ROBERTO RODODENDRO, UN ROMANZO BREVE : — ——– LETTERA ALL’ALDILA’ ——” Cara Luisa, tutto qua. “

 

 

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bardelli 2012

 

 

 

 

Lettera all’aldilà

 

 

Sei partita da tre anni. Ormai.

Ricordo esattamente il tempo trascorso: tre anni, due mesi e dodici giorni. Ho tenuto il conto sul calendario.

No, non giorno per giorno, come un carcerato. Il conteggio è stato più saltuario, meno impegnativo. Nei momenti di vuoto, quando l’angoscia del vivere inutile mi prende, mi ricordo di te. Mi sto ricordando di te. Ora. Della tua partenza: venti aprile millenovecentottantasette.

Da allora, più niente. Solo una cartolina per farmi sapere che sei arrivata bene. Per farmi conoscere il posto dove ti sei sistemata :”Io abito qui” e una freccia su un mucchio di case.

Più semplice e meno impegnativa di una lettera che poteva avere parvenza di un secondo addio. Un taglio netto con indirizzo: un’incongruenza, una pigrizia o un’attesa.

E un taglio netto è stato : nemmeno io ti ho mai scritto. Mi è sempre stato difficile, dopo quello che c’è stato tra noi ed il saperti irrimediabilmente lontano.

Come parlare al nonno morto durante una seduta spiritica: sappiamo che non ci rivedremo mai più. Che senso ha scriverci, parlarci? Parlare coi morti è schizofrenico, scrivergli è dare fuori di testa.

Molte volte ho cominciato una lettera come questa, ma altrettante, raggiunto questo punto, l’ho stracciata.

Forse l’hai fatto anche tu. Abbiamo quindi entrambe un bel mucchietto di carta stracciata nel cestino dei nostri ricordi.

Ma ti ho pensata. Spesso. Troppo. Certamente molto di più di quanto tu possa aver pensato a me. Io faccio parte di un capitolo chiuso della tua vita.

E sei tu che sei andata via. Sei partita lontano da questo nostro paesaccio…. E cosa poteva trattenerti?

Io?

Non l’avrei voluto.

Eravamo un po’ più di due sorelle ed eravamo anche un po’ più di  due giovani donne molto amiche, molto intime fra di loro: forse fra noi non era svanita quella sessualità solare della prima giovinezza.

Eppure non avevamo gelosie. Prendevamo forza una dall’altra per sopportare la nostra condizione di “chiacchierate” in questo paesino morto, di anime morte.

 

Qui, nulla è cambiato. Il treno ferma sempre una volta al giorno ma i pochi salgono e che scendono sono sempre gli stessi. Le tre case diroccate sono sempre là, in memoria della guerra o dell’ignavia dei nostri compaesani.

Hanno costruito un piccolo quartiere nuovo, appena fuori il paese, sulla strada che porta a M…….. Ma gente nuova non ce n’è: sono gli stessi che abitavano le case di paese, ora abbandonate. Hanno traslocato di casa, nient’altro.

Anche noi, anch’io che critico, siamo senza evoluzione, senza speranza. Qui nessuno e nulla è cambiato.

Il nostro piccolo gruppo s’è sfaldato presto, dopo la tua partenza, ma non per colpa di quella: troppo vino e troppa solitudine.

Te lo ricordi Francesco, il proprietario del bar della piazza? Piccolo rotondetto e paffuto, con l’idea fissa della rivoluzione totale.

E’ scappato da qualche parte, si vocifera in Africa, lasciando la moglie e i due figli, dopo aver comprato una specie di cannone col quale voleva bombardare la canonica, nella sua eterna lotta contro don Friggeri : don Camillo e Peppone trent’anni dopo. Questa è la nostra realtà. E ti raccomando il nostro don Camillo locale, lo ricorderai, è sempre lo stesso che ci spiava negli spogliatoi, arrampicandosi sulla tramezza, quando ci cambiavamo per fare ginnastica.

L’anno scorso è caduto e si è rotto un braccio ( si, cadde mentre faceva il guardone), c’è stato anche un mezzo scandalo ma poi, come sempre avviene qui, tutto è finito a tacere.

Il prete non si tocca.

La ruggine tra Francesco e il prete è di lunga data, da quando don Friggeri, in quell’inverno di quattro anni fa (c’eri ancora anche tu) costruì un muro di neve alla curva dello stradone, pensando non si sa bene se a una lezione o ad uno scherzo, alle spalle di Francesco, Giorgio e quelli della nostra combriccola, che prendevamo la strada come una pista di sci o un circuito automobilistico.

Quella notte, com’era prevedibile, col gelo la neve s’indurì e divenne un muro di ghiaccio e Francesco si sfracellò la macchina contro.

Ci salvammo per miracolo.

L’estate dopo, e questa non la sai perchè eri appena partita, nella stessa curva, fecero la posta al prete legando una corda fra i due lati della strada e, quando don Mario passò svolazzando come un pipistrello sulla sua bicicletta, la tesero: si fracassò spalla e bicicletta in un gran capitombolo.

Quel porco che non sa stare allo scherzo, li denunciò ai carabinieri. Immaginati quindi il seguito ed ecco il perchè del cannone.

Solo che il cannone non sparò ma scoppiò. Giorgio finì all’ospedale, per fortuna solo poche escoriazioni e tanta paura, e Francesco, che aveva già la precedente pendenza per lesioni, fu incriminato per traffico d’armi, associazione armata e quant’altro di simile e dovette scappare.

Dalla sera alla mattina sparì.

Il suo bar adesso è un mortorio.

Anche Giorgio, poco dopo si trasferì a Roma a  fare il fotografo. Non sappiamo più niente neanche di lui.

E il Rizieri, te lo ricordi il Rizieri? Un altro che ha dato fuori di matto. Non si accontenta più di collezionare vipere sotto sale, adesso ne tiene una decina in casa dentro scatoloni di cartone bucherellati per fare passare l’aria, e coperti da un vetro.

Lui dice che sono meglio degli uomini: vivono solo di istinti e se non gli rompi le scatole non fanno male a nessuno.

Sarà. Ma un giorno o l’altro ci troveremo invasi dalle sue bestie che ci morderanno il culo.

So io chi vorrei in prima fila.

Una domenica mattina di circa sei mesi fa l’abbiamo visto, tutto vestito di nero, avvolto nel tabarro e col cappellaccio in testa, arrampicarsi sul campanile della chiesa (dall’esterno, ovviamente, altrimenti che gusto c’era?) e, una volta in cima, piantare la bandiera nera degli anarchici.

La bandiera è ancora là, con grande rabbia di don Friggeri.

Il Rizieri invece è sparito.

Anche lui.

Pare sia fra le montagne, ma prima o poi tornerà.

Torna sempre.

 

Sento la tua mancanza. La potrei toccare, tant’è tangibile. Forse anche tu ti senti sola.

I primi tempi t’immaginavo come un’esiliata volontaria.

Ti sei sposata con “l’australiano”: in dieci giorni, il tempo della sua permanenza, della sua vacanza, hai deciso tutto. Hai preso su la tua roba, pochi ricordi per viaggiare leggera e sei partita.

Come un incidente improvviso, una malattia irreparabile.

In fondo, penso, non hai fatto altro che aggregarti al primo che passava, ti sei infilata nel suo passaporto e sei scappata.

