SPERANDO CHE VI PIACCIA VEDERLE, SONO GENTILI E SOFFICI STORIELLE DA GUSTARSELE NELLA CALMA, MAGARI DOPO E IL CAFFE’…O NON LEGGERLE ED USCIRE—PERO’ : NON SI SA DI CHI SONO; TROVATE IN UNA TENERA CARTOLINA AZZURRA TIPO BEBE’ APPENA PARTORITO…ECCO, SE SAPETE QUALCOSA SUGLI AUTORI, CHIAMATECI SUBITO!

 

 

 

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La pioggia e l’ombrello, dopo secoli dì continui incontri e abboccamenti, decisero di sposarsi.

Il connubio- sin dall’inizio alquanto burrascoso- avvenne durante un violento temporale.

Furono testimoni lampi, fulmini e, un po’ geloso, il vento.

Quest’ultimo infatti vantava una certa amicizia da parte della pioggia, perché insieme avevano

spesso fatto parlare di sé per i loro accoppiamenti.

Anzi a volte la gente, se c’era il vento senza la pioggia sperava che questa intervenisse per calmarlo e frenare un po’ il suo impeto. Al contrario, se era la pioggia a fare il bello e cattivo tempo, la gente invocava il vento per far allontanare la pioggia.

Questo, fra il vento e la pioggia, era sempre stato un amore strano e contrastato.

 

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Il matrimonio fra la pioggia e l’ombrello quindi era stato un po’ forzato, non essendo fra due fenomeni naturali.

Tutti davano la colpa all’uomo, reo di aver reso possibili e di aver incoraggiato i contatti fra i due.

Un po’ alla volta il vento, alleatosi con il sole, cercò di minare quella mal vista unione.

Non appena la gente apriva il parapioggia e questo si inebriava della freschezza e profumo dell’acqua piovana, interveniva il vento con delle raffiche che disturbavano la serenità dei due.

Subito dopo era la volta del sole, che faceva asciugare il selciato ed i prati fino a cancellare ogni traccia di pioggia.

Nella coppia cominciarono a nascere screzi e incomprensioni. La pioggia accusò 1’ombrello di essere troppo debole e di farsi violentare dal vento, che lo rivoltava a suo piacimento o lo strappava di mano ai passanti. In più si bagnava anche all’interno e gli si arrugginivano i bracci di ferro.

Da parte sua 1’ombrello si lamentava con la pioggia insinuando che lei era d’accordo col vento, che la illudeva con continue promesse di portarla in luoghi lontani, dove non pioveva mai e dove sarebbe stata accolta come una benedizione; le sarebbero stati talmente grati da dedicarle persino una danza.

 

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L’uomo intervenne, non accettando il definitivo divorzio fra i due. Li costrinse a convivere, cercando come sempre un compromesso.

Per quietare l’ombrello, che nel frattempo era diventato anche un po’ frivolo e appariscente, con colori vivaci, a spicchi o a tinta unita, gli permise di fare anche, se non se ne vergognava, il parasole.

 

 

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Il cammello, fra una sorsata e l’altra di acqua che stava bevendo in una pozza quasi prosciugata, disse:

-Lo sai che forse ti voglio bene?

Lo disse volutamente con noncuranza, senza dare molta importanza alla sua domanda che in fondo voleva essere un’affermazione perché era troppo timido per rivolgersi direttamente alla giraffa che gli stava vicino e sostenere il suo sguardo se lei avesse preso male la cosa o se si fosse messa a ridere. Anche quel < forse> , che precedeva il < ti voglio bene >, era del tutto inutile, ma il cammello oltre che timido era anche prudente, e nell’ipotesi peggiore avrebbe sempre potuto dire che non stava parlando con lei. La giraffa finì di staccare pazientemente le foglie dal ramo che aveva davanti e disse:

-lo invece ne sono sicura.

E si scelse un altro arbusto da spogliare.

Il cammello rifletté un istante e si sentì ancora più imbarazzato.

Che cosa voleva dire la giraffa?  Che era sicura del fatto che lui le voleva bene, o che era sicura di  volerne lei a lui?

Non ebbe il coraggio di farselo spiegare e si pentì di aver manifestato il suo sentimento così apertamente.

Per alcuni giorni il cammello, quando vedeva apparire da lontano la giraffa, si girava dall’altra parte e così non si accorgeva che anche lei voltava la testa, in modo che né l’uno né l’altra avevano occasione di chiarirsi.

Alla fine il cammello, ormai da troppo tempo tormentato dal dubbio, decise di affrontare la situazione e rischiare il tutto per tutto.

– Di che cosa sei sicura? – chiese alla giraffa.

-Sono: sicura che aumenteranno le tasse, che oggi non è domani e che io sto parlando- rispose lei elusiva.

