MARK FISHER (1968-2017)—un pensatore che si è suicidato a 49 anni ( con un bellissimo figlio piccolo ) —volendo—qualcosa da riflettere ce lo darebbe…soprattutto sull’origine della violenza nella nostra società // e delle malattie mentali a cui questa violenza si puo’ riportare…

 

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Mark Fisher, 1968–2017

 

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Realismo capitalista

Mark Fisher

Traduttore:V. Mattioli
Collana:Not
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 24/01/2018
Pagine: 152 p.
EURO 13
Descrizione

È davvero più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo? E perché ci siamo ormai assuefatti all’idea che, per dirla con Margaret Thatcher, «non c’è alternativa» al sistema in cui viviamo? Da queste domande, prende spunto uno dei più incisivi e influenti saggi critici degli ultimi quindici anni: il manifesto politico ed estetico del filosofo inglese Mark Fisher.

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Il milionario. Chi fa ciò che ama è come un re

Mark Fisher

Traduttore:S. C. Perroni
Editore:Bompiani
Anno edizione: 2017
Formato: Tascabile
In commercio dal: 05/04/2017
Pagine: 144  EURO 9
 

RECENSIONE::: 

alida airaghi

05/02/2018

Questo best seller planetario deve la sua fama non solo allo stile semplice, accattivante, didascalico in cui è scritto, ma soprattutto al messaggio positivo e incoraggiante di cui si fa tramite. Il sottotitolo recita infatti “Chi fa ciò che ama è come un re”, sull’esempio di molta manualistica – soprattutto statunitense – di self help, di propedeutica all’autostima e al miglioramento del sé, lontana da qualsiasi approfondimento psicanalitico o indagine socio-politica, e vicina invece ai più blandi suggerimenti sul vivere bene che ci impartiscono quotidianamente i media. Il romanzo si presenta, sia formalmente sia nell’obiettivo didattico, come una fiaba a lieto fine. Racconta la storia di un giovane pubblicitario, squattrinato e privo di particolari doti fisiche-culturali-caratteriali, che insegue il sogno di diventare ricco, anzi ricchissimo. Come in ogni favola che si rispetti, il ragazzo si imbatte inaspettatamente in un mentore messianico, (il milionario, appunto): vecchio saggio che lo ospita nel suo castello e gli impartisce alcuni fondamentali insegnamenti, che sembrano ricalcare il programma berlusconiano del successo: “volere è potere”. Attraverso alcuni semplici esempi comportamentali, l’anziano capitalista trasforma l’ingenuo e sprovveduto giovane in un uomo consapevole delle proprie potenzialità, e destinato a vincere in ogni settore dell’esistenza, e soprattutto su se stesso. Sostanzialmente, i suggerimenti fornitigli sono quasi banali: praticare gentilezza, pazienza, generosità, precisione, parsimonia, semplicità, ottimismo, ambizione, fiducia nel caso, concentrazione, utilizzo di un linguaggio appropriato e di un vestiario elegante, amore per quello che si fa… Ma soprattutto l’esercizio dell’introspezione attiva, della solidarietà con il prossimo e dell’affidamento a Dio. Un vademecum facilmente applicabile da chiunque, che inevitabilmente (!) porterà al potere economico, alla serenità affettiva, alla benevolenza di tutti e verso tutti. O no?

L’ARTICOLO CHE SEGUE E’ TRATTO DA::: 

WWW. PRISMOMAG.COM

Filosofo, critico musicale, teorico politico, fan di Burial e autore di Capitalist Realism, Mark Fisher si è suicidato lo scorso 13 gennaio. Il ricordo di una delle personalità intellettuali più influenti e illuminanti degli ultimi anni.

Il suicidio di Mark Fisher non ci ha lasciato senza parole, anzi. Critico musicale e filosofo politico, negli ultimi anni insegnava Aural and Visual Cultures presso il Goldsmiths College di Londra; ha scritto su The Wire, Frieze e il Guardian, e fu il fondatore di un blog culturale seguitissimo, k-punk. In pochi giorni, molti di quelli che l’hanno conosciuto personalmente – ma anche semplici lettori e lettrici dei suoi post, dei suoi articoli e dei suoi libri – hanno ritenuto doveroso dire qualcosa sulla sua morte, un suicidio “raggelante” come l’ha definito Franco Bifo Berardi in un recente ricordo.

