+++ Federico Petroni :: UN EURONUCLEO PER L’ITALIA. È ora di smettere l’europeismo d’anticamera: la Commissione non è il regista dell’Ue. Serve un’asimmetrica rete di relazioni privilegiate a geometria variabile con Francia e Germania, giocando sulle loro contraddizioni. Il Mediterraneo è nostra massima responsabilità. LIMES ONLINE, 6 APRILE 2021

 

 

LIMES ONLINE, 6 APRILE 2021

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UN EURONUCLEO PER L’ITALIA

 

 

Carta di Laura Canali - 2021

Carta di Laura Canali – 2021

 

 6/04/2021

È ora di smettere l’europeismo d’anticamera: la Commissione non è il regista dell’Ue. Serve un’asimmetrica rete di relazioni privilegiate a geometria variabile con Francia e Germania, giocando sulle loro contraddizioni. Il Mediterraneo è nostra massima responsabilità.

 

di Federico Petroni

 

Pubblicato in: A CHE CI SERVE DRAGHI – n°3 – 2021
ECONOMIA, EURO, UE

1. La lentezza della campagna vaccinale ha messo a nudo la fallacia delle convinzioni più radicate in Italia sull’Unione Europea. Su tutte, l’idea che esista un’Europa (Leuropa) soggetto della politica internazionale. Dunque da incolpare per i ritardi nell’approvvigionamento dei farmaci. Così gli euroscettici si confermano nella certezza che da Bruxelles vengano soltanto problemi e una parte degli euroentusiasti fa mea culpa parlando di totale fallimento dell’attore nel quale riponeva mirabolanti speranze.

 

In realtà si guarda il dito mentre questo punta la luna. Con le case farmaceutiche, i negoziatori dell’Ue hanno certo stipulato contratti poco cogenti rispetto a quelli strappati da altri paesi. Ma il motivo non va cercato nella loro ingenuità liberoscambista o nella loro burocratica acribia. Quella ai vaccini è una corsa a risorse scarse e urgenti. Nella quale gli Stati sfoggiano o scontano le proprie condizioni strategiche. E in cui pesano i vigenti rapporti di forza.

 

Gli Stati Uniti, per esempio, sono in netto vantaggio perché hanno attinto alla loro impareggiata profondità imperiale. Hanno impiegato la loro vasta disponibilità finanziaria per ricoprire di dollari le aziende prima ancora di sapere se i loro farmaci funzionassero (investimento non convenzionale in ricerca e sviluppo)

1. Hanno usato l’Occidente per appropriarsi di una filiera produttiva assai ramificata, a volte anche di brevetti altrui, come il vaccino dell’olandese Janssen finito a Johnson & Johnson o le tecnologie della tedesca BioNTech consorziate con Pfizer. Hanno sfruttato l’attrattività del loro mercato, abituato a riconoscere remunerazioni più generose, e la superiore capacità d’imporsi delle loro leggi per costringere le case farmaceutiche a dare priorità alle forniture americane.

 

Allo stesso modo, la campagna di Pechino e Mosca per distribuire i vaccini nel mondo è patente della loro inferiorità, anziché della loro scaltrezza.

I rivali di Washington traducono in ambito sanitario le proprie lacune strategiche. Difettando, i russi più dei cinesi, di tecnologie, capacità manifatturiere e amicizie comparabili a quelle nella disponibilità americana, hanno semplicemente prodotto assai meno vaccini dei loro concorrenti

2. Sono così costretti a usarli come strumento diplomatico per trovare chi li confezioni per loro, dalla Corea del Sud al Brasile, passando per l’India o gli Emirati.

 

Anche il continente europeo rivela molto di sé, in particolare della sua subalternità all’egemone mondiale.