Nel passaporto di uno che da qui era partito bambino, era tornato con la nostalgia della memoria e subito è scappato, scoprendo che la memoria sa fare brutti scherzi.

Ma chi è costui? Un contadino in Australia è meglio di un contadino qui da noi? Non lo so. Ma so che qui è peggio perchè qui io sono rimasta.

Sessanta case e dodici osterie.

Dalle sette alle nove di sera, il coprifuoco: il paese è buio e deserto.

Poi, le donne in casa e gli uomini a bere.

Nessuno si ribella, tranne la vecchia Argia che, col suo passato ( ma qual’ è il suo passato? Si parla si parla, ma nessuno sa niente di certo) può fare quello che vuole e tutte le sere le passa anche lei all’osteria, uscendone due ore dopo sbronza fradicia.

 

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bardelli, 2014

 

Ma non ti sto scrivendo per ricordare o per raccontarti storie del paese. Anche in questo non c’è nulla di nuovo. Sempre la stessa ottusa ignoranza.

Ti voglio raccontare di me. La mia storia.

Tre anni sono pochi, ma possono essere una vita.

Una storia che nessuno sa (almeno credo), tranne i pochi interessati che, non conoscendosi tra di loro ed essendo lontani uno dall’altro, conoscono solo la loro parte.

Parte minima, perchè la storia è la mia.

Ed io ho bisogno di parlarne con qualcuno che mi possa capire (sarai cambiata così tanto?) e sappia tenersela per sè.

Tu puoi essere come un confessore.

Come una lettera all’aldilà.

 

Perchè qui si diventa pazzi.

In giro vedi sempre le stesse facce, appena un po’ invecchiate. Qualcuno è morto togliendo il fastidio e qualche piccolo disgraziato è nato. Le donne e le ragazze continuano ad essere tutte sante (o tutte puttane quando parlano alle spalle) ed a piantare corna o a sfornare figli settimini con matrimoni precipitosi.

E tutti fanno finta di crederci.

Il farmacista continua a portare nel retro le povere sceme che ancora non hanno capito, o fanno finta, che per provare la pressione non è necessario spogliarsi.

Ti ricordi di quella volta che siamo andate insieme e lui non sapeva che pesci prendere, perchè quando mi disse di accomodarmi nel retro per la solita pressione, noi gli dicemmo, serie serie, che volevamo provarla insieme.

Una volta nel retro, ci spogliammo tutt’e due, facendo commenti ad alta voce, su come ci sembrasse strano visto che la pressione si prova al braccio!

Ci faceva gesti per farci parlar piano ed era diventato tutto rosso, ad un passo da un colpo apoplettico.

Quando poi, arrivati alle mutandine, gli chiedemmo se era necessario toglierci anche quelle…. Senza aver la forza di spiccare una parola, corse in farmacia a chiudere a chiave la porta ed al ritorno…..Ci ritrovò nuovamente vestite e gli dicemmo che la nostra pressione andava bene, magari avremmo potuto provare la sua, visto che ci pareva un po’ strano!

Con questi ricordi, il vuoto che hai lasciato è tangibile. Non c’è più nessuno. Dimmi quant’è lontana l’Australia. E quant’è grande. Se c’è un posto anche per me.

La mia storia.

La mia lettera all’aldilà.

 

Ti ricordi ( sempre “ti ricordi”, pare che non possa dire altro, ma sono troppi i ricordi in comune) il Vincenzo, quello delle sementi e concimi, che se ne stava sempre sulla porta del negozio e tutte le volte che passavamo ci lanciava occhiate in tralice senza avere il coraggio di farci un cenno di saluto?

Un bell’uomo nell’insieme: alto, biondo, occhi azzurri; un po’ rubizzo e robusto, ma qui lo sono tutti.

Certo che lo ricordi, perchè una volta, dietro tue sollecitazioni, nemmeno troppo nascoste, trovò il coraggio di invitarti a cena.

Il giorno dopo mi hai raccontato che ti aveva portato in una trattoria piuttosto squallida, dalle parti di Udine ( sempre lontano dal paese e da occhi indiscreti, come si usa qui) e che per tutto il tempo ti parlò di concimi e maiali. Poi, in macchina, mentre ritornavate, ci provò alla sua maniera, mettendoti una mano sotto la gonna.

Tu l’hai lasciato fare, mi dicesti ridendo, quel tanto da ripagarsi la pizza, e come arrivò al morbido calore del tuo sesso, lanciasti un urlo tale che ritirò la mano come se bruciasse e non ti guardò più fino a casa.

Mi dicesti ridendo che fu una noia fuori dal comune.

Io l’ho sposato.

Capisci che culmine di solitudine avevo raggiunto?

 

La tua partenza. Frettolosa e allegra, fra lacrime e risate.

Sola e disperata. Forse mi sentivo anche tradita, anche se la nostra vita appartiene solo a noi ed a nessun altro, come ci siamo sempre dette.

Lo penso ancora, sai, che la mia vita appartiene solo a me, malgrado quel che è successo, o meglio, quel che è successo è successo perchè la penso così.

E tu? Hai messo su chili e quei sei figli previsti da tuo marito? Ho sempre pensato che la tua accondiscendenza, anche quando lo raccontavi a me, facesse parte del tuo desiderio di scappare.

Cosi poco ci conosciamo ( ci scopriamo volta per volta, man mano che gli avvenimenti capitano), che forse ti sei convinta da sola e adesso sei lì fra pappe, cacche e marito, contenta come una chioccia, tutti i giorni e tutte le notti, comunque lui sia.

Sarai così cambiata da strappare questa lettera con fastidio e pena, una volta letta? Non credo. Voglio credere di no.

 

Ero sola e disperata ed il paese si era fatto ancora più piccolo, dopo la tua partenza. Il lavoro non mi ha mai permesso molti svaghi, quel tanto per mangiare, vestirmi e pagarmi quel buco di camera dove vivevo con mia madre.

Adesso siamo in una villetta fuori paese, con un grande salone freddo, una stanza per gli ospiti, una stanza per il bambino che non c’è e un cantinone per festeggiare con gli amici, ma quando? Con quali amici?

Intorno, un bell’orto con giardino.

Sposando Vincenzo ho raggiunto uno stato sociale elevato per lo standard di qua. Ho scoperto che è ricco, ma quanto, non lo so nemmeno io che sono la moglie. I soldi sono un fatto privatissimo, meno se ne sa e meglio è.

Ma sto correndo avanti con la storia, procediamo per gradi.

 

Ti ricordi di quei giornali “confidenziali” dove si proponevano uomini e donne sole e perfino coppie?

Ne abbiamo sfogliati tanti, abbiamo trascritto telefoni e numeri di caselle postali senza mai deciderci a scrivere anche noi.

Poi, tu sei partita. E’ rimasto un gioco interrotto.

L’ho proseguito io da sola, in quei giorni di solitudine, noia e disperazione. La voglia di evadere era diventata insopportabile e la curiosità, una necessità.

Così, ho affittato una casella postale a Udine. La città è grande, ho pensato, nessuno mi conosce, posso provarci, e se voglio è come se non succedesse nulla.

Poi ho fatto pubblicare l’annuncio del tipo ” giovane e carina si sente sola – bisognosa d’affetto cerca amico agiato per simpatica amicizia”.

