o ORE 18:17 — PAUL COLLIER — EXODUS . I TABU’ DELL’IMMIGRAZIONE -LATERZA // è sempre piacevole accompagnare uno scienziato sociale nel suo discorrere di temi a noi…Non ho capito se è un brano dell’autore, un’introduzione potrebbe essere, o un riassunto dell’editore / o un mezzo-e-mezzo—L’impressione mia è stata di leggere un’anguilla viva…e poi uno accompagna, accompagna, ma poi muore sul posto se per lui non e’ un tema “vitale”..Non vi pare?

 

Paul Collier, uno dei maggiori esperti al mondo in materia di economie africane, è professore di Economics alla Blavatnik School of Government e direttore del Centre for the Study of African Economies alla University of Oxford. Ha diretto dal 1998 al 2003 il dipartimento per le ricerche della Banca Mondiale ed è stato consulente per la Commission on Africa del governo Blair. Ha pubblicato diversi volumi su temi di economia e sviluppo.

 

Paul Collier, Exodus

Lunedì 02 Febbraio 2015

 

 

Paul Collier
Exodus. I tabù dell’immigrazione

 

Exodus

 

La migrazione delle persone povere verso i paesi ricchi è un fenomeno carico di associazioni deleterie. La povertà di massa che continua ad affliggere i paesi dell’ultimo miliardo è la vergogna del ventunesimo secolo. Sapendo che altrove si vive meglio, molti giovani abitanti di quei paesi fanno di tutto per andarsene, con mezzi legali o illegali, e alcuni di loro ce la fanno. Ogni esodo individuale è un trionfo dell’intelligenza, del coraggio e dell’ingegno umano sulle barriere burocratiche imposte dai ricchi impauriti. In quest’ottica emotiva, qualsiasi politica migratoria che non sia quella delle porte aperte appare spregevole. Eppure, quella stessa migrazione può anche essere considerata un atto di egoismo: i lavoratori che voltano le spalle ai familiari a carico e gli intraprendenti che abbandonano i meno capaci al loro destino ignorano le proprie responsabilità nei confronti di chi vive una situazione ancor più disperata della loro. In quest’altra ottica emotiva, le politiche migratorie devono ricominciare a occuparsi degli effetti subiti da chi resta, che i migranti stessi trascurano. La stessa migrazione può persino essere considerata un atto di imperialismo alla rovescia: la vendetta delle antiche colonie. Nei paesi ospitanti, i migranti costruiscono colonie che assorbono risorse destinate ai ceti meno abbienti della popolazione locale, con cui entrano in competizione e di cui minano i valori. In questa terza ottica emotiva, le politiche migratorie devono tutelare chi rimane a casa propria. Le migrazioni scatenano reazioni emotive, ma se le scelte politiche fossero dettate dall’emotività potrebbero prendere qualsiasi direzione.

Prima ancora di essere analizzati, i fenomeni migratori sono stati strumentalizzati dalla politica. Lo spostamento delle persone dai paesi poveri verso i paesi ricchi è un semplice processo economico, ma i suoi effetti sono complessi. Le politiche pubbliche in materia di migrazione devono fare i conti con questa complessità. Attualmente, le politiche migratorie sono estremamente diverse da un paese all’altro, sia nei paesi d’origine sia in quelli di destinazione. I governi di alcuni paesi d’origine promuovono attivamente l’emigrazione e hanno programmi ufficiali volti a mantenere i contatti con le loro diaspore, mentre altri impongono restrizioni alle partenze e considerano i membri delle loro diaspore alla stregua di rivali. Per quanto riguarda i paesi ospitanti, il tasso complessivo di immigrazione consentita varia enormemente dall’uno all’altro: dal Giappone, che è diventato uno dei paesi più ricchi del mondo pur rimanendo completamente chiuso agli immigrati, a Dubai, che è diventata una società altrettanto ricca grazie a un’immigrazione talmente rapida che attualmente la popolazione residente è costituita al 95 percento da stranieri. Varia il grado di selettività rispetto alla composizione della popolazione immigrata, con Australia e Canada che sono assai più esigenti, in termini di livello di istruzione, degli Stati Uniti, i quali a loro volta sono più esigenti dell’Europa. Variano i diritti che i paesi ospitanti riconoscono ai migranti entrati nel paese: si passa dall’eguaglianza giuridica rispetto alla popolazione autoctona, compreso il diritto al ricongiungimento familiare e il diritto a un contratto di lavoro, all’obbligo di rimpatrio e all’assenza di qualsiasi diritto normalmente riconosciuto ai cittadini. Variano gli obblighi imposti ai migranti, che in alcuni paesi sono tenuti ad abitare in luoghi prestabiliti e a imparare la lingua locale, mentre in altri sono liberi di aggregarsi per gruppi linguistici. Varia il grado di assimilazione e di tutela delle differenze culturali promosso da ogni paese. Non mi viene in mente nessun altro settore delle politiche pubbliche in cui le differenze siano altrettanto pronunciate. Si potrebbe pensare che questa grande varietà di politiche rifletta un sofisticato tentativo di adeguare le risposte alla grande varietà di situazioni. Ne dubito. Sarei più propenso a credere che la stravaganza che contraddistingue le politiche migratorie rifletta piuttosto un contesto deleterio di forte emotività e scarsa conoscenza.

