22:20 —-Oscar Romero beato, Chierici: “Il vescovo dei poveri riscoperto grazie a Bergoglio”

 

 

 

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Maurizio Chierici

 

Maurizio Chierici

Giornalista

 

Per 30 anni ho raccontato sul Corriere della Sera cosa succede in America Latina, Medio Oriente, Vietnam, Cina e l’Asia della seta. Tante guerre. Un po’ di libri ne sono la conseguenza. Sono stato il primo giornalista a lasciare il Corriere per l’Unità di Colombo e Padellaro. Da sempre succede il contrario: il lungo cammino del mestiere  fa arrivare  in Via Solferino  qualche reduce  del giornale di Gramsci. Ma è bello sentirsi libero come ogni cronista  normale vuole essere. E ne Il Fatto la libertà continua.

 

 

 

 

 

Oscar Romero beato, Chierici: “Il vescovo dei poveri riscoperto grazie a Bergoglio”

Pubblicato: 24/03/2015 11:21 CET Aggiornato: 24/03/2015 11:21 CET
OSCAR ROMERO

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Etichettato come il “vescovo rosso”, quasi a volerlo deridere e schernire. Lui che con il rosso del comunismo non ebbe mai niente a che fare. Accusato di cospirazione marxista. Lui che, timido e silenzioso, aveva semplicemente deciso di lasciare da parte la sua vocazione da uomo di studi per dedicarsi alla battaglia più grande: difendere i deboli dalle ingiustizie. Una lotta strenua e quotidiana che gli è costata la vita: venne ucciso (era il 24 marzo del 1980) su un altare nella cappella di un ospizio per anziani nella sua città, San Salvador, di cui era diventato dieci anni prima vescovo. La giunta militare che allora governava il paese non sopportò più quelle omelie: le parole del “vescovo rosso” stavano diventando pericolose. Ora dopo 35 anni di buio e silenzio mons. Oscar Romero sarà finalmente proclamato beato e martire.

Maurizio Chierici, negli anni in cui Romero fece sentire la sua voce, era uno degli inviati di punta del Corriere della Sera in Sud America. Fu tra i primi a incontrarlo, a seguirne le omelie, a osservarne le gesta. Ne scrisse quando ancora il Vescovo era pressoché sconosciuto fuori da El Salvador. Il primo articolo su Romero il Corriere lo pubblicò in terza pagina con il titolo: “Un vescovo per i campesinos”: nessuno in Italia sapeva chi fosse e che cosa facesse.
Chierici ha seguito guerre e rivoluzioni in ogni parte del mondo (l’elenco è lunghissimo: la guerra dei sei giorni in Israele, la fuga dello Scià di Persia, i conflitti in Iraq, la crisi in Libano, l’Africa post coloniale senza contare l’America tutta, la corrispondenza dalla Cina, le elezioni Usa, i conflitti balcanici nell’Europa del est) ma non dimentica la prima volta che vide quel vescovo “dalla tonaca troppo corta e le calze che ricadevano su scarpe impolverate”.
Chierici, in un articolo pubblicato su il Venerdì ha scritto che Romero è diventato beato per un passaparola lungo 35 anni. Ce ne sono voluti 20 per completare il processo di canonizzazione. Perché tutto questo tempo?
“Romero non è mai stato molto amato dalle gerarchie ecclesiastiche: a Roma come in Sud America. Basti pensare che in quell’area quattro vescovi su sei all’epoca erano contro di lui. C’era chi si diceva inorridito dalle sue messe. D’altronde non è mistero che negli anni delle dittature militari vi fosse una connivenza della Chiesa latina con i governi in divisa”.

L’arcivescovo di San Salvador ha fatto del servizio agli altri il senso della sua missione, sempre attento a non ostentare mai ricchezza e potere. Quanto è stato importante il ruolo di Bergoglio nell’accelerare il processo di beatificazione?
“Molto, senza dubbio. Credo abbia voluto riconoscere valore e merito a un uomo di chiesa che molto gli somigliava. Ora che ci penso c’è un episodio legato al Papa e al suo modo di vivere la missione di uomo di Chiesa che più di altri mi è rimasto impresso”.

Ce lo racconti
“Nel 2001 ai tempi del crack argentino mi trovavo a Buenos Aires. Ebbi la fortuna di incontrare Bergoglio, allora vescovo della ‘Capital’: ricordo che viveva in due stanzette in un seminario, sempre aperto ai poveri e ai profughi di guerra. Un giorno lo seguìnelle villas miserias, in uno dei suoi viaggi dentro il degrado e la povertà: al ritorno, non avendo la possibilità di prendere un taxi chiesi a lui un passaggio, pensando fosse accompagnato da una auto della diocesi. Sa cosa mi rispose? Ma quale macchina, prendiamo l’autobus”.
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Tornando a Romero, c’è una data che segna il prima e il dopo nella vita del vescovo: 12 marzo del 1977. Quel giorno il gesuita Rutilio Grande venne ucciso ad Anguilares, piccolo paese a nord di El Salvador. Perché è così importate questo episodio?
“Rutilio era il miglior amico di Romero. Il delitto lo sconvolse, chiese spiegazioni, volle essere ricevuto dall’allora presidente Romero (solo un caso di omonimia, ci tenne sempre a precisare). L’atroce fine dell’amico aprì in lui una nuova fase. Dal Romero uomo di studi, seminarista nacque un altro Romero: prete e pastore dei popoli, dei poveri, degli oppressi. Rutilio ebbe un grande merito: lo avvicinò alla gente”.