Ho pensato che “agiato” fosse un aggettivo importante, che dava tono… E poi non volevo ritrovarmi con uno squattrinato : cercavo una persona che non lesinasse a spendere per divertirsi.

E’ stato come avevamo pensato: una valanga di lettere. Ci fossi stata anche tu, avremmo passato pomeriggi interi a leggerle e commentarle, ridendoci sopra. E forse alla fine ci saremmo fermate lì.

Ce n’erano per tutti i gusti, persino domande di matrimonio. Uno si diceva con un piccolo difetto fisico, quasi invisibile, cioè : era sciancato ! Ma di animo tanto gentile e con un buon posto in Comune.

Un altro scriveva di non aver mai avuto amici nè donne, se non a pagamento. Mi disse che il suo telefono non suonava mai, che gli sarebbe bastata una mia telefonata per sentirsi meno solo.

Pensai che la solitudine non era una prerogativa solo mia. Solo allora me ne accorsi ma non provai sollievo. Fui lì lì  per chiamarlo, per pena sua e mia, ma pensai che mi bastava la mia, di solitudine.

La maggior parte, però, erano più espliciti e dopo aver parlato tanto di com’erano belli ed aitanti loro e pieni di possibilità economiche, arrivavano al sodo.

Qualcuno si diceva amatore eccezionale e di avercelo grosso così. Uno si dilungò molto a descrivermelo e mi annotò anche le misure.

Tutti generosissimi, a parole.

Tutti pieni di vita, a parole.

Tutte vite complete, a parole.

Mi misi a piangere su quelle lettere. Piansi per me e per loro. Non ci fu divertimento in quelle letture, anzi, mi sentii avvilita e svilita.

Ero sola.

Avevo cominciato a stracciarle con rabbia, ma dopo le prime, la rabbia sbollì e, come si mette da parte un vestito vecchio anche se si pensa che non potrà servire mai più, le cacciai tutte in una scatola.

Ma anch’io ero sola. Non molto diversa da loro.

Diciamo le cose come stanno: uguale a loro.

Dopo qualche giorno che avevo fatto finta di non pensarci, ne scelsi una di un tizio che diceva solamente di sentirsi solo anche lui, che cercava una ragazza simpatica e carina per passare qualche ora di svago insieme. Non scriveva altro, non parlava di sè, non vantava possibilità economiche. In fondo alla lettera c’era trascritto il telefono dell’ufficio, con la raccomandazione di telefonare all’ora di pranzo. Immaginai che fosse sposato, ma il fatto mi lasciava indifferente, era un problema suo.

Cosi gli telefonai. La voce era piacevole, il tono garbato e sciolto. Ci accordammo d’incontrarci in un bar di Udine il pomeriggio del giorno dopo. Mi disse:” Per conoscerci un po’ di più”. Tutto naturale  e tranquillizzante.

 

Non ti racconto come passai le ventiquattrore prima dell’incontro. Cambiavo  decisione ogni quarto d’ora.   L’immaginavo bello e simpatico. Soprattutto diverso da quelli di qua, poi ricadevo nel dubbio, nel sospetto. Nella paura della delusione.

Pensa che cretina: avevo dimenticato l’annuncio e la lettera e stavo costruendo una storia d’amore!

Andai all’appuntamento.

Non era male. Un bell’uomo, ovviamente sposato, ma non faceva nulla per nasconderlo. Aveva anche una bella macchina. Questo suo atteggiamento disinvolto e la sua mancanza di esibizionismo ( era evidentemente un uomo facoltoso, ma nella lettera aveva evitato di parlarne), mi avevano ben disposta. Non c’erano in lui atteggiamenti reconditi, perchè le intenzioni nascoste erano visibili.  Mi sentii subito a mio agio. Strano, considerato ch’era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere, dove era evidente lo scopo finale della serata, anche se condotta con tatto ed eleganza.

Vedi, davo già per scontato un finale di sesso e solo sesso, senza strascichi sentimentali, nemmeno di facciata, subito, quella stessa sera.

Parlava bene, sciolto di lingua e di gesti. Cominciammo con un aperitivo, poi proseguimmo con un altro, intanto mi parlava di lui ( tutte cose inutili e senza importanza, come scoprii più tardi ripensandoci, ma sul momento, non sembrava). Quindi mi portò a cena in un ristorante molto carino, fuori città: spese più lui quella sera, di quanto guadagnassi io in una settimana di lavoro.

Era simpatico ed allegro e le sue confidenze mi spinsero, senza accorgermene, a parlargli di me, delle mie insoddisfazioni, delle mie solitudini, del sentirmi costretta in una condizione che mi pareva non appartenermi.

Mangiammo bene e bevemmo bene ed, al conto glielo dissi, che non guadagnavo tanto in una settimana. Glielo dissi con l’esclamativo, senza pensarci sopra, mi pareva evidente nel mio vestitino da quattro soldi.

Mentre mi guidava fuori, gli dissi anche che era tanto che non mi capitava una serata così.

Avrebbe potuto chiedermi : “Così come?”, ed io non avrei saputo cosa rispondergli. Ma lui mi guardò senza parlare e mi accompagnò fino ad una villetta lì vicino, “a bere il bicchiere della staffa” mi disse sorridendo, mentre mi faceva entrare. Certo non ero così scema da non capire, anzi, l’avevo già messa in conto a conclusione di serata perchè era quello che volevo anch’io. Così ci trovammo a letto insieme senza troppi preliminari. Non fu niente male, anzi. Credo di essere stata anch’io all’altezza della situazione, perchè, quando verso mezzanotte stavamo rivestendoci ( un po’ in fretta a dire il vero, ma era chiaro che aveva un’ora precisa di rientro) mi chiese se potevamo rivederci e volle il mio numero di telefono. Fui abbastanza pronta a rispondergli che preferivo richiamarlo io. L’incontro era stato inusuale. Non potevo dire di conoscerlo. Malgrado la simpatia e tutto il resto, pensai che era meglio non fidarmi.

Mi sono attenuta a questa regola anche per tutti gli incontri che ebbi in seguito.

 

Lo richiamai dopo una settimana per non sembrare troppo insistente, anche se avrei voluto telefonargli la mattina stessa.

All’ora di pranzo, come mi aveva raccomandato.

Ci accordammo per quella sera, al solito bar, ma un po’ più tardi, alle otto, perchè mi disse che prima aveva da fare.

La stupida, che poi sono io, aveva comprato un vestito nuovo per l’occasione. Ma andò tutto sprecato, perchè dopo un aperitivo frettoloso mi portò subito a casa sua dove aveva organizzato una cena fredda.

Sempre simpatico, sempre gentile, ma il furbastro aveva accorciato i tempi. Che fare? Mangiai perchè avevo fame ed era tutto buono ed appetitoso ma mi sentivo un po’ avvilita per il vestito nuovo.

Glielo dissi anche, ma lui mi rispose ridendo con una battuta :” intanto non lo rovini, perchè te lo tolgo subito”.

Mi misi a ridere anch’io e non ci pensai più, decidendo di prendere il meglio di quello che mi capitava.

