27 maggio 2013 ore 09:22 IO, DAVIDE, GAY, 17 ANNI/ IO, CHIARA, MATTA, 69 / IO FRANCISCO, 25, BRASILIANO, “TUTTI INSIEME CHIEDIAMO SOLO DI ESISTERE”. CHIARA TENTA UNA SPECIE DI RISPOSTA A DAVIDE CONVINTA CHE: “NON CI SARA’ PACE PER I GAY NELLA VITA QUOTIDIANA, QUANDO INCONTRI IL VICINO, IL NEGOZIANTE…- ANCHE RICONOSCIUTE TUTTE LE LEGGI – SE NON AVVIENE UN MOVIMENTO DI LIBERAZIONE PER I DIVERSI (E – INSIEME- PER I NON-DIVERSI) CHE IMPONGA LA DIGNITA’ E LA RICCHEZZA VITALE DI OGNUNO IN QUANTO UNICO. UN SERVIZIO ALLA COMUNITA’ COME LA TANTO CONCLAMATA “BIODIVERSITA’ “—PERCHE’ PER GLI UMANI NO?

Io, gay a 17 anni chiedo solo di esistere


  • di DAVIDE TANCREDI

CARO direttore, questa lettera è, forse, la mia unica alternativa al suicidio. Ciò che mi ha spinto a scrivere è la notizia di un gesto avvenuto nella cattedrale parigina. Un uomo, un esponente di destra, si è tolto la vita in modo eclatante sugli scalini della famosa chiesa per manifestare il proprio disappunto contro la legge per i matrimoni gay deliberata dall’Assemblea Nazionale francese.

Nonostante gli insegnamenti dalla morale cristiana, io ritengo che il suicidio sia un gesto rispettabile: una persona che arriva a privarsi del bene più prezioso in nome di una cosa in cui crede, merita molta stima e riguardo; ma neppure questa considerazione riesce a posizionare sotto una luce favorevole quello che mi appare come il gesto vano di un folle. La vita degli altri continua anche dopo la fine della nostra. Siamo destinati a scomparire, anche se abbiamo riscritto i libri di storia. Morire per opporsi all’evolversi di una società che tenta di diventare più civile è ottusità e evidente sopravvalutazione delle proprie forze.

Il Parlamento italiano riscontrando l’epico passo del suo omologo d’oltralpe ha subito dichiarato di mettersi in linea per i diritti di tutti. Una promessa ben più vana del gesto di un folle. Tutti sappiamo come il nostro Paese sia l’ultimo della classe e che non ci tenga ad apparire come il più progressista. Si accontenta di imitare o, peggio ancora, finge di farlo. La cultura italiana rabbrividisce al pensiero che due persone dello stesso sesso possano amarsi: perché è contro natura, perché è contro i precetti religiosi o semplicemente perché è odio abbastanza stupido da poter essere italiano. Spesso ci si dimentica che il riconoscimento dei matrimoni omosessuali non significa necessariamente affidare a una coppia “anormale” dei bambini ma permettere a due individui che si vogliono bene di amarsi. In questo consiste il matrimonio, soprattutto nella mentalità cattolica. E allora perché quest’ostinata battaglia?

Io sono gay, ho 17 anni e questa lettera è la mia ultima alternativa al suicidio in una società troglodita, in un mondo che non mi accetta sebbene io sia nato così. Il vero coraggio non è suicidarsi alla soglia degli ottanta anni ma sopravvivere all’adolescenza con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti, senza vizi o depravazioni. Non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali. Se ci fosse un po’ meno discriminazione e un po’ più di commiserazione o carità cristiana, tutti coloro che odiano smetterebbero di farlo perché loro, per qualche sconosciuta e ingiusta volontà divina, sono stati fortunati. Io non chiedo che il Parlamento si decida a redigere una legge per i matrimoni gay  –  non sono così sconsiderato  –  chiedo solo di essere ascoltato.