La battaglia sulle politiche migratorie si è tramutata in uno scontro di valori piuttosto che in un confronto di dati verificabili. I valori possono ispirare un’analisi sia in senso positivo sia in senso negativo. Il senso positivo è che fintanto che non avremo individuato i valori di riferimento non sarà possibile compiere scelte normative, che si tratti di migrazioni o di altro. Tuttavia, i valori etici possono ispirare l’analisi anche in senso negativo. In un illuminante nuovo studio, lo psicologo morale Jonathan Haidt spiega che i valori morali che guidano gli individui, benché diversi, tendono a dividersi in due categorie. Egli dimostra, suscitando un certo sconcerto, che, in base alla categoria di valori a cui gli individui aderiscono, è il giudizio morale che essi formulano rispetto a specifiche questioni che influenza il loro modo di ragionare e non il contrario. Le ragioni servono soltanto a giustificare e avallare i nostri giudizi. Di fatto però, noi ci aggrappiamo alle ragioni e le utilizziamo per legittimare i giudizi che abbiamo già elaborato sulla base delle nostre convinzioni morali. Su nessun argomento importante le prove stanno tutte da una parte sola: sicuramente non quando si tratta di migrazione. Sono i nostri valori etici a determinare le ragioni e i fatti che siamo disposti ad accettare. Siamo pronti a dare credito al più improbabile dei messaggi purché sia in linea con i nostri valori, mentre rifiutiamo con velenoso disprezzo i dati forniti dalla controparte. Le posizioni etiche sulle migrazioni sono polarizzate e ogni campo accetterà soltanto le argomentazioni e i dati che avallano i suoi pregiudizi. Haidt dimostra che questa bieca faziosità si manifesta in diversi frangenti, ma che quando si tratta di migrazioni è particolarmente accentuata. Negli ambienti liberali, in cui si discute con la massima perizia della maggior parte dei temi politici, quello delle migrazioni è un argomento tabù. L’unica opinione consentita è quella che deplora l’avversione popolare nei suoi confronti. Di recente, gli economisti hanno approfondito la loro conoscenza della struttura dei tabù. Il loro scopo è difendere il senso di identità degli individui, proteggendoli dalle realtà che potrebbero minacciarlo. I tabù ci risparmiano la fatica di coprirci le orecchie quando non vogliamo ascoltare certi discorsi.

Laddove le dispute su dati oggettivi si risolvono in linea di massima quando una parte è costretta ad ammettere di avere sbagliato, le divergenze sui valori possono rivelarsi insormontabili. Una volta riconosciute come tali, le differenze di valori possono se non altro essere rispettate. Io non sono vegetariano ma non penso che i vegetariani siano una massa di poveri illusi, né costringo i miei ospiti vegetariani a rimpinzarsi di foie gras. La mia massima ambizione è quella di spingere le persone a riesaminare le posizioni che hanno assunto per via dei loro valori. Come spiega Daniel Kahneman in Pensieri lenti e veloci, noi siamo tendenzialmente riluttanti a fare lo sforzo di ragionare partendo da un’analisi corretta dei dati di fatto. Preferiamo abbandonarci a giudizi affrettati, spesso basati sui nostri valori. Il più delle volte tali giudizi sono ottime approssimazioni della realtà ma tendiamo a farvi eccessivo affidamento. Lo scopo di questo volume è aiutarvi ad andare oltre i giudizi frettolosi dettati dai vostri valori.

Come tutti, anch’io mi sono avvicinato al tema delle migrazioni con opinioni pregresse, fondate sui miei valori. Ma scrivendo ho cercato di metterle da parte. L’esperienza mi ha insegnato che quando si parla di migrazione praticamente tutti hanno le idee molto chiare. Di solito le opinioni che esprimiamo sono avallate da un minimo di analisi. Tuttavia mi viene il sospetto che, coerentemente con la ricerca di Jonathan Haidt, in questo caso le opinioni derivino in gran parte da convinzioni morali preesistenti piuttosto che dall’incontestabile forza dei dati. L’analisi basata sui dati è il cavallo di battaglia dell’economia. Come molte questioni politiche, le migrazioni hanno cause ed effetti economici, per cui le scelte politiche si valutano prevalentemente in un’ottica economica. I nostri strumenti ci consentono di dare alle cause e agli effetti una spiegazione tecnicamente migliore di quella che si potrebbe dare utilizzando soltanto il buon senso. Tuttavia, alcuni effetti delle migrazioni, quelli che più preoccupano la gente comune, sono di natura sociale. È possibile integrarli in un’analisi economica ed è quello che ho tentato di fare; ma di solito gli economisti tendono a ignorarli allegramente.