Ci conoscevamo di più e ci furono meno inibizioni da ambo le parti. Insomma, malgrado quella mia delusione fu meglio della prima volta! E lui fu anche più gentile, più rilassato. Poi, come la volta precedente, verso la mezzanotte cominciò a dare segni d’agitazione. Mi fece rivestire in fretta e mi accompagnò alla macchina.

Non mi chiese più il telefono, ma prima di lasciarmi mi raccomandò di chiamarlo quando volevo (sempre rispettando gli orari) e mi mise in mano duecentomila lire, disse:” un   piccolo risarcimento per il vestito nuovo”.

Ci restai come una scema, perchè non ci avevo proprio pensato, e non trovai le parole per restituirgliele.

Al ritorno, in macchina, quei soldi mi pesavano nella tasca, mi sentivo svilita. Poi, una volta casa mentre mi rigiravo quei due pezzi da cento tra le mani, piano piano l’avvilimento passò e pensai a cosa potevo comprarmi.

Ci fu ancora una terza volta, e mi diede appuntamento direttamente a casa sua. Nulla di nuovo, solo che, all’uscita, mi diede le duecentomila senza più scuse, con un sorriso ed un bacio.

Sempre molto carino e discreto, ed io le presi senza fiatare.

Ti confesso che, anche se non volevo ammetterlo, ci speravo.

Ti scandalizzo? Non credo, e poi c’è poco da scandalizzarsi: lui mi piaceva e non facevo nulla controvoglia. Allora, perchè vergognarmi per dei soldi che mi servivano?

Una volta ridendo, dopo aver fatto l’amore me lo disse anche lui :” Saltiamo i preliminari e tutte le consuetudini abituali, quel che risparmio lo do a te, penso siano utilizzati meglio.” Piuttosto spoetizzante, se vuoi, ma sul piano pratico non faceva una grinza.

Certo, questa dei soldi, implicava una nuova visione a quella che avevo cominciato come un’avventura, una evasione…… Ma, alla fin fine, non sgradevole.

Ti svelo un segreto: si fa in fretta ad abituarsi ai soldi!

 

Andammo avanti per qualche mese, finché un giorno lo chiamai e non lo trovai. Riprovai il giorno dopo con lo stesso risultato. Riprovai dopo una settimana, pensando che fosse partito e si fosse dimenticato d’avvertirmi, e mi ripose un altro. Riagganciai senza dare il mio nome quando mi disse che non lavorava più lì.

Ci rimasi male. Mi sentivo tradita. Trascorsi una settimana senza uscire di casa. Ecco, in quei momenti quei soldi presi mi pesavano. Mi ricordavano che non avevo nessun diritto su di lui, nemmeno di arrabbiarmi, nemmeno di piangere, anche se piansi ugualmente.

Di colpo ero ricaduta nel tran tran di sempre, e mi convinsi che quell’avventura molto clandestina non aveva cambiato la mia vita.

Ed invece l’aveva cambiata radicalmente: “Bisogna sapersi adattare.” Mi dissi con una filosofia inaspettata per me e misi un altro annuncio sul giornale.

La vita ricominciava.

Altra valanga di lettere. Confrontandole con le precedenti scoprii che molti si ripetevano: stesso numero di telefono o di casella postale, stesse testo: come se fossero ciclostilate. Quelli li scartavo tutti, li chiamavo i professionisti degli annunci. Fra le nuove, pensa un po’, ce n’era una anche del nostro amico farmacista: da come si illustrava non avrei mai capito che era lui. Mi colpì il numero di telefono, perchè corrispondeva a quelli del nostro paese, così, spinta dalla curiosità, telefonai camuffando la voce.

Non ebbi bisogno di tante parole per riconoscerlo e pensai subito di tirargli un bidone: gli fissai un appuntamento per le due del pomeriggio del giorno dopo, di fronte all’ufficio postale di Udine e gli raccomandai di portare un mazzo di rose rosse, per farsi riconoscere.

Arrivai alle due meno dieci ed era già là che passeggiava nervosamente avanti e indietro, col mazzo di rose in mano.

Lo lasciai senza farmi vedere ed andai a fare compere. Ritornai che erano le quattro passate e c’era ancora, con il mazzo di rose ormai mezzo appassito che gli penzolava dalle mani, che strizzava gli occhi dietro le lenti da miope, ad ogni ragazza che passava, sperando fosse quella della telefonata. Me ne tornai a casa lasciandolo in speranzosa, quanto inutile, attesa.

 

 

 

FRANCESCA da facebook

Francesca, foto

Non è stato un brutto periodo, tutto sommato. M’ero lasciata andare. Un periodo scacciapensieri. Avevo dimenticato la noia e la depressione, avevo dimenticato anche la tua partenza e in più, mi permettevo una vita quasi agiata. Si, perchè non avevo dimenticato la frase dettami dal bell’uomo del primo incontro :” Evitiamo i convenevoli, tu risparmi ( l’avevo capovolta, naturalmente) e quello che risparmi….ecc. ecc.”.

Adesso so che era una frase convenzionale, come un “apriti Sesamo”: serviva a chiarire i rapporti e ad evitare inutili corteggiamenti. Tutti ne eravamo soddisfatti.

 

No, non è stato un brutto periodo.

Ho conosciuto anche qualche uomo interessante. Con un tale è cominciata anche una storia. Io non avrei voluto, ma sai, mi sentivo debole, con poca voglia di pensare e di resistere e mi sono trovata invischiata in una strana storia, anzi, una storia sconvolgente. Partita da premesse del tutto sbagliate, non poteva che finire male con l’amaro in bocca.

Ma come al solito sto correndo, non è di questo che ti voglio scrivere ora, e non so nemmeno se te ne parlerò più avanti.

 

Comunque non è stato un brutto periodo. Ho anche fatto qualche bel viaggetto durante i ponti di fine settimana.

Sono stata a Sanremo ( ti ricordi quanta voglia avevamo di andarci?), non sono rimasta delusa : donne eleganti bellissimi negozi e poi, il Casinò.

L’ uomo di turno non lesinava: sia che vincesse o perdesse, tutte le sere champagne francese. Era un patito della roulette, ho imparato tutto anch’io, perchè dovevo accompagnarlo. Ho anche vinto.

Alla sera si cenava e poi: Casinò! Quindi, fra una giocata e l’altra, sia per festeggiare che per tirarsi su di morale, andavamo avanti a champagne fino all’alba.

Unico neo, con la vita che facevamo, sono ingrassata di tre chili. E poi, come dire: molte fiches e poco sesso! Ma non c’era il tempo per pensarci.

La Pasqua, invece, l’ho passata a Capri. Un’altra volta, mi sono presa una settimana di vacanza e siamo andati ad Ibiza.

Ti dirò che quella volta ho avuto una sorpresa: lui non è venuto solo, ma accompagnato da una sua amica!

L’ho scoperto alla partenza.

Con quest’uomo, molto elegante e distinto, un po’ avanti negli anni, sarà stato sui cinquanta ma molto simpatico e giovanile, andavamo d’accordo. Sempre molto compìto, generoso e disponibile. Forse il migliore che abbia mai incontrato. S’era creato un buon rapporto d’amicizia, direi anche di complicità. Con lui parlavo liberamente, senza inibizioni.

E in tutto questo tempo, neanche un accenno, neanche un’allusione sulle sue intenzioni recondite. Ma non credo avesse avuto paura di parlarmene, penso più che altro che abbia voluto farmi una sorpresa e vedere come reagivo.