Di Romero si è detto molto in questi trent’anni. ‘Conservatore convertito alla teologia della liberazione, in gioventù legato all’Opus Dei, in lotta con il Vaticano colpevole secondo lui di averlo abbandonato nella lotta contro le dittatura militare’. Ci aiuti a capire, chi era veramente Oscar Romero?
“Prima di tutto sgomberiamo il campo: all’Opus Dei non è mai stato legato: in quella organizzazione aveva soltanto degli amici, nulla di più. È vero poi che fosse un conservatore, ma sfido chiunque a non esserlo formandosi, come è successo a lui, nel Vaticano all’epoca di Mussolini. Era un grande studioso, il tipico “topo da biblioteca”. Come abbiamo già detto l’essere diventato Vescovo in un paese difficile come il Salvador cambiò il suo approccio. È altrettanto vero che nella sua lotta contro l’oppressione del potere militare si sentisse solo e poco compreso dalle gerarchie ecclesiastiche vaticane. Era un uomo malinconico, intimorito dalle continue minacce, consapevole con le pubbliche denunce di aver firmato la condanna a morte. Ricordo di averlo visto sorridere una sola volta: fu quando gli chiesi se il suo invito alla disobbedienza non fosse un’utopia. Con uno sguardo allegro mai visto prima mi rispose: ‘Se non credessi all’utopia sarei vestito così?”.

Romero venne ucciso mentre celebrava messa in una piccola cappella nel nord-est di San Salvador. Di quei momenti resterà per sempre scolpita l’immagine del suo corpo insanguinato circondato dai fedeli. Che cosa ha significato quello scatto?
“Ha reso ancor più eterna la sua figura di vescovo dalla parte degli oppressi. Fu il segno indelebile di un atto atroce. Io quel giorno ero in Finlandia, inviato del Corriere, vidi la foto in prima pagina sul giornale e capii subito. D’Altronde Romero era consapevole del suo destino, a noi giornalisti diceva spesso: ‘Quando ve ne andrete la luce si spegnerà, nell’ombra può accadere di tutto”.

In quegli anni un paese da sei milioni di abitanti come il Salvador finì al centro dell’interesse internazionale, giornalisti da tutto il mondo seguirono da vicino la guerra civile. Che ricordi ha di quel periodo?
“Innanzitutto c’è da dire che io finì in Salvador quasi per caso: a fine anni ’70 ero a Managua (Nicaragua, ndr), nell’estate del ‘78 un fotografo di un’agenzia francese mi disse: “Sai che da quelle parti c’è un Vescovo che dice cose forti”. E fu così che decisi di andare ad ascoltare le parole di Romero. Da quel momento in poi tornai più volte perché la battaglia di quell’uomo di chiesa contro le oligarchie cominciò a essere seguita anche dai media internazionali. Ricordo un episodio su tutti: era il 1980, l’Hotel Hilton, dove alloggiavano spesso i giornalisti delle testate internazionali, venne preso d’assalto dalla guerriglia. Fummo costretti a nasconderci in tutta fretta: in uno del corridoi dell’albergo vidi una donna anziana indifferente al caos. Prendeva appunti senza battere ciglio, rimasi colpito dalla sua tranquillità. Solo dopo scoprì che era Martha Gellhorn: la terza moglie di Ernest Hemingway. Lei che ne aveva viste di tutte i colori non si impressionò di fronte a quel tumulto”.

Altra epoca, altro giornalismo. Gli anni ‘80 hanno segnato l’ultima grande eta dell’oro dei giornali cartacei, dal 1991 con la guerra del golfo si impose la Tv con il live e le dirette. Dal telegrafo a internet com’è cambiato il modo di lavorare?
“Moltissimo. Sono mutati i mezzi ma anche i metodi e i rapporti. Ricordo che tra colleghi ci si diceva tutto, non c’erano segreti. Si viveva a stretto contatto in realtà difficili e complicate, ci si sosteneva e aiutava. Quando seppi di poter intervistare Roberto D’Aubuisson (fondatore del partito conservatore salvadoregno e mandante dell’omicidio di Romero, ndr), non ebbi timore a dirlo ai miei colleghi: sapevo che, nonostante l’esclusiva, nessuno me l’avrebbe rubata. Ora i freelance devono sopravvivere alla velocità della rete, il dogma è uno solo: arrivare sempre prima degli altri. Di questi tempi la notizia è oro”.

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