 

I principali membri occidentali dell’Ue – Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi – si erano inizialmente mossi fra loro, nell’estemporanea Inclusive Vaccine Alliance, al di fuori della Commissione europea. E con l’aggiunta della Spagna avrebbero pure avuto le capacità industriali per soddisfare il proprio fabbisogno interno iniziale. Ma non avevano brevetti autoctoni. Non potevano imporsi sulla filiera produttiva o sulle aziende proprietarie – lo si vede nella ritrosia della Commissione ad applicare il potere di bloccare le esportazioni, nel timore d’incappare nella scure americana.

E non potevano lasciare sola la metà orientale del continente, in particolare Berlino: troppo alto il rischio di vedersi scollare in faccia la sfera d’influenza geoeconomica se nessuno avesse immunizzato l’Est o peggio se si fosse lasciato libero il campo a russi e cinesi. Non potevano nemmeno loro stessi rivolgersi a Mosca e Pechino, per non adirare Washington a cui stanno già cercando di far digerire pillole ben più amare, da Nord Stream 2 ai legami commerciali e d’investimento con la Repubblica Popolare.

 

Oltre a diluire la già scarsa quantità di dosi, l’Europa orientale ha pesato in un altro modo: i negoziatori hanno dovuto contrattare al ribasso sul prezzo con le case farmaceutiche, nell’impossibilità di gravare sulle casse dei bulgari o dei lettoni 3. L’assenza di un membro più facoltoso disposto a pagare di tasca propria per il benessere dei membri più deboli dell’Unione è una costante dell’incompiutezza geopolitica di questo spazio.

Il fallimento dell’Ue sui vaccini era ed è inscritto in fattori strategici preliminari.

 

2. Di queste motivazioni, la nostra opinione pubblica è all’oscuro, divisa com’è fra europeisti di maniera e nazionalisti ingenui (sovranisti) secondo cui l’Unione sarebbe rispettivamente soluzione e causa dei nostri mali. Tale strabismo ha radici profonde. Gli italiani hanno riposto aspettative enormi nel progetto di integrare il continente, nella speranza che ci salvasse da noi stessi, dalle carenze del nostro Stato, dal venir meno dei punti di riferimento della guerra fredda. Per poi piombare in una rancorosa disillusione. Per rendersene conto, basta scorrere le pubblicazioni dell’Eurobarometro 4, che dal 1974 prende la temperatura alle opinioni pubbliche dei membri prima della Cee e poi dell’Ue.

 

L’europeismo in Italia volava alto mentre la Prima Repubblica crollava, i vecchi partiti sparivano e veniva introdotto l’euro. La crisi del debito del 2011 gli ha sciolto le ali. E da lì non si è mai più ripreso. Nel 1983, il 70% degli intervistati riteneva cosa buona appartenere alle istituzioni comunitarie. Nel 1993, il 68%. Nel 2002, il 69%. Nel 2020, solo il 39%, 24 punti percentuali sotto la media, il peggiore fra gli Stati membri.

 

Simile l’andamento per la fiducia nell’Ue: ne aveva il 62% nel 2002, il 22% nel 2012, il 28% nel 2020. A inizio millennio eravamo i più fiduciosi dopo il Portogallo, 16 punti sopra la media. Oggi siamo i più sfiduciati, 15 punti sotto.

Lo stesso vale per l’immagine dell’Ue: positiva per il 72% degli italiani nel 2002, primi con 23 punti sopra la media, per il 49% nel 2011 e per il 43% nel 2020. Nell’ultimo decennio la forbice non si è tanto allargata. Ma attenzione: dieci anni fa eravamo ancora quarti con dieci punti sopra la media, oggi quintultimi, sette punti sotto. Gli altri paesi hanno mantenuto una visione sobria dell’Ue. È nei nostri occhi che la luce si è spenta.