Le élite politiche chiamate a compiere scelte strategiche devono fare i conti da un lato con le preoccupazioni di un elettorato influenzato dai propri valori e, dall’altro, con i modelli macchinosi degli economisti. Il risultato è una gran confusione. Non solo le politiche variano da un paese all’altro, ma oscillano tra la massima apertura, auspicata dagli economisti, e la totale chiusura, auspicata dagli elettori. Per fare un esempio, negli anni 1950 la Gran Bretagna ha aperto le sue porte, nel 1968 le ha parzialmente chiuse, per poi spalancarle di nuovo nel 1997; attualmente le sta richiudendo. Le politiche oscillano addirittura tra un partito e l’altro: rispetto ai quattro cambiamenti di cui sopra, il Partito Laburista e il Partito Conservatore sono entrambi responsabili di un’apertura e di una chiusura. Spesso i politici sono più duri a parole che nei fatti, raramente accade il contrario. Talvolta sembrano addirittura in difficoltà davanti alle scelte dei loro cittadini. I cittadini svizzeri sono atipici, in quanto hanno il potere di imporre referendum ai loro governi. Ovviamente, una delle questioni per le quali i cittadini hanno deciso di esercitare il loro potere è quella dell’immigrazione. Il veicolo dei timori popolari è stato un referendum sulle norme relative alla costruzione delle moschee. È risultato che un’ampia maggioranza della popolazione era contraria alla costruzione delle moschee. Di fronte a simili posizioni, il governo svizzero si è sentito talmente imbarazzato che ha immediatamente tentato di invalidare l’esito della consultazione.

Le posizioni morali sulle migrazioni si mescolano confusamente con quelle sulla povertà, sul nazionalismo e sul razzismo. Attualmente, le opinioni sui diritti dei migranti sono influenzate dai sensi di colpa per una serie di errori commessi nel passato. Solo quando tutti questi aspetti saranno stati chiariti sarà possibile avviare una discussione razionale sulle politiche migratorie.

È moralmente doveroso dare aiuto alle persone molto povere che vivono in altri paesi e uno dei modi per aiutarle è consentire ad alcune di loro di trasferirsi nei paesi ricchi. Tuttavia, l’obbligo di aiutare i poveri non può sottintendere l’obbligo generalizzato di autorizzare la libera circolazione delle persone da un paese all’altro. In realtà, è assai probabile che le persone che ritengono che i poveri debbano essere liberi di trasferirsi nei paesi ricchi sarebbero le prime a opporsi all’idea che si debba riconoscere ai ricchi il diritto di trasferirsi nei paesi poveri, per via di sgradevoli richiami del colonialismo. Sostenere che chi è povero ha il diritto di migrare significa confondere due questioni che sarebbe più opportuno mantenere distinte: l’obbligo dei ricchi di aiutare i poveri e i diritti di libertà di circolazione tra i paesi. Non è necessario rivendicare i secondi per adempiere al primo. Esistono molti modi di rispettare il nostro obbligo di aiutare i poveri: se un paese decide di non aprire le proprie porte agli immigrati dei paesi poveri può optare per un trattamento più magnanimo nei confronti di quei paesi in altri settori della politica. Ad esempio, il governo norvegese impone restrizioni alquanto severe all’immigrazione, che però compensa con un programma di aiuti molto generoso.

Se l’obbligo morale di aiutare i poveri del mondo può influenzare le nostre opinioni riguardo al diritto di migrare, talvolta può provocare una vera e propria avversione nei confronti del nazionalismo. Mentre il nazionalismo non comporta necessariamente l’imposizione di restrizioni all’immigrazione, è evidente che senza un minimo di nazionalismo le restrizioni non avrebbero motivo di esistere. Se gli abitanti di un territorio non si sentissero uniti da un senso di identità comune più forte di quello che provano nei confronti degli stranieri, sarebbe alquanto curioso che decidessero di limitarne l’ingresso: non avrebbe senso parlare di “noi” e “loro”. Pertanto, senza il nazionalismo è difficile motivare eticamente le restrizioni all’immigrazione.

Non sorprende scoprire che l’avversione nei confronti del nazionalismo è maggiore in Europa: il nazionalismo è spesso stato all’origine delle guerre. L’Unione Europea è un nobile tentativo di lasciarci alle spalle questa eredità. La naturale conseguenza dell’avversione nei confronti del nazionalismo è l’avversione nei confronti dei confini: uno dei successi ottenuti dall’Unione Europea è la libera circolazione delle persone all’interno del territorio dell’Unione. Per alcuni europei, l’identità nazionale è oramai un concetto superato: uno dei miei giovani parenti non ammette altra identità geografica all’infuori di quella londinese. Se non si può più parlare di identità nazionale, allora non sarà facile giustificare eticamente il divieto di ingresso ai migranti: perché non consentire a chiunque di vivere dove vuole?