Un Paese che si dice civile non può abbandonare dei pezzi di sé. Non può permettersi di vivere senza una legge contro l’omofobia, un male che spinge molti ragazzi a togliersi la vita per ritrovare quella libertà che hanno perduto nel momento in cui hanno respirato per la prima volta. Non c’è nessun orrore ad essere quello che si è, il vero difetto è vivere fingendosi diversi. Noi non siamo demoni, né siamo stati toccati dal Demonio mentre eravamo in fasce, siamo solo sfortunati partecipi di un destino volubile. Ma orgogliosi di esserlo. Chiediamo solo di esistere.

(25 maggio 2013)

 

 

 

Io, chiara, 69 anni, ex matta, chiedo solo di esistere (in corsivo le mie parole)

 

CARO direttore, questa lettera non è la mia unica alternativa al suicidio. Ciò che mi ha spinto a scrivere è la lettera di Davide (gay, 17 anni) al vostro giornale. Mi chiamo Chiara e non credo di essere gay, almeno non ho avuto l’occasione di verificarlo. Fino ad ora. Ho 69 anni, ma “non si sa mai cosa c’è dietro l’angolo”.

Nonostante gli insegnamenti dalla morale cristiana, anch’io ritengo che il suicidio sia un gesto rispettabile: una persona che arriva a privarsi del bene più prezioso in nome di una cosa in cui crede, merita molta stima e riguardo. Sono stata varie volte nella mia vita vicino al suicidio, non mi riesce perciò di credere che uno possa suicidarsi “per un ideale”, anche se lo ammetto possibile. Nella mia esperienza, mia e di altri (sono psicoanalista), uno si suicida “solo” in nome dell’istinto di sopravvivenza, si suicida perché brama la vita, “una vita possibile”, e perché quella che gli è stata destinata, invece, gli impedisce anche di respirare. Gli impedisce senz’altro di vivere “come persona”. Ma si adatta anche a vivere come cosa, su cui gli altri si arrogano il diritto di “manusearla” secondo i loro criteri e, soprattutto, “per il suo bene”.  Quante sevizie ho visto compiere sui malati mentali in nome di questo “ideale”.  E sui vecchi, gli handicappati, i bambini, sui “diversi” in genere. Ed è proprio con “questo è per il tuo bene”, con i commenti che l’accompagnano, che gli uomini distruggono – a coltelli appuntiti – quella povera immagine che noi siamo riusciti a costruirci dopo la malattia o altro. E, da brave formichine, ripartiamo ogni volta a raccogliere terra, un mucchietto che già ci fa sentire meglio al mondo, pur sapendo del prossimo assalto che la renderà sabbia. Credo che questa spinta a continue ricostruzioni sia innato nel mondo umano, almeno in quello abituato a lottare. Sì, io non sono gay, per ora, ma sono una malata mentale – ormai discretamente “ex”, pur sempre “vigile”- e anch’io quasi ogni giorno mi dico che “non posso vivere in una società così troglodita”, come la chiama Davide. A me, la societa’, che così spesso mi fa dire “non ce la faccio più”, è quella delle persone a me piu’ vicine, quelle, appunto, che con la prima crisi a 32 anni, mi hanno decretato (in tracce relativamente nascoste della loro mente) “interdetta” alle cose che contano (per loro), in primis ad occuparmi dei miei affari. Per troppe crisi susseguitesi, non ho potuto, con immenso dolore, farmi una vera professione, di quelle riconosciute dal popolo sia in stima che in quattrini (è lì che diventi “persona”), pur avendone tutte le competenze e i certificati. “Dimostrare”, prima di tutto a me stessa, e poi agli altri, il pubblico, di sapermi occupare di quanto mi compete, del lascito dei miei, sarebbe stato per me “un necessario riscatto”. Necessario a convivere con un’ immagine degna di me stessa, una specie di “attestato pubblico” che sono ragionevolmente risanata. Eh sì, Davide come Chiara. come qualunque altro “diverso”, giudicati tali prima di tutto dalla società, devono passare il tempo a “dimostrare” che “nonostante tutto”, vorrei dire: “nonostante tutti i loro peccati originali”, sono meritevoli di essere “riconosciuti” degni di vivere nella comunità.