 

Interessante osservare una controtendenza nei dati del più recente Eurobarometro 5 (carta 1). L’Italia è l’unico paese assieme a Romania e Bulgariain cui chi ha un’immagine positiva dell’Ue è più numeroso di chi approva l’appartenervi. Sarebbe più normale il contrario, averne un’idea distaccata ma trovarla funzionale ai propri fini strategici. Così per esempio solo il 60% dei tedeschi ne ha una buona opinione, ma l’81% la ritiene vantaggiosa perché è il mantello di cui Berlino veste la propria influenza sul continente. Così l’87% degli irlandesi ne apprezza i benefici perché in questi decenni tramite l’Ue Dublino ha materialmente avvicinato la riunificazione dell’isola. E così il 79% degli olandesi ne è soddisfatto contro un mero 52% di opinioni positive perché, a dispetto del dolore di convivere con le «cicale» del Sud, è la piattaforma perfetta per il mercantilismo neerlandese e per agganciare la Germania senza finirci dentro. A noi invece l’Unione Europea continua a piacere più di quanto ci sia utile.

Non ci è utile perché evidentemente in essa non abbiamo trovato ciò che cercavamo, ossia colmare il deficit di statualità o, per essere schietti, sottrarci alla nostra inaffidabilità.

Più di tanti altri membri siamo convinti che l’Unione ci dia maggior peso nel mondo, che continuiamo a indicare fra i tre principali benefici dell’adesione. E ne siamo convinti perché nel nostro paese non ci sentiamo ascoltati – si ritiene tale poco più di un terzo degli italiani, contro il 60% dei francesi e l’81% dei tedeschi. E perché non ci fidiamo del nostro governo – la percentuale di chi ci crede è invariata rispetto a vent’anni fa (29%). Ma non perché pensiamo che l’Italia conti nell’Ue – anche qui la percentuale di chi ritiene che i nostri interessi pesino è bassa e sostanzialmente invariata rispetto al 2003 (35% contro 34%). Segno che, negli anni d’oro dell’europeismo, non ci curavamo poi più di tanto di far sentire la nostra voce. Cercavamo solo qualcuno che ci dicesse cosa fare. E forse anche chi essere: nel 1993, l’anno successivo al trattato di Maastricht, il 70% degli italiani dichiarava che a breve avrebbe sviluppato un’identità anche o solo europea, record fra gli allora 12 membri.

Carta di Laura Canali - 2021Carta di Laura Canali – 2021

 

L’europeismo come antidoto allo spaesamento. Lo si evince da un’altra preziosa ricerca, quella condotta da Ipsos per le fondazioni Jean Jaurès e Friedrich Ebert sulle definizioni di sovranitàin otto nazioni: Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia, Polonia, Lettonia e Romania 6. Il nostro paese ha un’idea lunare di questo termine. Solo il 21% degli italiani lo considera positivo, contro il 73% dei tedeschi. Il 53% lo percepisce desueto, contro il 9%. La metà dei nostri connazionali lo ritiene politicizzato, perlopiù di destra. Viene associato al nazionalismo, alla potenza, al protezionismo. Mentre i tedeschi lo associano a indipendenza, autodeterminazione e libertà. Quando dicono sovranità gli italiani intendono chiaramente un’altra cosa rispetto alla Germania. Ciò non impedisce loro di sognare un suo sbocciare nell’Unione: benché il 56% ritenga la «sovranità europea» una contraddizione in termini, quasi lo stesso numero (60%) desidera rafforzarla. Primo motivo: aumentare il peso internazionale del nostro paese, indicato dal 39%, 12 punti più della media e 20 più dei tedeschi.

 

Questa carrellata di dati ci restituisce un paese senza fiducia in sé e nel proprio Stato, addirittura inorridito dal suo attributo principale, la sovranità. Incapace dunque di elaborare da solo ciò che vuole, forse nemmeno interessato a farlo. E, per fraintendimento economicistico e post-storico, portato a vedere nel superamento del nostro Stato un’àncora di salvezza. Nell’ingenua convinzione che l’ambiente internazionale sia cherubico, il conflitto abolito. Salvo ridurci a ventriloqui di altri, incapaci di usare l’Ue, di spendere i soldi che arrivano tramite essa, di incidere sui meccanismi decisionali (la qualità del personale è talmente scaduta che i lobbisti si rivolgono a parlamentari stranieri per rappresentare i loro clienti italiani). Così, scoperta la siderale distanza tra sogno e realtà, precipitiamo dalle vette più liriche dell’euroentusiasmo agli orridi della delusione più cocente. Incapaci di cogliere la via di mezzo.