L’identità nazionale è un concetto la cui accettazione varia moltissimo da un paese all’altro. In Francia, America, Cina e Scandinavia l’identità nazionale rimane fortemente radicata e politicamente neutra, mentre in Germania e in Gran Bretagna è diventata una bandiera dell’estrema destra e, di conseguenza, un tabù. Nei numerosi paesi che non hanno mai avuto una forte identità nazionale, questa assenza è solitamente motivo di rammarico e preoccupazione. In Canada, Michael Ignatieff ha di recente scatenato il finimondo ammettendo il fallimento di tutti i tentativi fatti nel corso degli anni per creare un senso di identità comune translinguistica tra quebecchesi e canadesi anglofoni. In Africa, la supremazia delle identità tribali sull’identità nazionale è considerata dai più un flagello al quale solo una classe dirigente capace potrebbe rimediare. In Belgio, il paese che ha battuto il record della crisi politica più lunga del mondo – perché fiamminghi e valloni non riuscivano a mettersi d’accordo – non è mai neanche stato fatto il tentativo di costruire un’identità comune. Uno degli ambasciatori del Belgio è mio amico e una sera a cena abbiamo parlato della sua identità. Egli ha allegramente negato di sentirsi belga ma non perché si senta fiammingo o vallone, piuttosto perché si considera un cittadino del mondo. Quando abbiamo insistito affinché ci dicesse dove si sente più a casa ha nominato un paesino della Francia. Mi riesce difficile immaginare che un ambasciatore francese possa esprimere analoghi sentimenti. Canada e Belgio riescono a mantenere alti livelli di reddito nonostante la loro debole identità nazionale ma la soluzione che hanno adottato è la totale segregazione spaziale dei diversi gruppi linguistici, associata al radicale decentramento dell’autorità politica a favore dei territori subnazionali. Ai fini pratici dell’erogazione dei servizi pubblici, Canada e Belgio sono quattro Stati con identità integrate, non due Stati privi di identità. In Gran Bretagna, il senso di identità nazionale è confuso, in quanto la composizione multietnica della società è relativamente recente: nessuno in Gran Bretagna, ad eccezione di alcuni immigrati, si considera principalmente britannico. In Scozia, l’identità nazionale è una componente fondamentale della cultura dominante, mentre il nazionalismo inglese è considerato sovversivo: nelle occasioni ufficiali, sventolano molte meno bandiere inglesi che scozzesi.

Il nazionalismo ha i suoi vantaggi. Pur non dimenticandone il potenziale di violenza, va detto che un senso di identità condivisa rafforza la capacità di cooperare. Le persone devono essere in grado di cooperare a vari livelli, alcuni subnazionali altri sovranazionali. Il senso di identità nazionale condivisa non è l’unico mezzo per realizzare la cooperazione ma è evidente che le nazioni continuano a svolgere un ruolo centrale. Basti pensare alle tasse e alla spesa pubblica: sebbene entrambe le funzioni coinvolgano diversi livelli di governo, quello più importante è senza dubbio il livello nazionale. Ne consegue che se il senso di identità nazionale condivisa rafforza la capacità delle persone di cooperare a quel livello, allora il suo ruolo è davvero rilevante.

Il senso di identità comune predispone inoltre le persone ad accettare la ridistribuzione del reddito dai più ricchi verso i più poveri e a condividere il patrimonio naturale. Quindi, l’avversione nei confronti dell’identità nazionale rischia di avere conseguenze costose: una ridotta capacità di cooperare e una società meno equa. Nonostante questi vantaggi, però, rinunciare all’identità nazionale potrebbe comunque rivelarsi necessario. Se il nazionalismo conduce inesorabilmente all’aggressione, allora è senz’altro necessario rinunciarvi e affrontare le conseguenze di tale rinuncia. Da quando è iniziato il declino dei nazionalismi europei, l’Europa vive un periodo di pace ininterrotta senza precedenti. Questa coincidenza ha spinto alcuni politici, tra cui la cancelliera Angela Merkel, a difendere i simboli dell’unità europea, in particolare l’euro, in quanto garanzia contro il ritorno alla guerra. Affermare però che il declino del nazionalismo abbia comportato la diminuzione della violenza è una deduzione che deriva da un’errata interpretazione della causalità: è l’avversione nei confronti della violenza che ha provocato il declino del nazionalismo. Anzi, l’avversione nei confronti della violenza ha ridotto drasticamente il rischio di violenza. L’atteggiamento degli europei nei confronti della violenza è cambiato in maniera talmente radicale che oggi una guerra in Europa sarebbe inconcepibile.