Sempre per esperienza sulla mia pelle, non bla-bla, la comunità – ancor piu’ oggi / forse per i pericoli di ogni tipo che ci circondano – è “la comunità degli uguali”, ognuno uguale a stesso, voglio dire. Ognuno, al di là delle frasi da salotto settecentesco, come le chiamo io, delle chiacchiere in perfetta buona fede (questo lo vedo bene e rende tutto piu’ triste), è unico padrone della verità: l’altro è giusto in quanto più o meno riconosciuto simile a me stesso. E tu porti fatti e fatti per dire che quella persona non vale tanta stima, ma nessuno registra: quella persona si conforma alle regole generali del vivere in comune, in primis va in chiesa, si veste elegante, o comunque cerca di stare al passo col paesaggio, un tempo ha lavorato, si è tenuta un marito (per surreale che sembri, vale un punto), ha cresciuto un figlio di successo – e solo di questo si parla- e l’altro, che umanamente ne vale mille, è rimasto “un poveretto”, un altro dei tanti scarti della società. Ebbene,  questo bravo ragazzo,  il poveretto, se mai appare dal nulla nei pettegolezzi:  “Oh quanti problemi ha dato a sua madre questo figlio!”. Letterale. Del resto anch’io “ho rovinato la vita alla mia famiglia, e, per i più intimi, uno in particolare, continuo a farlo”.

Non so se vale per i gay, anche loro possono avere un parente che abbraccia la loro causa e li difende… “e li guida”, ma senz’altro avere un “qualunque minorato” in casa o nei dintorni, di cui prendersi cura, è, per chi lo fa, un autentico trionfo della  personalità, assicurata autostima nonché infinito diritto a farsi compiangere da chiunque. Diventi immediatamente qualcuno che ha una storia, una storia da chiacchierare: sei sempre tu il personaggio, mai il malato che soffre la malattia in prima persona. E hai anche la faccia di dire che chi soffre veramente sei tu, e non il malato. Così sarà per i genitori dei gay.  Certamente, specie in un paese piccolo come abito io, “le confessioni” sono  solo per gli intimi perché muori di vergogna, quel parente è un insulto all’ “onorata stirpe”. Ma, di intimo in intimo, come è successo a me, pur non avendo mostrato mai segnali in pubblico, tutti in città sanno che sono stata matta, anche i ragazzi di vent’anni che me lo riferiscono per chiedermi come è stato.
Non è facile mostrare il guadagno che “lo scarto” di turno porta ai cosiddetti normali:  un tempo ripetevo del felice giorno in cui gli handicappati (in genere) raggiungessero i supermercati e fossero comprabili a poco prezzo. Pensa la felicità di portati a casa qualcuno che ti fa sentire “sempre” utile, qualcuno che, anche se sei vecchio e i tuoi giovani ti snobbano, è costretto ad ascoltarti, a subire tutto quello che vuoi, tutto quello che ti serve per stare  in piedi, tutta la tua distruttività che la morale ti ha fatto ingoiare e che ora, l’occasione di far del bene, di permette di tirar fuori in tutta la sua gloria, e  senza alcun senso di colpa, anzi con la soddisfazione del bene compiuto! Lo “scarto” è sempre lì, non ti abbandona mai, neanche per odio (a meno che abbia “la disinibizione” di aggredirti fino ad ucciderti – e con tutte le ragioni: anche se, si capisce, sarebbe meglio non lo facesse, e prima di tutto per sé) perché la sua vita “dipende in modo assoluto” dalla tua. Un bambino puo’ scappare, uno scarto no, ha troppa paura, è puro panico,  troppo l’hanno convinto che da solo non puo’ sopravvivere, “non saprebbe neanche andare dal medico, né prendere le medicine” perché l’hai sempre fatto tu, invece di istruirlo a farlo da sé. So che non è facile aiutare un altro a ritrovare la sua autonomia, è difficilissimo anche con un bimbo, potresti magari informarti, sono cose che si apprendono, ma oso dire, e in entrambi i casi, che quello che perdi tu, sarebbe troppo. Dovresti scendere dal piedistallo in cui un piccolo, anche un animale, un poveretto qualsiasi, ti mettono (e di colpo, senza che tu debba fare “un lavoro”) perché, così insicuri come sono in questo mondo stralunato, hanno necessità di una figura idealizzata cui aggrapparsi per sopravvivere. E tu stai lì beato a contemplarti, “come sono bravo”. Senza contare che questo “narcisismo trionfante” ti aiuta nei rapporti di coppia, nel guardarti allo specchio,  sul lavoro…E gratis. Basta assoggettare uno “senza accorgersene”, quest’ultimo passaggio è decisivo. Ma la nostra mente ha tali trucchi e triucchetti per la nostra convenienza…