Nick Land, commentando l’evento, ha riassunto icasticamente la complicata traiettoria esistenziale di Fisher:

“La sua vita è stata un’estrema montagna russa maniaco-depressiva, che ha sempre tentato di razionalizzare cosmologicamente (e sociopoliticamente). Le fasi positive erano incandescenti e caratterizzate da un’energia oltre qualsiasi qualcosa che io abbia mai visto (o con cui mi sia confrontato). La fasi negative erano un inferno”.

Scritta da qualcuno che ha detto di essere ritornato dalla morte, questa affermazione assume un certo valore. Così come importanti e sincere sono la testimonianza di Robin Mackay, fondatore della rivista di filosofia Collapse e della casa editrice Urbanomic, quella di Alex Niven su Jacobin, quella di David Stubbs su The Quietus, o quella di Simon Reynolds che sul GuardianparagonaFisher a un “John Berger post-rave”. Sul suo blog, Reynolds ricorda:

“Ho incontrato per la prima volta Mark negli anni ’90, mentre stavo scrivendo un articolo sulla Cybernetic Culture Research Unit (CCRU). Anche all’interno di quell’ambiente carico di energia intellettuale, Mark emergeva per la sua eloquenza e per la sua insistenza. Già allora gli elementi caratteristici del suo lavoro erano evidenti nelle conversazioni e nelle pubblicazioni che scriveva per la CCRUla lucidità, il rigore e l’esuberanza, la capacità e la compulsione a connettere idee fra campi remoti del sapere, l’abilità di concentrarsi con vivida attenzione a particolari estetici e di allargare lo sguardo a un contesto il più possibile generale”.

E ancora:

“Il cammino dalla rabbia e dalla tristezza alla gioia collettiva ha preso una direzione terribilmente sbagliata in questo caso: abbiamo perso qualcuno che aveva tentato accuratamente di costruire e comunicare speranza, per se stesso e per gli altri. Ci sono molti che possono testimoniare la sua innata passione per il pensiero e per la creazione, la sua influenza positiva e il suo carattere sincero, spontaneo e generoso”.

Mark Fisher a Roma nel 2013.

Assieme a compagni di strada come il musicista Kode9 (futuro fondatore dell’etichetta Hyperdub), il filosofo Ray Brassier o il teorico afrofuturista Kodwo Eshun, Fisher aveva vissuto a pieno gli anni spericolati e sperimentali della CCRU, l’universo para-accademico cresciuto attorno al carismatico attrattore Nick Land; ma a differenza del catastrofismo inumano di quest’ultimo, Mark ha col tempo coltivato un atteggiamento gentile, amichevole e comprensivo, in una parola: pedagogico. Ha insegnato per molti anni filosofia e critical thinking a ragazzi in età adolescenziale, scontrandosi costantemente con il disinteresse e la disillusione verso la società, il futuro, l’economia e la politica. Forse questo lungo apprendistato gli ha permesso di inventare uno stile personale di scrittura, che legava assieme gli elementi più esoterici della filosofia politica contemporanea (Lacan, Jameson, Žižek, Badiou) con le sue passioni musicali, letterarie e cinematografiche.

Fisher è stato soprattutto un grandissimo educatore, che ti introduceva cordialmente alle sue fissazioni ricorrenti e alle sue nuove scoperte. Come ricorda ancora Simon Reynolds, aveva stabilito un canone di musicisti, registi, scrittori e programmi televisivi: eroi della prima jungle come Goldie, misteriosi figuri della scena dubstep come Burial (che fu tra i primi a intervistare in uno storico articolo del 2007), hauntologisti come The Caretaker, etichette discografiche come la Ghost Box, la serie Sapphire & Steel, Kubrick, Tarkovskij, Lynch, Nolan, Lovecraft, Wells, Dick. Nelle pagine del suo blog, nelle sue lezioni e nei suoi testi, Fisher analizzava soprattutto dettagli atmosfere, come in questa bellissima elegia della città di Suffolk. Landscape è una parola che ritorna spesso negli scritti di Fisher, così come atmosphere, usati per definire l’essenza o la sensazione che un incontro (con un luogo, una musica, una storia, un’immagine o un’idea) produce.