Io sono del parere che non sia più necessario rinunciare all’identità nazionale per evitare di subire i tragici effetti del nazionalismo. Se l’identità nazionale condivisa è utile, allora può tranquillamente trovare il modo di esprimersi senza pregiudicare la pace della nazione. Lo dimostrano i paesi nordici. Ciascuno di quei paesi è animato da un sano patriottismo, che lo porta a rivaleggiare con i vicini. La storia di quella regione è segnata dalle guerre: Svezia e Danimarca sono state a lungo in conflitto, a discapito rispettivamente della Finlandia e della Norvegia. Ma la pace che regna oramai da molto tempo tra quei paesi non si discute. Né si può affermare che quella pace si regga sulle istituzioni formali di cooperazione europea. Di fatto, quelle istituzioni formali hanno inavvertitamente diviso e non unito i paesi nordici. La Norvegia non è membro dell’Unione Europea, a differenza degli altri tre ma, di questi, solo la Finlandia appartiene all’eurozona. Quindi, le istituzioni europee improntate all’unità dividono questi quattro paesi in tre blocchi distinti. I paesi nordici hanno raggiunto un tenore di vita tra i più elevati del pianeta: non solo alti redditi privati ma anche equità sociale e servizi pubblici che funzionano. È difficile stabilire con esattezza quanto abbiano contribuito il patriottismo e il senso di identità comune al raggiungimento di questo risultato, ma hanno senz’altro avuto un peso.

Mentre il senso di responsabilità verso i poveri e la paura del nazionalismo possono avere contribuito ad alimentare la confusione in merito al diritto dei paesi di imporre restrizioni all’immigrazione, è indubbio che la tendenza a considerare la libertà di circolazione tra i paesi alla stregua di un diritto naturale derivi essenzialmente dal desiderio di combattere il razzismo. Data la storia del razzismo in Europa come in America, questo desiderio appare più che ovvio e giustificato. La maggior parte dei migranti provenienti da paesi poveri appartiene a razze diverse da quelle delle popolazioni autoctone dei ricchi paesi di destinazione, per cui il confine che separa l’opposizione all’immigrazione dal razzismo è molto sottile. In Gran Bretagna, quel confine fu varcato negli anni 1960 da un politico che tenne un discorso osceno contro gli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia meridionale, agitando lo spettro delle violenze interetniche. Quel discorso dissennato pronunciato da un politico di poco conto oramai scomparso da molto tempo, Enoch Powell, ha messo fine per più di quarant’anni al dibattito sulle politiche migratorie in Gran Bretagna: il rischio di essere accusati di razzismo era diventato talmente forte che nessuno osava più dirsi contrario all’immigrazione. I “fiumi di sangue” invocati dalla ridicola profezia di Powell non solo hanno messo fine al dibattito, ma col tempo hanno finito per incarnare le paure dei liberali: il rischio di scontri interrazziali tra immigrati e popolazione locale era il grande pericolo in agguato. Bisognava evitare in ogni modo di risvegliare il drago addormentato.

Soltanto nel 2010, a seguito dell’immigrazione di massa dalla Polonia, è stato possibile spezzare questo tabù. Sino ad allora, la Gran Bretagna aveva adottato una politica molto liberale nei confronti degli immigrati polacchi. Quando la Polonia ha aderito alla Comunità Europea, durante il periodo di transizione previsto per consentire al paese di adeguare la propria economia a quella europea, i paesi membri avevano il diritto di imporre restrizioni all’immigrazione dei polacchi. Tutti i principali paesi, ad eccezione della Gran Bretagna, lo hanno puntualmente fatto. Può darsi che la decisione del governo britannico sia stata influenzata da una stima realizzata nel 2003 dalla pubblica amministrazione, secondo cui pochissimi cittadini dell’Europa dell’Est – non più di 13.000 l’anno – avrebbero scelto di migrare in Gran Bretagna. Questa stima si è rivelata clamorosamente errata. Nei cinque anni successivi, circa un milione di cittadini dell’Europa dell’Est è immigrato in Gran Bretagna4. Un’immigrazione di quella portata, sebbene vivamente apprezzata da famiglie come la mia che hanno potuto approfittare della presenza di artigiani competenti e desiderosi di lavorare, ha anche generato un diffuso malcontento, soprattutto tra i lavoratori locali che si sono sentiti minacciati. Benché le ragioni di chi era favorevole a quell’immigrazione e quelle di chi era contrario fossero altrettanto egoistiche, era evidente che nessuno dei due schieramenti potesse essere tacciato di razzismo: il caso vuole che i polacchi siano bianchi e cristiani. Un evento decisivo e alquanto comico delle elezioni del 2010 è quello in cui il Primo Ministro, Gordon Brown, è stato registrato da un microfono lasciato inavvertitamente acceso durante l’incontro che i suoi collaboratori gli avevano organizzato con una normale cittadina. Purtroppo, quella cittadina aveva deciso di lamentarsi della recente ondata di immigrazione. Brown è stato registrato mentre rimproverava i suoi collaboratori per la scelta della donna, da lui definita “una fanatica”. L’immagine di un Primo Ministro così palesemente lontano dalle preoccupazioni della maggioranza della popolazione ha contribuito alla clamorosa sconfitta di Brown. I nuovi vertici del Partito Laburista si sono scusati, dichiarando che la politica delle porte aperte applicata in passato era sbagliata. Forse, se non altro, d’ora in poi sarà possibile parlare di immigrazione in Gran Bretagna senza essere accusati di razzismo.