Cosi, quando li trovai all’aeroporto ad aspettarmi sorridenti e rilassati…..  Cosa vuoi che ti dica?

Un po’ ci ho pensato, un po’ non ci ho pensato. Ho fatto finta di niente, insomma. Anche perchè non volevo dargli la soddisfazione.

Lei era una donna elegante e carina, sui trentacinque. Quando il furbacchione, con un sorriso da schiaffi me l’ha presentata dicendo che veniva con noi, ho sorriso anch’io e, prendendo l’iniziativa, l’ho salutata con un bacio sulle labbra. Pensa un po’: in pubblico !

Fui colta di sorpresa ma, crepa se  lo lasciai apparire!

Durante il viaggio chiacchierammo come tra amici che si conoscono da sempre, loro furono particolarmente gentili. Forse perchè ero la più giovane o forse perchè erano tesi anche loro. Certo che io ero nervosissima, ma sono convinta di averlo mascherato bene. Pensavo alla notte, a quando fossimo arrivati in albergo. Come mi sarei comportata? Nota bene, non avevo problemi morali, avevo solo paura di non essere all’altezza, di sfigurare come una principiante cretina di fronte a quella donna bella elegante e sicura.

Bene, credimi o no, è stata una vacanza indimenticabile.

Poi ci siamo rivisti altre volte. Si, tutti e tre.

 

Ti scandalizzo ancora? Non credo. Anche perchè tu sei partita al momento giusto, lo sappiamo tutt’e due.

O al momento sbagliato.

Forse questo periodo della mia vita dissennato è stato anche colpa tua. O forse no. E’ stato meglio così, ci stavamo attaccando troppo, tu ed io. Certo che sarebbe stato tutto diverso. Comunque, così è. Inutile pensarci sopra: i “se” nella vita non esistono.

 

Ho continuato così per più di due anni.

Ogni tanto rincontravo vecchi amici, ma più spesso persone sconosciute. Non lo so, forse volevo il brivido: non sapere mai come sarebbe andata a finire.

Non sempre è stato piacevole, ho subito anche parecchie umiliazioni. Le ho sempre superate perchè ritenevo facessero parte del gioco: non mi porto piaghe addosso.

Lo dico senza incertezze. Forse sono o sono stata un’amorale. Ma cosa vuol dire, amorale?

Guai se stessimo a rimuginare sul passato. Il passato è morto. Se esiste, esiste solo nella nostra memoria, ma quella è labile e ci fa ricordare solo quello che vogliamo.

Forse era la ricerca del nuovo, chissà chi mi aspettavo di incontrare…..La noia, quella si. La noia insisteva sempre, perchè se le persone erano diverse, le situazioni erano sempre le stesse.

 

E poi?

Poi, niente. Ho sposato il Vincenzo.

Era un po’ che mi faceva la corte. Lo trovavo sempre sulla porta del negozio, tutte le volte che rincasavo, come se non avesse niente da fare e passasse tutta la giornata lì.

E’ un po’ paradossale, un po’ comico e un po’ triste. E’ un po’ tutto, ma penso che avesse messo gli occhi su di me ritenendomi una ragazza “seria”. Una di quelle che si possono sposare.

Da quando tu sei partita, le chiacchiere piano piano, se non finite si sono smorzate e, anche se la memoria dalle nostra parti è lunga, non lo è stata per lui.

Tutte le volte che ci incontravamo lui mi salutava con un sorriso, ed anch’io lo salutavo con un sorriso. Fino a che si è deciso e mi ha invitato a cena.

Ha portato a Udine anche me, ma in un ristorante elegante e caro. Lo so perchè ho sbirciato mentre pagava il conto: m’interessava sapere quanto valevo per lui.

La serata andò abbastanza bene. Il poverino si sforzava d’essere brillante. Ho apprezzato il suo impegno e mascherato la noia. Cosa vuoi, ero abituata a ben altro!

Parlò quasi esclusivamente di soldi, di quanto stava bene lui, di quanto rendeva il negozio. Sembrava un sensale che stesse parlando di un pretendente alla mia mano. Invece era il sensale di se stesso : mi fece tenerezza. Sarà che in quei due anni avevo accumulato una buona dose di sopportazione.

Al ritorno ero un po’ brilla e, anche se ero preparata a subire delle sue “avances” maldestre in macchina (mi ricordavo di te), non successe niente, neanche la famosa mano sotto la gonna. Anzi, quasi quasi mi avvilii e mi venne una mezza idea di prendere io l’iniziativa, se non altro per vedere come reagiva.

Ma me la feci passare.

Continuammo a vederci, fra cene e passeggiate in campagna la domenica. Dividevo il tempo fra i miei appuntamenti extra paesani e il Vincenzo. Pensa che mi ero talmente abituata alle sue scarse “avances” che la sera che provò qualcosa di più audace di qualche bacio lo respinsi.

Oddio, non fui fredda né feci proprio la verginella, anche perchè non ci sarei riuscita. Ma non lo lasciai andare più in là di tanto, sai cosa intendo. A ripensarci, devo essere stata l’unica al paese, a non darla al fidanzato prima delle nozze!

La sera dopo mi chiese di sposarlo.

Ci ho ripensato sopra parecchio, al comportamento tenuto col Vincenzo durante quel periodo. Ritengo di non aver programmato nulla, è stato un atteggiamento istintivo, il mio. Una difesa contro la vita che abbiamo noi donne.

Volevo farmi sposare. Di questo, ripensandoci, sono sicura, ma è stato un proposito nato dopo qualche mese. Confrontavo giorno per giorno la mia vita con la sua e la mia vita con lui mi appariva sempre più allettante, più sicura. Mi pareva di raggiungere il massimo delle mie aspirazioni.

Dal momento che mi chiese in moglie, cambiai da così a così. Se non uscivo con lui, ero solo casa e lavoro e la sera restavo a guardare la televisione in attesa di una  sua telefonata. Non ti dico mia mamma : gongolava da tutte le parti, sembrava un tacchino.

Per non parlare dei vari amici degli annunci: mi volatilizzai letteralmente. E mi fu facile perchè nessuno sapeva come e dove rintracciarmi. Ero sempre stata ben accorta a non lasciare il mio recapito, nemmeno a quelle poche persone con le quali avevo instaurato un rapporto particolare.

Ero innamorata? No è chiaro che no. Però.

Però c’era un sentimento per lui che non riuscivo a definire: forse riconoscenza, forse mi dava delle certezze di cui avevo sempre sentito il bisogno. Forse il pensarmi amata compensava la mia mancanza d’amore. O il sentirmi “moglie”.

Mi ci vedi a fare la moglie?

Eppure si. Tanto per cominciare lasciai il lavoro, anche perchè ero proprio stufa di farmi toccare il culo da quel cretino dell’Ernesto, con quella sua faccia da maialino in foia. Si sopporta finché se ne ha bisogno, ma poi basta!

Eppoi il Vincenzo aveva molti più soldi di quel che lasciava intendere in paese e, sicuramente, anche più di quel che diceva a me.

Così, ecco la villa col giardino, il cantinone e la camera per gli ospiti.