 

È esattamente la stessa tendenza a saltare alle conclusioni tipica del modo in cui guardiamo lo scontro Cina-Stati Uniti e il nostro posto in esso.

Convinti che gli americani siano ormai all’ultima scena, i cinesi in imminente sorpasso e la Nato roba da rigattieri. Dunque che stia al nostro libero arbitrio scegliere da che parte stare, quando invece siamo meccanismo non così secondario del campo americano. Attitudine a saltare sul carro di chi crediamo vincente che ci è già costata una sconfitta nella seconda guerra mondiale. E in tutto antitetica al ragionamento geopolitico, che invece consiste nello scegliere cosa fare dopo aver individuato i vincoli a cui siamo sottoposti. Se li ignoriamo, illudendoci di non averne tanto in Europa quanto con gli Stati Uniti, rischiamo che ci strozzino.

 

3. Il ritardo sui vaccini, abbinato alla nostra disillusione, può generare una spinta popolare a staccare la spina all’Unione Europea? Difficile, ma non per questo l’europeismo in Italia è salvo. Quest’anno virato insegna che le falle sanitarie fanno crollare rapidamente i consensi e altrettanto rapidamente sono dimenticate: a inizio 2020 la fiducia nell’Ue è andata in picchiata, tempo l’autunno è risalita dell’11% 7. Sono semmai i tracolli finanziari, come quello del 2011, a lasciare cicatrici indelebili nell’eurosentimento. È esattamente la posta in gioco in questo momento.

 

Si dice spesso che Mario Draghi deve ridare credibilità all’Italia. Con ciò s’intende che la sua missione è convincere il mondo che il nostro paese ha ancora le capacità umane per salvarsi dalla bancarotta. Per gestire cioè in molto relativa autonomia risorse non nostre (soldi del Recovery, vaccini) ma che ci vengono elargite nella sincera speranza di vederci risollevati, scongiurando l’incubo di affossare con noi l’euro, il mercato unico e compagnia bella.

 

Se riesce, la missione di Draghi diventa salvare per davvero l’Italia. Se fallisce, il paese potrebbe seriamente essere commissariato. Lì sì che sarebbe eterodiretto. Con o senza la trojka non è il punto: perderemmo ogni margine di manovra. Terreno fertile affinché l’eurodelusione sprigioni una ventata di nazionalismo, con forte tendenza al ripiego su noi stessi, a disconnetterci da tutto e tutti. Non è stato concesso alla Grecia, figurarsi se sarebbe concesso a noi, una penisola da 59 milioni di abitanti, avamposto militare americano, dotata di migliaia di chilometri di coste vocate a connettersi alle piane europee settentrionali, impreziosita da un marchio sbiadito ma di comprovato fascino, oltre che di nicchie sempre più nicchie ma ancora preziose.

 

Semmai, un governo nazionalista brandirebbe, qualcuno credendoci e qualcuno no, la minaccia di uscire dall’euro per provare a strappare le concessioni che già tutti i più recenti esecutivi, chi più chi meno, hanno richiesto ai nostri soci europei. Su tutte, l’allentamento del rigore fiscale. E avrebbe anche chance relativamente buone di ottenere l’orecchio di una Germania disposta a (quasi) tutto, a cominciare dal diluire il più possibile i negoziati, pur di non perdere mercati su cui scaricare il proprio surplus produttivo. L’ascesa del cosiddetto sovranismo in Italia potrebbe non avere un effetto letale sull’Unione Europea, causa drammatica mancanza per Roma di concrete opzioni oltre a quella di far saltare tutto premendo il tasto rosso.