O forse no. Dato che la razza è correlata ad altre caratteristiche quali povertà, religione e cultura, rimane il rischio che qualsiasi misura volta a limitare le migrazioni in base a tali criteri possa essere considerata un cavallo di Troia del razzismo. Se così fosse, significherebbe che i tempi non sono ancora maturi per un dibattito aperto sulle migrazioni. Ho deciso di scrivere questo libro solo quando ho ritenuto che fosse oramai possibile distinguere tra loro i concetti di razza, povertà e cultura. Il razzismo è la convinzione che esistano differenze genetiche tra le razze: una convinzione che non poggia su nessuna prova. La povertà è legata al reddito, non alla genetica: il fatto che la povertà di massa coesista con la tecnologia che consente di migliorare la vita delle persone è il grande scandalo e la vera sfida della nostra epoca. Le culture non si ereditano geneticamente; sono insiemi fluidi di norme e costumi che hanno conseguenze materiali importanti. Il rifiuto di tollerare differenze di comportamento in funzione della razza è una manifestazione di decenza umana. Il rifiuto di tollerare differenze di comportamento in funzione della cultura sarebbe una manifestazione di ottusa negazione dell’evidenza.

Pur non dubitando della legittimità di queste distinzioni, sono ben consapevole del fatto che il mio giudizio possa essere errato. Non è una questione di poco conto poiché, come vedremo, le politiche migratorie riguardano per lo più il reddito e le differenze culturali. Se si pensa che si tratti di razzismo dissimulato, allora non vale neanche la pena avviare il dibattito, perlomeno in Gran Bretagna: può darsi che il fantasma di Enoch Powell si aggiri ancora dalle nostre parti. La mia ipotesi di lavoro è quindi che il diritto di vivere ovunque non sia un logico corollario dell’opposizione al razzismo. Può darsi che un simile diritto esista, e ne riparleremo, ma non deriva semplicemente da legittime preoccupazioni legate alla povertà, al nazionalismo e al razzismo.

Prendiamo tre gruppi di persone:

  • i migranti,
  • gli abitanti del paese d’origine che restano a casa
  • e la popolazione autoctona del paese ospitante.

Per spiegare cosa accade a ciascun gruppo occorrono teorie e dati.

Il primo gruppo, quello dei migranti, lo analizzeremo per ultimo perché è il più semplice. I migranti affrontano costi notevoli, nel tentativo di superare gli ostacoli alla circolazione, ma ottengono benefici economici di gran lunga superiori. I migranti fanno la parte del leone, aggiudicandosi i maggiori vantaggi economici della migrazione. Alcuni dati interessanti pubblicati di recente indicano che, a fronte di quei cospicui vantaggi economici, i migranti subirebbero una serie di effetti psicologici più o meno estesi. Tuttavia, sebbene questi dati siano abbastanza impressionanti, gli studi realizzati sin qui non ci consentono di valutare con precisione la portata complessiva degli effetti delineati.