Fui subito una brava moglie perchè avevo deciso di voltare pagina. Mi ero calata nell’abito, come si dice, e sapevo che un’occasione uguale non mi sarebbe capitata più. Gli tenevo la casa come un gioiello. Una novità per me, sono sempre stata piuttosto sciattona. Imparai a cucinare e gli preparai dei buoni pranzetti, troppo buoni direi, perchè dopo pochi mesi aveva messo su una pancia che sembrava un bue.

In viaggio di nozze mi portò ad Ibiza. Io, inutile dirtelo, mi guardai bene dallo spiegargli che c’ero già stata ed…in quale compagnia!

Mentre eravamo a letto, ci pensavo e mi eccitavo il doppio.

Per qualche mese facemmo gli sposini. Poi mise le pantofole e riprese l’abitudine paesana di passare le serate al bar lasciandomi a casa da sola. Anche nel sesso il suo ardore si smorzò parecchio. Ma a me andava bene così: cercavo sicurezza e tranquillità. Avevo entrambe le cose e non volevo altro.

Una o due volte la settimana si assentava per affari, sai, fiere, mercati e cose varie. In quelle occasioni, spesso la sera tornava a casa di malumore e mi faceva scenate di gelosia: l’invidia aveva risvegliato la memoria del paese, magari con qualche aggiunta.

Ma io non diedi mai né a lui né a nessun altro motivo di chiacchiera e tutte le volte che era fuori per lavoro, andavo a trovare i miei suoceri, per dimostrare che ero sempre buona buona e disponibile.

Per i primi sei mesi, insomma, tutto è filato bene, malgrado alti e bassi, malumori e piccole incomprensioni.

Poco, penserai tu per una copia appena sposata. Ma, ripensandoci, non mi aspettavo di più. La nostra è stata l’unione di due solitudini. Qui, si sposano tutti e anche noi dovevamo farlo. Abbiamo cercato poco entrambi, perchè c’era poco da scegliere.

 

Ma per me la pace è di breve durata, anche se la cerco sempre. Deve essere il mio destino.

Una sera tornando da uno dei suoi viaggi d’affari, mi porta a casa un amico, un tale di nome Bruno, biondino alto e magro, di Pordenone.

Li salutai distratta e piuttosto seccata perchè erano arrivati senza avvertire, quindi preparai cena per tre. In fondo era un diversivo, la prima volta che avevamo un ospite, se si escludono i genitori.

A tavola mi accorgo che il Bruno, quando Vincenzo è distratto, mi guarda fisso, come per farmi intendere qualcosa, come per passarmi un messaggio cifrato che dovevamo conoscere solo noi.

Io mi sento a disagio, anche perché non mi pare un viso nuovo ma non riesco a collocarlo e, facendogli un sorriso di circostanza, m’impegna in cose inutili, pur di farlo desistere.

Mi da fastidio. Un fastidio fisico. Non perchè mi fissa: è lui per lui, dal momento che l’ho visto.

Come se avesse un difetto repellente che cerca di mascherare, ma senza riuscirci completamente.

Mi dico che è colpa mia, ormai poco abituata a frequentare.

Poi, il secondo boccone della bistecca mi resta in gola. Improvvisamente ricordo!

E certo che mi guarda fissa, che cerca  di mandarmi messaggi: era stato uno dei primi incontri tramite gli annunci, poco più di due anni prima.

L’avevo cancellato dalla mente, volontariamente. Così cancellato da non volerlo riconoscere.

Era stato uno di quegli episodi che bisogna dimenticare per non trovarsi l’esistenza rovinata. E io l’avevo dimenticato.

Fino a quella sera.

E’ un tipo che sporca.

Non mi voglio nascondere, ma credimi, non ero e non sono sporca dentro. Mi so ripulire, so rivivere se voglio, perchè io dipendo dalle circostanze.

Quello no, è uno tarato dalla nascita, che ci gode a sporcare gli altri.

 

Mi scrisse una bella lettera e quando c’incontrammo, scoprii anche che sapeva parlare bene. M’incantò con le parole. Contrariamente a tutti gli altri, non ci provò neanche a portarmi a letto la prima volta. Tant’è che lo richiamai dopo due giorni e ci rincontrammo la sera stessa; anche quella seconda sera chiacchierammo e ci comportammo come due fidanzatini : bacetti, strofinamenti, coccole….. senza andare più in là. Fu l’unica volta che contravvenni ai miei propositi e, lasciandoci, gli diedi il mio numero di telefono. Per fortuna gli avevo già dato un nome falso e non ebbi, in quel momento, il coraggio di dirgli il mio vero.

La stupida: mi vergognavo di avergli raccontato una bugia. Non volevo apparirgli diversa da quella che, io credevo, lui mi vedesse!

Era uno normale, capisci? Mi appariva così rilassato, così vero che avevo dimenticato come l’avevo incontrato. Mi dicevo : ” E perchè no? Sono io che ormai stravedo quei messaggi. Uno può anche chiamare veramente per conoscere.” E dire che non sono mai stata una sprovveduta, ho sempre avuto gli occhi ben aperti!

Per due settimane continuammo così: telefonate carine, incontri….Poi un giorno mi chiama e già per telefono usa un tono insinuante, pieno di doppi sensi, come se non ci conoscessimo, come se non ci fossimo già parlati di noi per tante ore. Come se il tempo passato insieme non fosse esistito.

Non lo capisco  ma rido e gli tengo il gioco, anche se provo un certo malessere nell’intuire che si sta eccitando.

“Ma alla fin fine, penso, è normale. Un gioco. Un po’ eccitata lo sono anch’io.”

Questo voglio pensare.

Per non fraintenderci, quel gioco lo conoscevo bene ed altre volte, con altre persone, mi aveva divertito, mi aveva anche eccitato, ma, come spiegarti la differenza?

Ecco! La differenza fra solare e notturno.

Solare è un aggettivo eccessivo, mentre notturno è troppo morbido, ma non voglio fare un dramma. Credo tu abbia capito bene comunque.

Per farla breve, dopo un quarto d’ora di telefonata dove i tentacoli escono dal telefono insieme a sbavate e mezze risatine tremolanti, mi accorgo che ha goduto, capisci, si stava masturbando ! Non mi scandalizzo per il fatto, mi scandalizzo per lui, credevo di conoscerlo e che fosse diverso. Poi, ci ripenso e mi viene anche da ridere ma non gli dico niente e ci diamo un appuntamento per quella sera.

Dubbiosa ma anche eccitata,  vado all’appuntamento in una vecchia casa di contadini nella campagna di Udine : mi apre nudo che si strige l’uccello in mano come per mantenerlo in erezione. Come un pensiero che mi sfugge, ho la sensazione che sia rimasto lì, in quelle condizioni per tutto il pomeriggio.

Non ho modo nemmeno di vedere la stanza dove mi ha introdotto che comincia con la mano libera, a toccarmi e a tentare di spogliarmi. Conoscendolo come credevo di conoscerlo, mi sento un po’ a disagio ma non gli oppongo resistenza più di tanto e, anche se rido e  cerco di divincolarmi, sono eccitata anch’io, eccome !

Infine cedo, seguo quello che credo il suo gioco e glielo dico ” se hai paura che scappi, te lo tengo io, mentre tu mi spogli con tutt’e due le mani!”