Hai ragione, caro Davide, a dire che “la cultura italiana rabbrividisce al pensiero che due persone dello stesso sesso possano amarsi: perché è contro natura, perché è contro i precetti religiosi o semplicemente perché è odio”, di cui ha bisogno – nella sua miseria-  per trovare una propria identità e una causa che dia significato alla sua vita. Così come è vero che “il riconoscimento dei matrimoni omosessuali non significa necessariamente affidare a una coppia “anormale” dei bambini ma permettere a due individui che si vogliono bene di amarsi” più completamente. E se richiedessimo, noi tutti insieme, noi diversi in modi vari, dei tests (fatti e decodificati dal cielo, però!) sulla “normalità” delle coppie che fanno o adottano un bambino?  Oh cosa non uscirebbe dalla mia “sola” bocca dopo tanti anni vissuti “dalla parte dei bambini”.

” E allora perché quest’ostinata battaglia?”, dici tu, Davide caro.

Non so darti una risposta, men che meno convincente. Ma credo che nasciamo, noi /nel nostro habitat, con un odio profondissimo per l’altro uomo che in qualche modo, anche piccolo, non ripeta noi stessi. Non solo abbiamo profondamente bisogno dell’identico, ma anche di qualcuno che possiamo catturare nel nostro perimetro, qualcuno che si addomestichi a noi: osserva solo come la maggioranza dei genitori cresce i bambini: mai sono considerati “una persona” e come tale “unica/ e diversa da te”—sì sì, a parole lo dicono “quasi” tutti…Hai già visto punire (o togliere l’affetto) alle loro ribellioni in cui vogliono manifestare il loro essere al mondo a pieno titolo come un cosiddetto adulto?

Hai già visto accudire dei malati mentali, dei vecchi, dei malati gravi?

Sei al corrente di tante situazioni di tortura in cui lavorano milioni di esseri umani, anche nel nostro paese?

Sai della vita che fanno gli immigrati, ti immagini la loro testa che dal Marocco o dal Bangladesh è precipitata nella nostra cosiddetta civiltà occidentale, in che stato di confusione emotiva e mentale deve essere? E come devono imparare ad essere servili, voglio dire che sulla loro identità devono applicarcene un’altra in cui si accodano ai nostri bisogni per loro totalmente incomprensibili? Vivono recitando, e molto bene; piu’ che recitando vivono “dissociati” con tutte le conseguenze che questo comporta sul loro sistema nervoso. Non faccio parte del gruppo di sinistra che li difende a spada tratta, sono più che convinta che situazioni rovinose portino al delitto, come del resto così dolorosamente dimostrano tanti italiani che hanno perso il lavoro, o la loro fabbrica, o anche la donna (qui taccio). Ho anzi conosciuto e frequento alcuni di questi esponenti della sinistra che, finché si tratta “di lontani” (immigrati, donne, gay e matti, animali magari no, ecc.) sembrano aver scritto di loro pugno i diritti degli uomini e dei cittadini, ma ahimé, quando è in gioco la loro specifica pelle…casca l’asino e tutta la civiltà!