 

Ne avrebbe certo meno di una simultanea ascesa in Francia di un governo nazionalista, con Marine Le Pen all’Eliseo. Anche le eventuali richieste di una Parigi lepeniste sarebbero grossomodo quelle attuali di rivedere il Patto di stabilità, che l’Esagono condivide con lo Stivale. Solo sarebbero espresse con più virulenza e condite con fastidiose, per Berlino e la bolla brussellese, uscite in favore di un maggiore conservatorismo sociale e di uno smantellamento dei vincoli sullo Stato di diritto. In quel caso per i tedeschi si aprirebbe il baratro: perdere la metà francese della coppia con cui dal dopoguerra si autoconvincono di essere buoni comporterebbe trincerarsi in un euronucleo (Kerneuropa), a quel punto conclamato bersaglio di rappresaglie americane sciolte da ogni pudore. Tutto sommato, alla Germania conviene prestare ascolto ora a Draghi e Macron per non trovarsi a trattare le stesse cose con i «populisti» tanto invisi in patria.

Carta di Laura Canali - 2021Carta di Laura Canali – 2021

 

4. Sbrigato subito lo scenario negativo, volgiamoci a quello positivo, che è anche quello attuale. Se la missione di Draghi riesce, adempiere a quella più difficile di salvare nel concreto l’Italia impone di liberarci dell’europeismo d’anticamera. Con esso intendendo la tendenza a esaurire il nostro operato nelle istituzioni formali brussellesi, attendendo di fatto di ascoltare decisioni prese altrove e di cui non resta che dare una limata qua e là. In buona sostanza, l’abitudine a ridurre l’Europa all’Unione Europea.

 

Un europeismo consapevole consiste invece di tre pilastri: a) riconoscere nell’Ue non un attore bensì il palcoscenico decisivo su cui competere, trattare, accordarsi, confliggere, dotato di regole che noi contribuiamo a scrivere (e a infrangere, se necessario a cambiarle); b) contribuire a tenere in relativo ordine le strutture attraverso cui gli Stati Uniti mantengono un controllo sempre meno diretto e sempre più reattivo sulla loro sfera d’influenza più preziosa, armonizzando le loro priorità strategiche e le nostre necessità; c) costruire il nostro euronucleo fra i paesi per noi più pertinenti a cui chiedere e dare voce.

 

Da dove partire? Iniziare dalla a) vuol dire cambiare narrazione e pedagogia sull’Europa. Inutile la prima, troppo lunga la seconda. La narrazione poi è sempre il prodotto della realtà, non il contrario. Non è raccontando meglio l’Ue che si migliorerà l’italica fiducia in essa. L’immagine dell’Unione in Italia dipenderà dalla misura in cui riusciremo a modificare le sue regole e a dar forma a rapporti attraverso cui far valere le nostre richieste.

 

Logica vorrebbe di partire dalla b) perché opzione più sistemica, ma al momento è fuori dalla nostra portata causa emergenza sanitaria e limitatezza di risorse, buona al massimo per rovesciarla in obamiano prestito don’t do stupid things (in prosa: non aprire a russi e cinesi), comunque non del tutto inutile visti i recenti scivoloni sulle vie della seta.

 

Resta la c). Per un paese di taglia media come il nostro un euronucleo non è una sfera d’influenza. È variabile geometria di rapporti strutturati con potenze di rango superiore o comparabile (Francia, Germania, Spagna) e di alleanze da coltivare con membri o candidati di rango inferiore che si affacciano sul Mediterraneo. Può sembrare paradossale, ma al momento il nostro paese non ha né gli uni né le altre. Non ha un circolo ristretto di relazioni privilegiate con la Francia (apposta per questo stiamo negoziando il trattato del Quirinale), la Germania (le classi dirigenti non si parlano più salvo attraverso le rispettive Confindustrie) e la Spagna (silencio).

E non rappresenta nessuno, mentre dovrebbe spendersi di più per integrare i Balcani a cominciare da quelli affacciati sull’Adriatico e contrastare la penetrazione russo-turco-cinese, per avvicinare Malta, per parlare a nome di Portogallo, Grecia e Cipro, poco avvezze alle mai sopite voglie d’impero latino di Parigi.

