21:09 —– E’ una vecchia storia che a me però ritorna… e ritornare dovrà finché non mi sarò rassegnata. (chiara)

 

 

 

Alla notte sogno di essere, sì, una forma umana, ma, a guardarmi bene, ed io mi guardo con attenzione, sembro piuttosto una mummietta rinsecchita in sé, uno spauracchietto dei campi, ma rimasto bambino:  è piccolo e non si vede tra sterpi e sterpi, sta lì a nulla,  tanto che è bianco come l’avessero pitturato a fantasma; pare un  “morticino” ma non lo è perche’ sente tutto con grande sensibilità tanto è vivo vivissimo.

E’ il vedermi riflessa in questa forma a me estranea, che mi fa sentire un certo orrore mentre sogno, ma se guardo a lungo in quella penombra che mi avvolge, l’orrore svanisce.

In quella figura che sono proprio io, lo so, lo vedo,  leggo una spossatezza che non ho mai vissuto, neanche quando rimanevo letteralmente paralizzata a letto per la depressione.

Perché, questa, che sento alla notte, nel sogno, è una stanchezza mortale che impregna di sé tutto intorno il  grande spazio che mi circonda, un chiarore leggero, forse un calore, ma impercettibile, che si espande nel mondo, pur circoscritto, cui appartengo. Sento un torpore che mi precipita in un bianco sterminato, una pietra di gesso bianco in cui ti sprofondi, un’inerzia di eternità, un sudario, forse, comunque bianco, e di un bianco così abbagliante da inondare, con un raggio pallidissimo, questo luogo mai visto, quasi completamente al buio.

Qui io mi sento raccolta in mani gentili, leggere,  naturalmente bianche, che mi “confidano tranquillità” : a loro io mi affido.
Un’estranea sensazione felice, mai provata allora.

Mia madre mi raccontava, e ri-raccontava negli anni, un aneddoto che ogni volta – mentre ancora lo diceva-  la lasciava incredula: un fatto, non un sogno.

Ci trovavamo  su un prato, diceva,  con mia sorella e due altre persone. Eravamo ad Ormea, frazione di Nava, seicento metri circa, dove tutte le estati accompagnavamo i nonni  a sentire un po’ di fresco la sera. Lei stava parlando e mi vedeva lì a pochi passi seduta sul prato. Dovevo avere – è sempre lei che racconta- due anni. Non mi vede alzarmi, andare dietro ad un cespuglio a fare la pipì, e subito tornare tra loro che, nel frattempo, avevano notato la mia assenza.

Quello che la lasciava ” instupidita ”  era non capire come mai non mi fossi rivolta a lei.


Non si rendeva conto che, nelle lunghe assenze da casa ( che i miei facevano per l’enorme numero di ore che passavano al lavoro ),  mi ero abituata a non rivolgermi a nessuno, neanche alla ragazza che stava con noi, e che vedevo sempre così indaffarata tra le pulizie e il mangiare.

La mia analista in Brasile, quando le raccontavo che la ragazza, al mattino, mi metteva sul seggiolone in cucina, e che io stavo lì tranquilla senza piangere anche tutta la mattina, mentre la ragazza si spostava a fare le camere o altro, mi comunicava, con assoluta certezza, che ero stata una bambina autista. Questa rappresentazione di me stessa bambina, che lei mi ripeteva negli anni, non mi entrava in testa, anche se capivo che lei sola era l’esperta.

Non solo non trovava spazio nella mia testolina di allora, ma la leggera angoscia che provavo al sentirmi descrivere così, veniva interpretata come prova che il fatto, realmente accaduto, era stato tenuto inconscio per non impazzire del tutto.

Anzi, perché mai venisse alla mia coscienza, l’avevo ricoperto di un racconto completamente diverso in ogni dettaglio, ma che poteva anche sembrare ovvio date le circostanze.

 

Con mia madre mi sono del tutto riconciliata negli anni, anche grazie alla mia analista, ma quello che non ho affatto perduto fino ad oggi, 71, è la paura tremenda di chi ti cura la mente. Una cosa  è convincere un altro per mozione degli affetti, altra cosa -immensa, è,  la differenza!  – è accompagnarlo–passetto passetto — a pensare da sé…; e ancora più passetto– è fargli constatare quante volte—tutti noi —mentre crediamo di decidere da soli, siamo invece  “influenzati”…E a volte con la febbre a 40°!

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