ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 –8/9 APRILE 2017 —ANALISI SUL MEDIO ORIENTE

1. —PRIMO PIANO 08 APRILE 2017 Il Sole 24 Ore

L’ANALISI

Un’azione dimostrativa per riprendere la leadership

È sempre più evidente che la Siria è una guerra che nessuno può vincere e che la lotta al terrorismo non si combatte senza un accordo tra superpotenze in Medio Oriente, perché è da lì che tornano i foreign fighter e traggono ispirazione jihadisti e lupi solitari in azione in Europa. Gli eventi siriani e l’attentato a Stoccolma sono il simbolo di una spirale di barbarie da cui l’Occidente e la Russia devono uscire.
Al Pentagono sanno che non sarà un lancio di missili Tomahawk verso una base aerea a sbalzare dal potere Assad e neppure a cambiare le sorti della guerra. È uno “strike” utile a riallineare Washington con i suoi storici partner in Medio Oriente – Turchia, Israele e le potenze sunnite – assai scontenti di una politica troppo vicina a Mosca e favorevole all’Iran sciita. Soltanto pochi giorni fa gli Stati Uniti avevano detto a Erdogan e all’Onu che abbattere Assad «non era più una priorità di questa amministrazione» e che poteva essere un alleato contro i jihadisti: il che significava liquidare seccamente l’obiettivo di Ankara – già costretta a chinare il capo con Mosca e Teheran – e delle monarchie del Golfo. Un cambio di rotta repentino deciso da Trump ma forse soprattutto dai generali Mattis e MacMaster che conoscono a fondo la regione.
Mai negli ultimi sei anni gli Stati Uniti erano entrati con questa rapidità sullo scenario mediorientale, neppure quando i massacri venivano compiuti dal Califfato. L’idea di punire Assad per le armi chimiche è quella di lanciare un avvertimento a coloro che non obbediscono alla superpotenza americana, forse non a caso l’operazione è avvenuta mentre Trump riceveva il presidente cinese, ritenuto il protettore della Corea del Nord. Un’azione dimostrativa: del resto la guerra dal cielo e sul terreno gli americani la stanno già facendo all’Isis e le truppe speciali si trovano sul campo per l’assedio a Raqqa.
Un altro risvolto interessante è che i missili hanno colpito una base aerea ma non installazioni vitali a Damasco o il palazzo presidenziale. Per il momento Trump esita ad aprire un fronte più vasto. Ognuno reciterà la sua parte ma che Mosca possa mollare Assad è improbabile, visto che in Siria mantiene basi strategiche nel Mediterraneo. Tanto meno Teheran può abbandonare Assad: il clan alauita di Damasco è l’unico alleato arabo degli iraniani.
La punizione del regime farà piacere alla Turchia e alle monarchie del Golfo che per abbatterlo hanno sostenuto i jihadisti. Che poi i sauditi ammazzino tutti i giorni dei bambini yemeniti bombardando i ribelli Houthi non è un evento degno di nota nell’agenda occidentale. Israele, che dal 1967 occupa il Golan siriano, vede nell’attacco Usa un via libera ai raid e a un possibile attacco agli Hezbollah libanesi. La guerra all’Isis si incrocia di nuovo con quella ad Assad: ma sarà vera guerra o Trump ha solo mostrato i muscoli? La seconda ipotesi appare più probabile perché un cambio di regime a Damasco è un’impresa troppo impegnativa e dopo l’insuccesso di Bush junior in Iraq e di Obama in Libia forse gli americani qualche cosa hanno imparato.

Alberto
Negri

 

 

2. MONDO 09 APRILE 2017 Il Sole 24 Ore domenica

 

Assad, il nemico perfetto

Assad, in un certo senso, è il nemico perfetto. La Siria sembrava il terreno ideale per una guerra santa. Confina con Paesi ribollenti – Iraq, Libano, Turchia, Israele, Giordania – è a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza – gli alauiti – ritenuta eretica, alleata con l’Iran e con gli Hezbollah libanesi, un anello fondamentale della Mezzaluna sciita.
CoDue anni prima della rivolta del 2011, un ricercatore arabo, Nibras Kazimi, affermava che la Siria era il terreno ideale per una guerra santa. L’insurrezione, esplosa sei anni fa su basi popolari, era una sorta di tempesta perfetta per creare un nuovo Libano, con padrini esterni di ogni provenienza, arabi, turchi, potenze occidentali e orientali. Kazimi aveva pubblicato negli Stati Uniti un saggio dal titolo evocativo: “La Siria, nemico ideale dei jihadisti”: questo erano diventati Assad e gli alauiti con la guerra che poi avrebbe condotto al Califfato.
Per di più Damasco ha un’altra caratteristica decisiva: Mosca guarda alla Siria come a una sorta di “Jugoslavia araba”, un Paese cerniera tra il Mediterraneo e la Mesopotamia a stretto contatto con la Turchia, bastione Nato sul fianco sud-orientale. In Iraq i russi avevano forti legami venuti meno con la fine di Saddam nel 2003 mentre in Libia avevano perso nel 2011 un aggancio importante con il crollo di Gheddafi. Per questo sono interventi nel settembre 2015 a difendere un regime che garantiva basi militari strategiche. Dopo aver rinunciato a sostenere nel 1999 la Serbia di Milosevic, Mosca non voleva abbandonare la “Jugoslavia del Medio Oriente”, un antemurale nei confronti dei movimenti radicali sunniti della Cecenia e del Caucaso.
Né i russi né gli iraniani sono disposti ad abbandonare Damasco. Così come la traiettoria di Assad è legata agli Hezbollah libanesi che hanno in Siria la loro retrovia e costituiscono una spina nel fianco di Israele. Sono stati gli Hezbollah che hanno sostenuto l’urto della rivolta e liberato dai jihadisti i villaggi cristiani fedeli al regime.
Avversario storico di Israele, che ha occupato il Golan nel 1967, nemico giurato dei Fratelli Musulmani, dai tempi del massacro di Hama nel 1982, dello stesso Erdogan con cui Assad aveva stretto un’amicizia che sembrava indissolubile, alleato dell’Iran e della Russia, il regime di Damasco è un bersaglio designato che ha fatto di tutto per restare nel mirino. Quando esplose la rivolta, l’Occidente riteneva che Assad sarebbe stato spazzato via in pochi mesi, come Ben Alì, Mubarak e il già pericolante Gheddafi: fu così che iniziò l’afflusso dei jihadisti e dei foreign fighters ai confini tra Turchia e Siria, con i soldi dei sauditi e del Qatar e l’assenso di Parigi e di Washington che a Bashar preferivano gli affari con le monarchie del Golfo e i sunniti.
Gli esiti di questo calcolo sbagliato sono stati sconvolgenti. La Turchia, Paese della Nato, si è trovata a confinare con i suoi peggiori nemici, i curdi siriani “cugini” del Pkk, e costretta a inchinarsi a Putin. Assad al potere costituisce una sfida per gli Usa ma soprattutto per le potenze sunnite e Israele, i pilastri da 70 anni del sistema americano nella regione. Questa è la partita in Siria: la guerra civile e per procura si è trasformata in un conflitto dove si decide la supremazia tra Oriente e Occidente.

Alberto
Negri

 

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