Il secondo gruppo – quello delle persone che restano nei paesi poveri di origine – è il motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro. Parliamo dei paesi più poveri del pianeta che, negli ultimi cinquant’anni, sono rimasti indietro rispetto alla maggioranza che è cresciuta. Occorre chiedersi se l’emigrazione privi quei paesi dei talenti di cui sono già disperatamente carenti oppure se rappresenti un’ancora di salvezza e un catalizzatore del cambiamento. Se il parametro di riferimento degli effetti della migrazione su chi resta a casa è quello delle porte sbarrate, allora è chiaro che la migrazione migliora notevolmente la loro condizione. Lo stesso vale per le altre interazioni economiche tra i paesi più poveri e il resto del mondo: il commercio è meglio dell’assenza di scambi e i movimenti di capitali sono meglio della totale immobilità finanziaria. Ma il parametro dell’autarchia per i paesi più poveri è un criterio troppo poco esigente e non pertinente: nessun analista serio lo adotterebbe. Il parametro pertinente, come per il commercio e i flussi di capitali, è lo status quo rispetto non all’autarchia ma rispetto a un’emigrazione più o meno rapida. Vedremo che, in assenza di controlli, l’emigrazione dai paesi più poveri subirebbe un’accelerazione: quei paesi si troverebbero ad affrontare un vero e proprio esodo. Ma le politiche migratorie sono decise dai paesi ricchi, non da quelli poveri. Quando fissano le quote di ingresso nel loro territorio, i governi dei paesi ricchi fissano anche inavvertitamente le quote di uscita dai paesi più poveri. Pur ammettendo che per quei paesi la migrazione attuale sia preferibile all’assenza di migrazione, è il caso di chiedersi se quello attuale sia il tasso ideale. Occorre chiedersi, in sostanza, se per i paesi poveri sia auspicabile una migrazione più accelerata o più rallentata rispetto a quella attuale. Sino a poco tempo fa, era impossibile rispondere a un interrogativo formulato in questi termini. Ma nuove ricerche molto rigorose indicano che per molti paesi dell’ultimo miliardo l’attuale tasso di emigrazione potrebbe essere eccessivo. Una decina d’anni fa, un esercizio analogo condotto negli ambienti accademici ha aperto la strada a un ripensamento delle politiche sui flussi di capitali. Prima che i risultati di una ricerca si convertano in un cambio di strategia ci vuole del tempo ma, nel novembre 2012, il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato che la politica delle porte aperte ai flussi di capitali non è necessariamente quella più adatta ai paesi poveri. Sono sicuro che tutte queste sottili distinzioni scateneranno le ire degli integralisti, che basano le loro preferenze politiche sui loro principi morali.

L’ultimo gruppo, quello della popolazione autoctona dei paesi ospitanti, è quello che potrebbe suscitare l’interesse più immediato della maggior parte dei lettori di questo volume e per questo ho deciso di analizzarlo per primo. Mi sono chiesto quali effetti esercitino l’entità e il ritmo dei flussi migratori sulle interazioni sociali, sia quelle all’interno della comunità autoctona sia quelle tra la comunità autoctona e gli immigrati. Quali siano gli effetti economici sulle varie fasce d’età e di professione delle popolazioni autoctone. Come si trasformino le conseguenze attraverso il tempo. Anche nel caso della popolazione autoctona dei paesi ospitanti si pone il problema della scelta di un parametro di riferimento. Il parametro pertinente non è l’assenza di migrazione ma un livello un po’ superiore o un po’ inferiore a quello attuale. È chiaro che le risposte variano da un paese all’altro: quelle valide per un paese scarsamente popolato come l’Australia potrebbero non valere per uno densamente popolato come i Paesi Bassi. Per tentare di rispondere a questi interrogativi, spiegherò che normalmente gli effetti sociali prevalgono su quelli economici, in parte perché questi sono di solito limitati. È probabile che per le fasce meno abbienti della popolazione autoctona gli effetti netti della migrazione siano spesso negativi.

La lunga marcia attraverso l’analisi dei tre diversi gruppi costituirà l’impianto di una valutazione complessiva del fenomeno migratorio. Ma per passare dalla descrizione alla valutazione abbiamo bisogno di una struttura analitica e di una cornice etica. Chi prende le difese della migrazione, in un’ottica analitica o etica, tende solitamente a sminuire il problema perché tutti gli effetti importanti sembrano andare nella stessa direzione, e quelli che invece vanno in direzione opposta non sono presi in considerazione in quanto “controversi”, “minori” o “a breve termine”. Un’analisi onesta deve però riconoscere che esistono vincitori e vinti e che persino determinare l’effetto complessivo su un particolare gruppo può dare adito ad ambiguità, in funzione del modo in cui si misurano i benefici rispetto alle perdite. La domanda è quindi se debbano prevalere gli interessi dei vincitori o quelli dei vinti. Se si analizzano le migrazioni in chiave economica, la risposta è inequivocabile: i vincitori vincono molto più di quanto perdano i vinti, per cui tanto peggio per i vinti. Anche volendosi limitare al semplice parametro del reddito monetario, i benefici superano di gran lunga le perdite. Ma gli economisti di solito spostano la lente dal denaro al concetto più sofisticato di “utilità” e in base a questo parametro i benefici complessivi delle migrazioni crescono ulteriormente. Per molti economisti questa risposta è sufficiente: le politiche migratorie devono essere stabilite in base alla loro capacità di massimizzare l’utilità globale.