-Non sei sicura di nient’altro?

-Si. Che tu non capisci niente.

 

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Un veccho gabbiano soffriva di reumatismi, ed era costretto a sostare sulla punta piu’ alta degli scogli per non bagnarsi troppo.

Erano soprattutto il collo e la sua ala destra che gli facevano male, e quando prendeva il volo poteva girare solo in cerchio.

Dal suo scoglio preferito guardava tutto il giorno i giovani gabbiani che volteggiavano nell’ aria, si calavano in picchiata sul mare, affondavano la testa e risalivano con bocconi squisiti.

Ormai ogni pesce, grande o piccolo, lo conosceva e sapeva del suo malanno. Anzi, una triglia impertinente e dispettosa nuotava sempre a fior d’acqua attorno allo scoglio per farsi notare e sfidare il povero gabbiano ad un lavoro per lui ormai impossibile.

Se avessi dieci anni di meno! pensava il gabbiano considerando lo spuntino che quella triglia poteva rappresentare …

Un giorno il Dolore decise di lasciare in pace il vecchio gabbiano per trasferirsi altrove e mettere

su famiglia con la Tristezza, che gia’ da tempo-era sua compagna quasi inseparabile:-     –~

Avevano deciso che il loro primogenito si sarebbe chiamato Disperazione, e progettavano tante cose per questo figlio che avrebbe dato un senso alla loro vita.

Quel giorno, dunque, il vecchio gabbiano si senti’ benissimo,con i muscoli del collo e delle ali scattanti ed elastici, come nei bei tempi in cui volava per ore e ore anche controvento e senza mai stancarsi.

Non lo disse a nessuno pero’, e continuo’ a starsene appollaiato sullo scoglio, al riparo dagli spruzzI.

Poco dopo la triglia dispettosa sali’ in superficie facendo gesti di scherno, apparendo e scompa­rendo alla sua vista.

Il gabbiano la lascio’ fare per un po’ e poi improvvisamente scatto’ con un volo fulmineo, piombo’ sulla preda e la strinse con il suo forte becco, senza pero’ ingoiarla.

Il Dolore, che era ancora nei paraggi, entro’ nella triglia per fame la sua nuova dimora, e questa comincio’ a dimenarsi per sfuggire alla morsa, ma senza riuscirei.

La Tristezza sfrutto’ subito l’ occasione~ e si uni’ al Dolore.

La triglia capi’ che per lei non c’era più niente da fare, era la  fine ! Urlando urlando, poco dopo nacque Disperazione.

 

http://ilgiardinosfumato.blogspot.it/

 

A quel punto il vecchio gabbiano, impietosito dagli occhi di quella triglia implorante, la ingurgito’ e tutto fini’.

 

 

 

 

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L’otto volante si era innamorato della sua radice quadrata, e con la scusa che cominciava a soffrire di vertigini chiese al direttore del luna park di essere sostituito.

Cominciarono quindi degli incontri furtivi nella sala degli specchi deformanti, durante le ore dichiusura al pubblico.

Solo in quel posto riuscivano ad abbracciarsi decentemente, perché in realtà l’otto era quasi tre volte più grande di lei, e solo gli specchi deformanti li rendevano quasi delle stesse dimensioni.

Un giorno il nano del circo, che usava andare davanti allo specchio che fa apparire più alti e longilinei, come lui avrebbe voluto essere, li scopri’.

–~-~—–

Sentiva parlare di nozze con una grande festa, tanto zucchero filato, torrone per tutti e spumante preso fra i premi del tiro a segno. La donna cannone avrebbe sparato dodici colpi a salve.

Il nano notò subito come l’aspetto della radice quadrata, di solito tozza e spigolosa, era notevolmente migliorato. Ora era proprio una bella radice, snella e sinuosa.

Cominciò allora a dubitare dei concetti di matematica e geometria che gli avevano insegnato in gioventù il trapezista e il giocoliere.

Ci pensò e ripensò, giungendo alla conclusione che fino a quel momento tutti li avevano presi in giro e si erano serviti di loro.

Il mondo vero era racchiuso nella stanza degli specchi e fuori era tutto illusione.

L’otto volante era un otto qualsiasi, grande quanto la sua radice quadrata, e lui non era un nano,

ma l’uomo dei trampoli.

 

 

” Signora Illusione ” (cherubini, fragna, 1940)attenzione, se volete si può chiudere!

 

 

 

Il punto decise di andare in vacanza, ma prima di partire si chiese:

Porterò con me anche mio fratello esclamativo? No, meglio di no,

quello spilungone si meraviglia di tutto, anche delle cose più banali. E’ come

un bambino!

Anzi, lascerò a casa anche quel curioso di interrogativo, così starò meglio.

