in parte dislocando i suoi aiutanti nei vari settori dell’Impero.

Roma dunque fu l’esempio mastodontico del sovranismo ma quando l’Impero decadde e infine cadde, il sovranismo scomparve: l’Italia fu ridotta in mille pezzi, ognuno dei quali era nelle mani del feudatario locale o addirittura di tribù che giravano l’intera Europa e diventavano padroni di alcuni pezzi di essa. Così fecero i Goti, i Visigoti, gli Ostrogoti, i Franchi, i Vandali, gli Unni e così via. Queste tribù, che in parte diventarono popoli, conservarono per qualche tempo la loro mobilità ma poi occuparono singoli territori e ne fecero i loro feudi o addirittura regni. L’Europa cioè diventò una sorta di tappezzeria multicolore e ciascun colore rappresentava un feudo o un regno che talvolta aveva un’estensione tale da attribuirci il nome di Impero.

Questi regni naturalmente o feudi si presero pezzi d’Italia e la dominarono. Non erano sempre gli stessi: a volte erano Spagnoli, a volte Austriaci o Franchi o Normanni o famiglie nobili locali o capitani di ventura che davano un contenuto politico dopo aver affidato i loro servizi ai padroni che alla fine sostituivano con se stessi.

Questa storia dell’Europa è ben nota e la ricordo per spiegare il più chiaramente possibile cos’è il sovranismo che oggi molti partiti europei di varia nazionalità rivendicano. Tra quelli che ne fanno addirittura la propria insegna uno dei più forti è la Lega di Matteo Salvini.

Il sovranista che la guida mira decisamente a costruire a proprio vantaggio la dittatura italiana. Attualmente è vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, ma questo ormai è niente per lui. Lui, sovranista in Europa, tende a diventare dittatore in Italia e poiché l’Italia è una penisola al centro del Mediterraneo, una dittatura italiana diventa automaticamente una presenza sovranista al centro del Mediterraneo, alla quale si appoggerà Putin che è molto interessato a estendere il potere russo utilizzando un alleato che di fatto da lui dipenda. Il nostro futuro, se Salvini avrà la forza di trasformarsi in dittatore italiano, è dunque questo: una forte dittatura al servizio dell’Impero russo. Non c’è da stare allegri.

Gli avversari di Salvini sono sostanzialmente due: il Movimento 5 Stelle guidato da Luigi Di Maio e il Partito democratico guidato da Nicola Zingaretti. Ce la faranno a fermare i progetti di Salvini?

Allo stato dei fatti la tentazione dittatoriale è tuttavia ancora piuttosto lontana: i sondaggi danno la Lega attorno al 32-35 per cento dell’elettorato, ma arriva molto più in alto se si considerano gli alleati che in teoria sono Forza Italia di Silvio Berlusconi, Fratelli d’Italia dei Giorgia Meloni e infine i 5 Stelle di Di Maio. Quest’ultimo, pur essendo in calo nelle previsioni elettorali dovrebbe e vorrebbe mantenere almeno il 25 per cento. Se queste alleanze fossero tutte fedelmente strette intorno a Salvini, il blocco non sarebbe molto distante dal 70 per cento del flusso elettorale nelle elezioni della prossima settimana.

Si è però verificata negli ultimi due mesi una novità e cioè l’effettivo distacco dei 5 Stelle dal blocco di Salvini e una tendenza di Di Maio a spostare la propria collocazione politica verso la sinistra italiana. Non è un obiettivo facilmente raggiungibile: la sinistra democratica italiana per poter considerare tranquillamente un’eventuale alleanza con i 5 Stelle dovrebbe arrivare in vicinanza del 30 per cento: obiettivo che allo stato dei fatti sembra ancora assai improbabile. Del resto, quand’anche il Pd facesse un salto in alto di quelle proporzioni, l’alleanza con i 5 Stelle non fa parte della sua strategia: i cinquestelle discendono dal grillismo e quindi sono un movimento-partito di natura populista: il contrario dell’aspirazione e della storia del Pd del quale abbiamo ricordato le origini nella prima parte di quest’articolo, ricordando le origini berlingueriane della socialdemocrazia della sinistra italiana. Zingaretti dispone per sua fortuna di un gruppo dirigente ampiamente notevole, a cominciare da Paolo Gentiloni, passando anche per personalità di massimo rilievo come Walter Veltroni e Romano Prodi. Se questo gruppo si ricordasse di Berlinguer sarebbe perfettamente in linea con la propria storia: Berlinguer e La Malfa, Altiero Spinelli e il Manifesto di Ventotene: questo è il patrimonio culturale e politico della sinistra italiana ed europea ed è in quest’ambito che dovrebbe rinascere il perno della democrazia.

Non si può contare sul partito vero e proprio ma anche su un movimento che si va addensando intorno al partito: distinto da esso ma convergente sugli stessi obiettivi politici. Partito e Movimento: affiancati, ma distinti. Questa non è una debolezza, ma una forza perché un partito deve agire nei modi appropriati per conservare la simpatia politica del movimento, recuperando quelli che andarono nei 5 Stelle o si astennero dal voto dopo la batosta di Renzi nel referendum costituzionale del 2016.

Queste sono le ipotesi che ci aspettano e ne avremo una prova importante anche se non definitiva alle prossime elezioni europee.

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