 

 

Carta di Laura Canali - 2021Carta di Laura Canali – 2021

 

5. Si diceva che lo scenario positivo coincide con quello attuale. Perché nel caso in cui il primo compito di Draghi vada in porto, il suo governo proseguirà sulla china già intrapresa. Il presidente del Consiglio ha iniziato ricordando con la dovuta enfasi che «senza l’Italia non c’è l’Europa», appena prima di enunciare la volontà di «meglio strutturare» i rapporti con Parigi e Berlino e di chiamare a raccolta i paesi mediterranei, a cominciare dalla Spagna 8. I primi passi del suo esecutivo contengono tracce di tutto ciò, com’è evidente dagli opportunistici attacchi ad AstraZeneca e dagli ammiccamenti al vaccino russo, sempre concertati con tedeschi, francesi e spagnoli 9. Oppure dal rispolverato e già citato trattato del Quirinale con cui dare profondità e consuetudine alle relazioni con la Francia.

 

Per approfondirli, occorre tenere ferma la barra sulle seguenti priorità.

 

Primo, ottenere le risorse finanziarie necessarie a tenere a galla e poi rilanciare il paese.

Ciò comporta prolungare e rimpolpare il fondo di ripresa economica approvato dall’Ue, dotarsi di nuovi strumenti per raccogliere denaro dai mercati (nuovi eurobond) e soprattutto riformare il Patto di stabilità affinché si possa iniziare a spendere soldi nostri, senza continuamente farseli prestare. In sostanza, chiedere più denaro e meno controlli alla Germania. Interesse che evidentemente ci accosta alla Francia, dove già da tempo si strombazza la necessità di superare i troppo stretti parametri di Maastricht. E pure agli Stati Uniti, i quali in questi anni stanno provando di tutto per spingere la Germania fuori dalla sua zona di conforto. Trump voleva farlo ritirando le truppe per mettere Berlino a disagio in ambito militare. Biden sembra volerlo fare costringendola a spendere per la ripresa europea, mettendola a disagio in ambito fiscale, certa della reazione avversa dell’opinione pubblica. I tedeschi sono già sul piede di guerra, come segnala il blocco della Corte costituzionale alla legge che approva il Recovery Fund nazionale.

 

Secondo, possiamo offrire in cambio qualcosa alla Germania che sia anche nel nostro interesse: oltre a non far saltare per aria l’euro, possiamo giocarci la reindustrializzazione del paese. Berlino non ha ovviamente interesse a coltivare concorrenti. Ma a tenere in piedi la filiera produttiva sì. Sono anni di transizione per l’industria teutonica, in particolare per l’automobile. Ha bisogno che anche la manifattura del Nord Italia si adegui, per esempio investendo nelle batterie elettriche, settore di cui vantiamo già un terzo degli operatori di punta a livello continentale. Oltre che essere nella nostra convenienza pecuniaria, sincronizzare l’evoluzione della nostra industria a quella tedesca ci è utile pure da un punto di vista strategico. Le intrinsechezze con la Germania sono servite a convincerla a indebitarsi per noi.

 

Terzo, e di conseguenza, non dobbiamo cancellare la dipendenza della nostra manifattura da quella renano-bavarese ma limitarla. Anche qui con l’apporto francese. Di cui resistere gli intenti di far preda dei nostri gioielli. Ma di cui sfruttare l’interesse a creare circuiti industriali continentali il più possibile autonomi. Sono già partiti quattro cantieri sui vaccini, sull’idrogeno, sull’aerospazio (con anche un progetto a tre con la Germania per lanciatori spaziali europei) e soprattutto sui semiconduttori, ampliando il raggio dell’italo-francese StMicroelectronics, con il suo impianto di Catania. La partita dei microchip s’inserisce in quella più ampia fra Stati Uniti e Cina per impedire alla seconda di colmare il divario tecnologico che la separa dalla superpotenza. È dunque possibile presentarla come compatibile con gli sforzi dell’amministrazione Biden per filiere produttive a prova di cinese.