Lui sembra nato per far sorgere dubbi e mettere tutti in imbarazzo:

perché? come mai? dove? quando? con chi ? con che cosa?

Non la smette mai di chiedere, è un intrigante che si interessa di tutto e di tutti.

Se non esistesse forse nessuno si porrebbe  domande e non si dovrebbe ~~ più  cercare le risposte.

 

 

 

No, in vacanza con me non ce lo porto.

Mi farebbe fare un sacco di figuracce. La gente va lasciata in pace!

E la virgola? Chi glie lo dirà che per un po’ dovrà stare senza di me? Nessuno. Non serve

dirglielo perché quella non se ne accorgerà. E’ sempre indaffaratissima e la si trova

dappertutto. Fra l’altro, quando stiamo insieme nessuno sa mai dove metterei.

“punto e virgola” infatti sembra un compromesso. O punto o virgola. Si dovrebbe

scegliere una volta per tutte!

Visto che ci sono non porterò con me nemmeno il mio gemello,cioè il punto di sopra,

quando si scrivono i due punti.

lo sono quello di sotto, il più importante. Il punto e basta, per intenderci!

 

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2 risposte a SPERANDO CHE VI PIACCIA VEDERLE, SONO GENTILI E SOFFICI STORIELLE DA GUSTARSELE NELLA CALMA, MAGARI DOPO E IL CAFFE’…O NON LEGGERLE ED USCIRE—PERO’ : NON SI SA DI CHI SONO; TROVATE IN UNA TENERA CARTOLINA AZZURRA TIPO BEBE’ APPENA PARTORITO…ECCO, SE SAPETE QUALCOSA SUGLI AUTORI, CHIAMATECI SUBITO!

  1. Donatella scrive:

    Bellissime queste storie, valgono da sole un romanzo: sono come dei telegrammi mandati dai grandi romanzi che non hanno tempo da perdere con la gente comune e devono fare la loro bella figura in biblioteche e librerie.

  2. Donatella scrive:

    Il piccione Mugugno.
    Era un piccione residente a Milano, ma era nato in un paesino sulla costa ligure. Mi raccontò la sua storia sul davanzale di casa mia, dove avevo sparso un po’ di riso, un giorno in cui era un po’ meno mugugnoso del solito. Mi disse che si era trasferito nella Grande Città della Grande Pianura perché dei suoi colleghi, con cui aveva fatto comunella, gli avevano raccontato come era facile al nord trovare da mangiare. In una grande piazza, dicevano, c’era gente che offriva del buon granoturco, quello spezzato adatto ai volatili, solo per farsi fare una fotografia insieme a loro, posati elegantemente sulla mano o sul braccio del generoso benefattore. Certo bisognava stare attenti ai pericoli, perché, essendo aumentato il numero dei piccioni che risiedevano nella Grande Città, era nato parallelamente tra una parte degli umani un robusto razzismo: c’era chi diceva che portavano malattie ( e allora gli uomini non le portavano? Tra buoni vicini si sa che ci si imprestano anche un po’ di mali, ma la cosa è reciproca), c’era chi metteva degli spilloni sulle finestre perché non ci si potesse posare, chi metteva delle strisce di domopak argentato per spaventarli. Ogni tanto molti piccioni sparivano, non si sa bene come, e questa era la cosa più inquietante. Mugugno ( il nome gli era stato dato dai genitori perché lui avrebbe voluto essere un gabbiano ma non aveva il fisico), salutò parenti e conoscenti, disse addio al mare, tante volte ammirato, alle dolci colline testimoni del suo apprendistato da piccione, a i coppi dei tetti e ai buchi nei muri che lo avevano protetto. Pieno di supponenza nelle proprie giovani forze ma con un fondo di incomprensibile nostalgia, prese a volare a tappe verso la Grande Pianura dove c’era, nel mezzo, la Grande Città. Lì aveva messo su famiglia, anzi parecchie famiglie, sempre però con la stessa colomba che vantava di essere discendente di quella famosa di Picasso per via di bisnonna catalana. Tutto sommato poteva essere soddisfatto della sua vita di piccione: aveva una compagna, che si dava un po’ di arie ma che gli era sempre stata fedele, aveva da mangiare in abbondanza e aveva potuto tirar su numerose famiglie, aveva dei ripari per il troppo freddo e il troppo caldo ( quello che lui non sopportava della Grande Città). Ma allora perché quel mugugno proveniente dalle profondità del suo petto di piccione, perché quando veniva sul mio davanzale lanciava quella specie di imprecazione dolorosa, di sofferta, infinita insoddisfazione ? ” Perché avrei voluto essere un gabbiano” mi rispose, becchettando gli ultimi chicchi di riso rimasti.

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