L’ultimo libro di Mark Fisher, appena uscito per Repeater Books.

Nel suo ultimo libro, The Weird and the EerieFisher sembra aver trovato una formulazione teorica per definire il carattere complessivo delle sue passioni:

“Lo strano, il misterioso [weird] è ciò che non quadra. Il carattere estraniante unisce al familiare qualcosa che ordinariamente si trova ‘oltre’ questo, e che non può essere riconciliato con la ‘familiarità’ (anche come sua negazione). La forma che caratterizza probabilmente in modo più appropriato lo strano e il misterioso è il montaggio – la congiunzione di due o più cose che normalmente non stanno assieme […] L’inquietante [eeire] ha a che vedere con l’ignoto; quando la conoscenza è completa, l’inquietante sparisce. Bisogna sottolineare però che non tutto ciò che è misterioso è allo stesso tempo inquietante. Deve anche esserci un senso di alterità, una sensazione che l’enigma possa involvere forme di conoscenza, soggettività e sensazione che si trovano oltre l’esperienza comune”.

L’inquietante, il misterioso e il perturbante sono elementi classicamente legati a quell’umore dell’animo che la medicina ippocratica aveva chiamato melanconia. Fisher è stato un grande autore melanconico, sia per le oscillazioni maniaco-depressive della sua psiche, sia per i luoghi e le idee alle quali era legato. Si prenda uno scritto come London after the rave, un’appassionata apologia della musica di Burial: che cosa piace a Fisher di questo artista? Probabilmente il senso poetico della narrazione di qualcosa di grandioso che è scomparso. Un frammento musicale in loop, il rumore del vinile, un’idea vaga di quella che doveva essere stata la rave culture (che Fisher aveva invece conosciuto in prima persona).

Burial, ‘Distant Lights’, Hyperdub 2006.

La presenza fantasmatica di un evento colossale che oggi si è sbriciolato, corroso, diventando completamente irrecuperabile: questo è quello che Fisher cercava nelle sue ricerche culturali e filosofiche. Questa fascinazione per le rovine lo porta a estendere la nozione derridiana di hauntologie (di cui si è già parlato su Prismoqui e qui) a musiche, film, luoghi, persone. Per Fisher il presente è infestato dalle rovine delle utopie passate, dal ricordo di un periodo storico nel quale il capitalismo non costituiva l’unica traiettoria pensabile.

Capitalist Realism, Zero Books, 2009.

Contrapposta a questa visione nichilistica e romantica dell’industria culturale, c’è sempre stata da parte di Fisher un’incrollabile speranza di ricreare l’Utopia, di riprendersi il futuro che ci è stato sottratto. Di qui l’ipotesi su cui si regge Capitalist Realism, il suo libro più famoso: la disillusione, la perdita delle spinte utopiche, l’individualismo tossico non accadono singolarmente a me o a te che stai leggendo, ma ci colpiscono strutturalmente, collettivamente. Gli effetti di quel “realismo capitalista” per il quale, come da celebre massima, “there is no alternative” al sistema neoliberale, forniscono a Fisher lo spunto per proiettare malattie come la depressione (di cui egli stesso soffriva) in una prospettiva che non fosse semplicemente medica-individuale:

“Invece di accettare la vasta privatizzazione dello stress che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni, dobbiamo chiederci: come è diventato accettabile che così tante persone, e specialmente così tanti giovani, siano ammalati? La ‘piaga della salute mentale’ nelle società capitaliste dovrebbe suggerire che, invece di costituire l’unico sistema sociale che funziona, il capitalismo è intrinsecamente disfunzionale, e il prezzo della sua apparente funzionalità è molto alto”.

Riconoscere la natura collettiva del torto, portare alla luce le dinamiche di classe, inventare una nuova forma di egemonia culturale, è la cura che Fisher propone a partire dalla sua diagnosi del presente.

‘Tutto questo è temporaneo’: Mark Fisher a Londra nel 2016.