 

Quarto, occorre riformare il mercato unico. Così com’è non ci è funzionale, anzi sfilaccia la coesione nazionale. Certo, ci consente di scaricare all’estero il nostro surplus produttivo, ma sempre meno (l’Italia è con la Francia ultima nell’Ue per quota di pil esportata) e soprattutto il meccanismo deflattivo alla base del funzionamento dell’Ue ci penalizza. Lasciandolo intatto o peggio approfondendolo come vorrebbero i fanatici nordici del libero scambio rischiamo di avere un Nord sempre più connesso al Reno ma sempre più avulso dal suo primo mercato, il Sud.

Bisogna sfruttare l’appello a filiere produttive più corte per creare circuiti subeuropei che valorizzino le eccellenze locali invece di appiattirli in un’unica macedonia insapore.

 

Quinto, e più in generale, occorre attirare verso sud francesi e tedeschi. Con tre priorità subalterne: riallacciare il Mezzogiorno al continente, occuparci dei nostri mari, contribuire a sedare le crisi mediterranee. Arginare o al massimo redistribuire i migranti non può essere l’unico orizzonte, anche perché presto parte di essi ci servirà per controbilanciare il drammatico calo demografico. Né il Meridione può essere un mero cuscinetto contro l’instabilità. I porti del Sud vanno elevati a progetti di rilievo europeo, se serve con l’inserimento di operatori tedeschi. Con i francesi è ora di stendere un’agenda di cooperazione navale sulla sicurezza delle rotte mediterranee, facendosene appaltare una parte dagli americani con il contributo finanziario della Germania.

 

Necessariamente più sobri sono gli obiettivi per la Libia e il Levante. La divergenza di vedute è troppo profonda, in particolare la faglia fra Parigi e Roma-Berlino sulla Turchia, utile mostro per la prima per rientrare nel Mediterraneo, can che dorme da non destare per le seconde. Senza contare che il ruolo da assegnare ad Ankara lo decidono la stessa Ankara e Washington a seconda dell’intensità della penetrazione russa nel mare nostrum. Ma la triangolazione con Francia e Germania non è una bacchetta magica. Nessuna delle due ci accorderà pari rango. Parigi non smetterà di provare a estrometterci dalla Libia (al massimo si concederà una pausa). E Berlino continuerà a rifiutare d’indebitarsi per conto nostro. È un’iniziativa fondamentalmente tattica. Ma quando si raschia il barile, tattica e strategia tendono a coincidere.

Note:

1. O. Khazan, «The One Area Where the U.S. COVID-19 Strategy Seems to Be Working», The Atlantic, 22/2/2021.

2. A.E. Kramer, «Russia Trumpets Vaccine Exports, While Quietly Importing Doses», The New York Times, 28/3/2021.

3. J. Deutsch, S. Wheaton, «How Europe fell behind on vaccines», Politico, 27/1/2021.

4. L’archivio delle edizioni annuali è disponibile all’indirizzo bit.ly/3lXYPAV

5. «A Glimpse of Certainty in Uncertain Times», Eurobarometer Survey 94.2, febbraio 2021.

6. «Enquête sur la souveraineté européenne», Fondation Jean Jaurès, 1/3/2021.

7. Cfr. Eurobarometer Survey 94.2, cit., p. 65.

8. Cfr. la trascrizione del discorso al Senato del 17/2/2021 all’indirizzo bit.ly/2PjSyTA

9. E. Cunningham, «Four of Europe’s largest countries suspend AstraZeneca vaccinations; safety agency says blood clot incidence is low», The Washington Post, 16/3/2021; «Sputnik V: Russia announces more deals to produce its vaccine in the European Union», Euronews, 15/3/2021.

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  1. i. scrive:

    Molto approfondito questo studio, che ci dà un’idea più vera e realistica di Europa.

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