” Il vero coraggio non è suicidarsi alla soglia degli ottanta anni ma sopravvivere all’adolescenza, e a tutta una vita, aggiungo, con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti, senza vizi o depravazioni”.

Qui, però, caro Davide, dissento con tutta me stessa quando affermi che “Non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali”. Mi piacerebbe farne una bandiera che dicesse : “Non a tutti è data la fortuna di non essere uguali agli altri!” Ma so che sarebbe troppo facile. Ti prendo ancora un po’ di tempo (mi sento già a disagio) dicendoti brevemente una cosa che avrebbe bisogno di più sereno parlare: quando sono ammattita, molto prima dei 32 anni, ci sono state molte “prove”, come puoi forse immaginare, ho sentito violentemente intorno a me quello che una volta si chiamava “lo stigma”, un segno pubblico di rifiuto che gli uomini applicano da sempre ai diversi, addirittura chiudendoli in quartieri, in cittadelle simili a galere, o in vere e proprie galere. Dopo tanti anni di analisi e autoanalisi, e le medicine, non immagini il mio stupore quando mi sono accorta che, questo stigma, ero stata prima di tutto io che me lo ero appiccicato. Ero io che, prima di tutti, io che accompagnavo Basaglia ecc., ad avere una umiliazione indicibile “per aver perso il controllo della mia mente con il delirio”. Troppo è l’inno all’autonomia nella nostra cultura occidentale, una malintesa autonomia, ma anche qui mi taccio. Ti offro la mia esperienza come un delicatissimo suggerimento di cui te ne farai cio’ che vorrai. A cominciare dal non sentirlo.

Chiudo con le tue parole, mio caro Davide:

Un Paese che si dice civile non può abbandonare dei pezzi di sé. Non può permettersi di vivere senza una legge contro l’omofobia (traducoodio per l’essere umano in genere), un male che spinge molti ragazzi (e di varie età) a togliersi la vita per ritrovare quella libertà che hanno perduto nel momento in cui hanno respirato per la prima volta. Non c’è nessun orrore ad essere quello che si è, il vero difetto è vivere fingendosi diversi. Noi non siamo demoni, né siamo stati toccati dal Demonio mentre eravamo in fasce, siamo solo sfortunati partecipi di un destino volubile. Ma orgogliosi di esserlo. Chiediamo solo di esistere.

grazie Davide! chiara


 

 

 


 

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5 risposte a 27 maggio 2013 ore 09:22 IO, DAVIDE, GAY, 17 ANNI/ IO, CHIARA, MATTA, 69 / IO FRANCISCO, 25, BRASILIANO, “TUTTI INSIEME CHIEDIAMO SOLO DI ESISTERE”. CHIARA TENTA UNA SPECIE DI RISPOSTA A DAVIDE CONVINTA CHE: “NON CI SARA’ PACE PER I GAY NELLA VITA QUOTIDIANA, QUANDO INCONTRI IL VICINO, IL NEGOZIANTE…- ANCHE RICONOSCIUTE TUTTE LE LEGGI – SE NON AVVIENE UN MOVIMENTO DI LIBERAZIONE PER I DIVERSI (E – INSIEME- PER I NON-DIVERSI) CHE IMPONGA LA DIGNITA’ E LA RICCHEZZA VITALE DI OGNUNO IN QUANTO UNICO. UN SERVIZIO ALLA COMUNITA’ COME LA TANTO CONCLAMATA “BIODIVERSITA’ “—PERCHE’ PER GLI UMANI NO?

  1. nemo scrive:

    Importante e argomentata risposta, cara Chiara. Offri a noi motivi interessanti e originale di riflessione come, ad esempio, l’ idea della bandiera che inneggia al valore della diversità.