Nella Parte quinta contesto questa conclusione. Io sostengo che i diritti non dovrebbero dissolversi come per incanto in nome dell’“utilità globale”. Le nazioni sono entità morali importanti e legittime: in realtà, i migranti sono attratti proprio dai frutti del successo dell’idea di nazione. L’esistenza stessa delle nazioni conferisce diritti ai loro cittadini, più in particolare a quelli poveri. Non è possibile ignorarne gli interessi in nome dei benefici che si otterrebbero in termini di utilità globale. Gli abitanti dei paesi di origine che restano a casa si trovano in una posizione ancora più vulnerabile rispetto agli abitanti poveri dei paesi ospitanti. Sono ancora più bisognosi e assai più numerosi degli stessi migranti ma, diversamente dai poveri dei paesi ospitanti, non hanno la possibilità di influire sulle politiche migratorie: i loro governi non possono controllare il tasso di emigrazione.

Le politiche migratorie sono stabilite dai governi dei paesi di destinazione, non da quelli dei paesi d’origine. In qualsiasi società democratica, il governo deve difendere gli interessi della maggioranza dei suoi cittadini, ma è giusto che i cittadini si preoccupino delle fasce più bisognose della popolazione autoctona e degli abitanti dei paesi più poveri del mondo. Di conseguenza, per definire la loro politica migratoria, i governi dei paesi ospitanti dovranno bilanciare gli interessi dei ceti meno abbienti del paese con quelli dei migranti e di chi è rimasto nei paesi poveri.

I gruppi xenofobi e razzisti, ostili agli immigrati, non perdono occasione per denunciare con rabbia il danno subito dalle popolazioni autoctone a causa della migrazione, scatenando una reazione comprensibile: pur di non avallare le posizioni di quei gruppi, i sociologi hanno cercato con ogni mezzo di dimostrare che le migrazioni sono un bene per tutti. Senza volerlo hanno però dato modo agli xenofobi di spostare il dibattito su un piano diverso, chiedendosi cioè se la migrazione sia un bene o un male. Questo volume vuole proprio dimostrare che questa è la domanda sbagliata. Equivale a chiedere se mangiare sia un bene o un male. In entrambi i casi, la domanda pertinente non è se sia un bene o un male ma quale sia la quantità più adeguata. Un po’ di migrazione è quasi certamente meglio dell’assenza di migrazione ma, così come l’eccesso di cibo può portare all’obesità, anche la migrazione può diventare eccessiva. Noi dimostreremo che l’assenza di controlli provocherà l’accelerazione dei movimenti migratori, che rischiano di diventare eccessivi. Ecco perché i controlli, lungi dal costituire un imbarazzante retaggio del nazionalismo o del razzismo, diventeranno strumenti sempre più importanti delle politiche sociali di tutti i paesi ad alto reddito. Non è la loro esistenza a creare imbarazzo, ma la loro inadeguatezza. Questa è frutto del tabù che sin qui ha impedito di avviare un dibattito serio.

Questo libro tenta di infrangere quel tabù. So fin troppo bene che imprese di questo tipo comportano una serie di rischi. I custodi integralisti delle ortodossie sono pronti a lanciare la loro fatwa. È ora di mettersi al lavoro, e cominceremo cercando di capire le ragioni dell’accelerazione dei movimenti migratori.

Paul Collier, Exodus. I tabù dell’immigrazione

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Paul Collier, uno dei maggiori esperti al mondo in materia di economie africane, è professore di Economics alla Blavatnik School of Government e direttore del Centre for the Study of African Economies alla University of Oxford. Ha diretto dal 1998 al 2003 il dipartimento per le ricerche della Banca Mondiale ed è stato consulente per la Commission on Africa del governo Blair. Ha pubblicato diversi volumi su temi di economia e sviluppo.

 

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1 risposta a o ORE 18:17 — PAUL COLLIER — EXODUS . I TABU’ DELL’IMMIGRAZIONE -LATERZA // è sempre piacevole accompagnare uno scienziato sociale nel suo discorrere di temi a noi…Non ho capito se è un brano dell’autore, un’introduzione potrebbe essere, o un riassunto dell’editore / o un mezzo-e-mezzo—L’impressione mia è stata di leggere un’anguilla viva…e poi uno accompagna, accompagna, ma poi muore sul posto se per lui non e’ un tema “vitale”..Non vi pare?

  1. Donatella scrive:

    L’articolo di Paul Collier è molto interessante perché cerca di approfondire in modo razionale un tema che scatena sentimenti ed emozioni profonde. Io penso che l’emigrazione sia in genere un impoverimento anche drammatico della nazione da cui partono le persone. Lo sento soprattutto quando leggo di migliaia di giovani, in genere qualificati, che dall’Italia partono per Paesi esteri. Bisognerebbe fare di tutto perché non si dovesse ricorrere a questo estremo per avere una speranza di vita migliore, fermo restando che conoscere a fondo altre culture, magari per avere soggiornato per un periodo più o meno lungo in un altro Paese, è sicuramente molto positivo ( mi viene in mente il programma Erasmus, che ha aiutato i giovani a sentirsi un po’ più cittadini dell’Europa e del mondo).

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