Lui non ride nemmeno, tant’è concentrato. Mi spinge sul letto, mi tira su le gonne, mi strappa gli slip e, riprendendoselo in mano me lo mette dentro. Anzi, me lo appoggia dentro che gode subito, senza nemmeno un sospiro.

Poi si mette a piangere.

Sono sconvolta. Era la prima volta che partecipavo a un tentativo di stupro su di me, perchè così mi apparve in seguito, almeno nelle intenzioni.

Ma lì per lì non capisco.

Sono sconvolta ma anche intenerita: quell’uomo così svuotato e indifeso sta provocando in me un istinto di protezione, l’istinto materno nascosto in ciascuna di noi, che prendo a cullarlo ed a piangere con lui.

Lo lasciai che dormiva e solo uscendo notai lo squallore della casa completamente in rovina, tranne quell’unica camera, arredata con drappi rossi alle pareti ed una moquette nera al pavimento.

Quella notte dormii male, mi svegliai la mattina con gli occhi pesti e feci due docce, pervasa da un malessere che non sapevo ancora definire.

Mi richiamò due giorni dopo: fu tenero dolce e persuasivo, nuovamente m’invitò a cena.

Accettai perchè in parte avevo smussato l’impressione della volta precedente e pensavo o speravo volesse scusarsi, o spiegarsi o, comunque, sto ora cercando di analizzare dei sentimenti che allora avevo confusi.

Il fatto è che andai all’appuntamento.

Mentre mangiavamo era nervoso e silenzioso. Avevo un bel cercare di parlare io! Ricevevo in risposta al massimo dei brevi cenni del capo, con le parole ridotte all’indispensabile.

Finita la cena mi portò immediatamente in quella vecchia casa dai drappi rossi e….. mi scopò all’inverosimile, con determinazione, come se stesse compiendo un lavoro che non riusciva a portare a termine.

Mi fece male e mi fece pena. Si, allora mi faceva anche pena.

Mi trattò come una bestia e io mi presi la bestia : mi sentivo così caduta in basso che ero pronta a tutti i suoi desideri, senza alcun piacere. Non pensavo, agivo anch’io come una macchina, col solo scopo di farlo godere.

Non pensavo a me, pensavo solo a lui, come se lui fosse l’unica cosa importante: il suo godere, una necessità imperativa.

 

Andò avanti così per più di due mesi.

Due mesi d’inferno e di desiderio. Tornavo a casa svuotata e sporca e, come la prima volta, il lavarmi non serviva a niente….. Ma rimaneva sempre più violenta la necessità di rivederlo. Si può dire che restassi attaccata al telefono in attesa di un suo squillo.

Poi, una mattina appena sveglia, come primo pensiero decisi di smetterla. Mi sentii improvvisamente guarita. Dalla sera alla mattina .

Proprio così: dimenticato. Non solo: ripulita.

Glielo dissi e da allora cominciò un altro tipo di persecuzione. Mi telefonava ogni giorno e ogni volta cambiava tattica. Poi cominciò a chiamarmi più volte nella notte, quand’era sicuro ch’ero in casa.

Bastava lo squillo del telefono a sconvolgermi. Alzavo la cornetta e la rimettevo giù, senza neanche sentire chi poteva essere, tanto ero sicura ch’era lui.

Passai un mese d’inferno, con la paura d’incontrarlo sulla porta di casa, per le strade del paese, all’uscita dal lavoro.

E dentro di me mi risentii sporca e nuovamente non c’era acqua sufficiente a lavarmi.

Ero perseguitata ma non potevo andare dai carabinieri e lui lo sapeva. Non avevo nessuno con cui parlare, raccontare, sfogarmi. Ero sola. Assolutamente sola per una confessione di quel genere.

Riuscii a far cessare le telefonate cambiando numero di telefono, ma lo schifo che mi portavo dentro durò molto più a lungo.

 

No, non è sempre stato un bel vivere. Nemmeno “tutto sommato”.

 

Ed ora me lo ritrovo di fronte a cena.

Dove l’ha incontrato il Vincenzo? Che tipo di rapporti d’affari può avere con questa persona?

A fatica continuo a mangiare, sentendomi il suo sguardo addosso. Probabilmente non è vero perchè c’è anche il Vincenzo e il più delle volte parlano tra di loro.

Io sto zitta ad ascoltare, cercando di comprendere il loro rapporto di lavoro, ma non ci capisco niente perchè non sono capace di pensare. Ho una paura matta che quel porco se ne esca dicendo che ci siamo già conosciuti, solo per vendicarsi.

Non parla, ma due giorni dopo, mentre Vincenzo è al negozio, ricevo una sua telefonata. E’ assurdo, ma tiro un sospiro di sollievo: sapevo che qualcosa avrebbe fatto, ma non cosa. Adesso saprò.

Sulle prima è molto contegnoso, distaccato, chiede del Vincenzo, ben sapendo che alle undici del mattino lui è al negozio, Poi, comincia a farmi complimenti sulla mia cucina, quindi sul mio aspetto fisico: “Sono bella, gli pare di avermi già conosciuta…” Io nego anche se so che la mia è una difesa inutile. Mi chiede se sono stata qua o là. La mia fisionomia non gli è nuova. Lui ha avuto una ragazza che mi assomigliava come una goccia d’acqua….

Anch’io ho un neo vicino all’ombelico? Un neo che lui cercava di asportarmi con la lingua? Entra nei particolari, mi ravviva i ricordi, mai dimenticati. Provo un sentimento di repulsione ma, non so cosa succeda in me, mi sto nuovamente eccitando!

Tremo che non riesco a controllarmi, neanche nella voce, ma nego, nego ad oltranza….

Più di tanto non posso, il porco, fra le parole mi fa anche capire che avrebbe potuto parlarne al Vincenzo, di questa somiglianza strabiliante. Mi chiede un appuntamento per il giorno dopo, “al solito posto” mi dice: ha buttato la maschera.

Accetto.

Quando poso il ricevitore mi sento molle e svuotata.

“Il passato ritorna sempre” dicono le vecchiacce di qui. Non hanno torto.

 

Cosi, due pomeriggi alla settimana incontro il Bruno nella sua casa diroccata arredata come un casino, riducendomi come una bestia priva di volontà. Gli altri giorni sono una brava moglie, una perfetta donnina di casa.

Nel tempo che non ci siamo visti, il Bruno ha affinato le sue perversità, forse perchè è ulteriormente peggiorato nelle prestazioni sessuali.

Credo prenda degli stimolanti, certi giorni è inesauribile, mi sento bruciare tutta, ma non ho un briciolo d’orgasmo, neanche un’ombra. Altre volte mi obbliga a travestirmi da uomo e lui si veste da donna. Vuole prendermi di dietro, come due pederasti al contrario o quasi. Poi ha le crisi depressive e mi piange in grembo, inondandomi di sperma e di lacrime tutto il corpo non riuscendo a trattenersi.

Non mi fa più pietà. Nessuna.

Con lui non ho mai goduto, ma è strano. Torno a casa che mi sento sporca come un maiale tutto il giorno nel fango. Sono disgustata e non ne posso più. Mi lavo e mi rilavo ma lo sento sempre sul mio corpo e dentro il mio corpo.

