Il giorno di Panahi: “Mi perseguitano ma lotto per l’Iran”
Incontro a Teheran con il regista a cui il regime proibisce di lasciare il Paese. La Mostra di Venezia lo celebra il 10 settembre con il suo suo ultimo lavoro, clandestino, “This Is Not a Film”
Jafar Panahi
di Maurizio Braucci *
TEHERAN – Finalmente arrivo ad Elahiyè, la zona residenziale a nord di Teheran dove, prima di essere scacciato dalla rivoluzione del 1979, lo scià Mohammad Reza viveva circondato dalle proprie passioni per l’Occidente e per lo sfarzo. Sono qui per incontrare nella sua abitazione Jafar Panahi. È il regista di Il Cerchio e di Il palloncino bianco, ed è stato arrestato nel 2010 per aver progettato un film sulle manifestazioni antigovernative e condannato a 6 anni di reclusione e a 20 di interdizione dal fare film. Panahi ha da poco ottenuto la libertà su cauzione, ma è una libertà vigilata o meglio: spiata. Malgrado la condanna, al Museo del Cinema di Teheran c’è una grande teca dedicata a lui.Il giorno prima al telefono, per non insospettire le autorità, ho finto di essere un suo ammiratore, sotto il regime di Ahmadinejad la parola scrittore è pericolosa, specie se vieni dall’Occidente, specialmente dopo le violente repressioni di piazza del 2009 e 2011. La verità è che sono qui per intervistare Panahi e consegnargli un premio, quello della rivista “Lo Straniero”. Una voce al citofono mi dice in inglese di salire, ho sottobraccio il disegno di Toccafondo con cui premierò Panahi, entro così nella rete di controlli che il regime iraniano ha steso intorno a questo artista coraggioso e disperato. Nel caso mi arrestassero, sarà Cristina, la mia compagna rimasta in albergo, ad avvertire l’ambasciata italiana.
Jafar mi accoglie con un sorriso, parla solo iraniano ma per capirci ci aiuterà un traduttore, la casa è elegante e luminosa, non potendo più lavorare, il regista ha ristrutturato il soggiorno con le proprie mani, lo racconta This is not a film il suo lungometraggio fatto uscire clandestinamente dall’Iran pochi mesi fa e che, dopo Cannes, verrà presentato oggi alla Mostra di Venezia. E ancora una volta, Panahi sarà un “regista fantasma”, perché le autorità iraniane gli proibiscono di lasciare il Paese.
Panahi fa sparire i nostri cellulari in un’altra stanza «Attraverso questi ci intercettano», dice. «Posso parlare liberamente adesso?» chiedo, lui mi fa segno di no, in casa ci sono delle microspie, mi porta in cucina dove sembra più sicuro, ma per l’intervista ci dobbiamo spostare su un terrazzino, conversando a bassa voce, come se ci confidassimo con le vicine montagne dell’Alborz.
Di cosa l’accusano?
«Di due cose: di aver tramato contro la Repubblica Islamica e di aver messo in pericolo il popolo iraniano. Dopo 3 mesi di reclusione ho iniziato lo sciopero della fame e ho costretto le autorità a concedermi la libertà su cauzione, posso muovermi liberamente in Iran ma non espatriare. Tra due mesi ci sarà l’appello ma sono quasi sicuro che mi faranno tornare in carcere, ho poche possibilità».
Avrebbe potuto fare qualcosa per evitare l’arresto?
«Non intendevo fare delle denunce politiche, sono sceso in strada durante le manifestazioni perché era mio dovere, non potevo chiudere gli occhi, sono un regista. Da allora mi perseguitano, sono sotto pressione psicologica, ogni mia azione o parola può diventare un pretesto per accusarmi. Questa è la sorte di tutti quelli che erano in piazza in quei giorni, o il carcere o la caduta in uno stato di depressione e di incertezza».
L’aiuta la solidarietà che riceve dall’estero?
«Sì e ringrazio tutti coloro che mi hanno dimostrato la loro amicizia. Quando Bernando Bertolucci ha letto pubblicamente la mia lettera a Roma, quelle immagini sono arrivate alla popolazione iraniana attraverso la tv satellitare, è importante perché la mia vicenda viene tenuta nascosta all’opinione pubblica locale».
Qual è stata la reazione del governo a This is not a film che ha girato insieme a Mojtaba Mirtahmasb?
«Nessuna reazione, silenzio, ma sono certo che il film verrà allegato ai capi d’accusa durante il processo d’appello».
Se la liberassero quale sarebbe la prima cosa che farebbe?
«Un film, ho tre sceneggiature già pronte, il cinema è la mia vita. Ma lo farei qui, nel mio Paese, raccontare l’Iran da fuori mi sembrerebbe una menzogna. Non sono d’accordo con chi se ne va. Nel 2001 ero in transito negli Usa diretto in Argentina, lì volevano prendermi le impronte digitali ma io mi sono rifiutato, così sono stato costretto a tornarmene indietro. Non riuscirei vivere in un Paese che ti obbliga a cose del genere. Sono legato all’Iran, alla sua gente, ho una grande curiosità per il mio Paese, per le storie che vi si annidano».
In Iran non c’è solo la segregazione per i due sessi, la gente non può ballare o suonare liberamente, alle donne è proibito cantare.
«La gente non condivide il modo in cui è costretta a vivere ma tace per paura, nel privato fa cose che in pubblico non potrebbe, il modo in cui parla, si veste, si relaziona, viene costretta ad una doppia vita, come se vivesse in guerra, nascondendosi da un nemico. Quello che sta facendo il governo di Ahmadinejad non può durare a lungo perché è incompatibile con la vita moderna, ma gli attuali governanti tireranno avanti finché potranno. Alcuni di loro credono davvero nelle leggi del Corano, altri invece le usano solo per il loro potere personale. Da alcuni mesi i capi religiosi sono entrati in conflitto con il governo, nel Paese c’è insoddisfazione, Ahmadinejad era stato eletto per le sue promesse soprattutto verso i più poveri ma ora è chiaro a tutti che non le manterrà. Il suo gioco è diventato quello di creare situazioni complicate, di fare dichiarazioni roboanti per poterne poi gestire gli effetti mediatici e celare il fallimento delle politiche economiche e sociali».
Cosa accadrà nei mesi a venire?
«Il futuro è imprevedibile. L’Iran ha una situazione etnica molto complessa, ci sono azeri, curdi, arabi, turkmeni etc… e tanti conflitti latenti tra loro. Io mi auspico per il mio Paese una soluzione democratica, graduale ma profonda. Siamo una nazione piena di giovani e tanti di essi nutrono speranza per il futuro, la loro speranza è la speranza del nostro Paese».
* scrittore, collaboratore della rivista “Lo Straniero”
(10-09-2011)