  2. mario bardelli scrive:

    la mia risposta è per il commento di nemo piu’ che per il tuo articolo, chiara.
    Una cosa è difendere i diritti, la dignità di individui oppressi, discriminati e perseguitati perché “diversi”. Spero solo che la bandiera che inneggia al valore della diversità non ci faccia dimenticare che apparteniamo tutti alla specie Homo Sapiens ( o che siamo tutti figli di Dio) e che i tratti che ci accomunano sono molto di più di quelli che ci diversificano, qualsiasi sia il nostro bagaglio genetico, culturale e delle nostre singole esperienze. Osservazione , ne convengo, ovvia e banale, ma che lascio comunque perché non contraddice l’affermazione iniziale, anzi la rafforza. Difendere la diversità nell’eguaglianza (ahimè, un’altra banalità.) mariobardelli

  3. nemo scrive:

    Nessuna banalità in ciò che scrivi, caro Mario. Giuridicamente, l’ eguaglianza è un principio che dovrebbe essere indiscutibile. Siamo ‘figli credenti’ ( e forse un po’ meno ‘osservanti’ ) dei principi della Rivoluzione Francese ( Liberté, Egalité, Fraternité ). Culturalmente, la ‘diversità’ è una ricchezza straordinaria ( non soltanto della fauna e della flora ) della società: come non provare gioia nel vedere ad esempio il ‘melting pot’ dei giovani ( scolari, studenti, … ) o di via Padova ( tanto per rimanere a Milano ). Come è più ricca la società ( e la gioventù ) di oggi rispetto alla mia !!! Quando un cinese o un nero facevano accorrere ( per vederlo ! ) un paese intero !! Come eravamo ( e come ancora siamo ) provinciali e ‘poveri’. Allora, viva la ‘bandiera inno della diversità ‘ ( non solo di pelle ma anche e soprattutto di pensiero ) …. che Chiara propone .

    • mario bardelli scrive:

      cara chiara e ,specificamente caro nemo che ha commentato (e ne condivido il senso)il mio commento. Oggi mi sento bucolico e voglio portare acqua al mulino della diversità con un ricordo della mia vita brasiliana. Nei grandi spazi brasiliani ci sono immense piantagioni di Eucalipto, non sono alberi autoctoni, ma vengono importati dall’Australia. La ragione è semplice: l’eucalipto è economicamente vantaggioso, serve sopratutto a produrre cellulosa (carta), truciolati e anche pali per la luce (allora), il tutto in un periodo di crescita relativamente breve e perciò conveniente. In un mio progetto (una scuola) che aveva intorno una grande area libera,brulla, di quella terra rosso-viola caratteristica dell’altipiano brasiliano, magari anche drammaticamente bella, ma che si trasforma in palude fangosa alla stagione delle piogge, ho pensato, dicevo, di usarne una parte per un boschetto di eucalipt0, così in un periodo relativamente breve, forse i 5 anni delle prime elementari , i bimbetti avrebbero avuto un boschetto di tutto rispetto in cui giocare. Il mio consulente botanico (mio fratello) mi ha avvertito che avrei sollevato le proteste degli ecologisti. In fatti questi boschi mono cultura sono un disastro per l’ecosistema(evidentemente si parla di grandi piantagioni, non della mia timida proposta). Per un motivo che non ho capito bene in queste piantagioni artificiali di un unico tipo di pianta non c’è vita, non ci sono insetti e perciò non ci sono uccelli o piccoli rettili(che se ne cibano). In fatti in questi boschi c’è un silenzio irreale, niente scriccolii, niente frusciare di piccoli animali, niente cinguettii, niente stormire d’ali. Romantico, ma un po’ funereo. Dunque la diversità è vita, nella speranza che non ci mangiamo fra di noi.

  4. nemo scrive:

    Bello , ‘scientifico’, questo episodio di vita vera ( interessantissima per paesaggi, esperienze, colori ) di Mario.

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