Quando sono sola in casa e penso a lui ( cosa a cui non posso rinunciare) piano piano, al disgusto subentra una eccitazione lenta che sale sempre di più e mi fa godere e godere mentre immagino di essere là, con lui che mi usa. Mi usa con la mia immaginazione, ancora più di quel che osa realmente. E il Vincenzo, poverino, non si accorge di niente. Non può accorgersi di niente perchè con lui riesco ad essere normale. Fingo, perchè ormai non riesco più a godere.

Povero Vincenzo e povera me.

E il Bruno, in tutto questo periodo si è insinuato nella nostra famiglia, è diventato amico intimo, ospite fisso molte sere la settimana. Qualche volta si invita anche nei giorni che ci siamo appena lasciati: vuole controllare, godere del mio stato.

Ma non do soddisfazione.

 

Finalmente dopo qualche mese, improvvisamente si stanca e mi caccia a schiaffi dalla sua baracca.

Se Dio vuole è sparito. Non lo sento più. Non chiama più. Anche il Vincenzo non ne ha più notizie. Non riesce a capacitarsene, il poverino!

Che dire?

Potrei dirti che mi sento sollevata, liberata, finalmente!

E’ anche così, ma non solo. Mi manca. Mi manca atrocemente. Mi chiedo una ragione ma non so darmene. Dovrei andare da uno psichiatra.

“Siamo bestie.” Penso.

Ho pensato che è così e con fatica mi sono messa l’animo in pace.

Lentamente sono tornai ad essere come prima dell’incontro con Bruno. Lentamente mi ricostruii una quotidianità. Cosi convincente che tre mesi dopo ero di nuovo io.

Cosi convincente che da lì a poco mi sentii stanca della solita vita, del Vincenzo che si assentava per i suoi affari, del Vincenzo che mangiava come un maiale, del Vincenzo che faceva footing tutte le mattine all’alba per tenersi comunque in forma, del Vincenzo che mi saltava addosso la notte del sabato puzzando di grappa, senza alcuna delicatezza, senza nessuna fantasia….

 

Così ripresi con gli annunci, stando però ancora più attenta, più selettiva, perchè il tempo era poco ed avevo un marito che non volevo perdere. Almeno lui.

Mio marito. Un punto fermo.

I giorni che si assentava lui, mi prendevo anch’io la mia vacanza. Cosa mi passasse per la testa non lo so. Più che altro ero convinta di non pensare. La noia, l’abitudine delle stesse cose tutti i giorni, il piacere del proibito, dell’inganno, il rimorso che sentivo (forse era quella la vera molla) quando tornavo a casa, il piacere di andare con uno sconosciuto che non avrei più rivisto, la possibilità di scatenarmi con uno di cui non m’importava niente.

Tutte cose che mi tenevano in vita.

Credo che in realtà andassi cercando un altro Bruno. Lo dico spassionatamente, senza falsi pudori. Un altro Bruno con quale invertire i ruoli, o almeno subirlo una volta sola e poi basta.

Finché un giorno ricevo una lettera da Vicenza che m’incuriosisce. Sai, una di quelle che ti fanno intendere incontri particolari senza parlarne chiaro. Ma ormai quel genere di letteratura non ha segreti per me.

Intendo che gli uomini sono due e che cercano una donna, per quali scopi non è chiaro: se per partecipare o solo per farsi guardare, i porconi!

Mi sento particolarmente stuzzicata e incuriosita. Penso che sono sempre in tempo a tirarmi indietro all’ultimo momento. Chiamo il numero di Vicenza. Mi risponde un certo tizio che dice di chiamarsi Giovanni. Capisco dalla voce che è giovane, pare anche simpatico, cosi gli do il solito appuntamento “di controllo” davanti all’ufficio delle poste di Udine, con un mazzo di rose rosse.

Posso controllare da una stradina laterale senza essere vista e, se mi vanno a genio, mi faccio riconoscere: sono io ad avere il coltello dalla parte del manico!

Mi dice chiaro che sarebbero stati in due e mi chiede con ironia chi dei due dovesse tenere in mano il mazzo di rose.

” Il più adatto!” rispondo io ridendo.

Ci lasciamo in allegria.

 

Alla posta di Udine, il giorno dopo sono appunto in due. Il giovane lo riconosco subito, anche se ho sentito solo la voce: è come l’immaginavo, un moretto poco più che ventenne dallo sguardo intrigante…….Anche l’altro, quello che porta in mano un mazzo di rose rosse, pendulo come un cazzo floscio, lo riconosco subito: è il Vincenzo, mio marito.

Si, mio marito. Il mio punto fermo.

Il perno della mia vita.

Resto lì ferma a guardarli come una scema.

Mi pare passino delle ore. Non riesco a staccargli gli occhi di dosso. Pare che li senta i miei occhi. E’ imbarazzato. Strascina i piedi ma non si muove, aspetta e quel mazzo di rose rosse gli finisce sempre più tra le gambe.

Finalmente riesco ad andarmene.

Torno a casa e mi metto a letto.

Quando lui rientra faccio finta di dormire.

 

Cara Luisa, tutto qua. E ora che ti ho raccontato mi sembra che non ci sia più nulla da dire. Tutto inutile. Dirti che non mi aspetto più nulla dalla vita mi suona melodrammatico, ma non mi aspetto più nulla.

Io, da sola, non la so affrontare eppure sono sempre qua. E il Vincenzo, col tempo ci ho pensato, non è da condannare, non fa altro che quello che ho sempre fatto io. Perché devo giudicarlo?

Non posso giudicarlo e tanto meno condannarlo.

Abbiamo ripreso una vita normale: io lo so cosa fa nei suoi viaggi d’affari ( anche il Bruno?), ma lui non sa che io lo so, quindi va tutto bene.

Nel paese nessuno sospetta nulla ed io, da parte mia, ho rotto definitivamente con gli annunci.

Faccio magliette e calzini per i bambini bisognosi e ciacolo con le vecchiacce e aspetto di diventare come loro.

Non posso nemmeno desiderare un figlio.

 

Addio e non ridere di me e non piangere.

 

Tua Ninetta.

 

 

 

 

  1. S. Non voglio avere tue notizie. Sei l’unica che mi resta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2 risposte a ROBERTO RODODENDRO, UN ROMANZO BREVE : — ——– LETTERA ALL’ALDILA’ ——” Cara Luisa, tutto qua. “

  1. Donatella scrive:

    Il racconto-romanzo mi sembra molto bello: riesce a rendere l’idea di un’estrema solitudine. I disegni di Mario sono vivaci e sembrano dire che la vita è ancora bella.

  2. Roberto scrive:

    grazie Mario ( e Chiara) sceneggiato, come al solito, molto coinvolgente!
    Ma ora una piccola annotazione per dimostrarvi quanto sono “rintronato”: banale scopro ora: pensavo di aver inviato solo “Scomparso”. Invece no, tutta o quasi la raccolta. . “lettera all’aldilà” pensavo di aggiornarla ma meglio così. Non avrebbe avuto senso.
    Piccola annotazione : se penserai di pubblicare anche “Se non qui, dove” dovresti togliere i corsivi. Inizialmente l’avevo immaginata come una piece teatrale ( motivo dei corsivi), poi l’ho corretto come racconto.
    Grazie ed ora ho capito anche il to messaggio su facebook!
    p.s. questo racconto l’avevo corretto per una mia amica attrice, come monologo.

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