Tutto questo è temporaneo: così recita il titolo di una lezione che è possibile reperire su YouTube. Già, ma come, e a che prezzo? Riflettendo sul modo per concludere questo articolo, ho pensato all’ultimo, devastante libro di Franco Berardi, Heroes: suicidio e omicidi di massa.

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BALDINI & CASTOLDI, 2015—15 EURO

 

 

 Il libro di Bifo parla chiaro: dietro e all’origine della furia omicida degli ultimi anni – dal massacro di Columbine alla strage di Orlando, passando per Charlie Hebdo, l’ISIS, e pazzi come Andreas Breivik – c’è la mano visibile del neoliberalismo. Anche dietro il fenomeno degli hikkikomori – i ragazzi giapponesi che vivono chiusi in casa per paura di fallire nel mondo esterno – c’è la stessa impronta del capitale. Non solo: i casi di depressione nel mondo sono raddoppiati negli ultimi trent’anni: indovinate di chi è la colpa?

Dalla pagina Facebook L’angolo del buonumore con Bifo.

Intendiamoci: non è che Bifo abbia torto, anzi. È che il nichilismo che pervade Heroes è talmente totalizzante che l’unica cosa che si può fare dopo averlo letto, oltre a disperarsi, è riderci sopra. Che poi è anche in generale quello che Bifo stesso consiglia, sia nella conclusione del libro (vedi i suoi passaggi sulla “ironia distopica”), sia nella sua produzione precedente.

Ebbene: negli stessi giorni in cui Fisher si è suicidato, in Italia, nella provincia di Ferrara, due adolescenti hanno compiuto un omicidio – l’uno ha pagato l’altro perché uccidesse i propri genitori, coi quali da anni non c’era dialogo. Di questa pessima vicenda mi è rimasto particolarmente impresso un dialogo. Al momento della confessione, il ragazzo che aveva pagato l’amico per ammazzare i genitori, rispondendo a una domanda dei pm dalla quale sarebbe dipeso il suo futuro, sbotta: “Ma di che cazzo di futuro state parlando?”.

Ghosts of My Life, Zero Books, 2014.

L’introduzione a Ghosts of My Life, il secondo libro che Fisher ha pubblicato con Zero Books (casa editrice che lui stesso aveva contribuito a fondare), riprende proprio un’espressione di Bifo, La lenta cancellazione del futuro”, per definire il carattere di quel periodo storico che comincia con gli anni Ottanta e continua fino ai nostri giorni. Un periodo che coincide con lo sviluppo e la diffusione dell’ideologia neoliberale:

“Il programma neoliberale di Thatcher è stato rinforzato dalla ricostruzione transnazionale dell’economia capitalista. Il passaggio al cosiddetto post-fordismo – con la globalizzazione, l’informatizzazione ubiqua e la precarizzazione del lavoro – ha portato a una completa trasformazione nel modo in cui il lavoro e il tempo libero erano organizzati. Negli ultimi 10, 15 anni, allo stesso tempo, Internet e le tecnologie della telecomunicazione hanno alterato la tessitura dell’esperienza quotidiana oltre qualsiasi previsioneNonostante, anzi, a causa di tutto questo, c’è la crescente sensazione che la cultura abbia perso l’abilità di comprendere ed articolare il presente. Oppure potrebbe essere che, in un senso molto importate, non c’è più alcun presente da comprendere e da articolare”.

Happiness Machines, da The Century of the Self di Adam Curtis, 2002.

Nel 2002 escono due documentari in qualche modo complementari: Bowling for Columbine di Michael Moore e The Century of the Self di Adam Curtis. Il primo ricerca le origini sociologiche e culturali del massacro alla Columbine High School avvenuto il 20 aprile 1999, il secondo invece analizza i rapporti fra la teoria psicanalitica e le tecniche di propaganda e controllo delle masse nell’emergenza della società consumistica. I due studenti che compiono il massacro di Columbine vengono giudicati dai compagni di classe come individui strani ed asociali, in altre parole: perdenti. Cresciuti in un ambiente e in una cultura individualistica e nella quale basta andare al supermercato per comprare delle pallottole, i due non trovano niente di meglio da fare che dimostrare di essere dei vincenti sparando a caso ai loro compagni di classe.

La dicotomia fra vincenti e perdenti, fra chi ce l’ha fatta e chi è inutile, fra chi ha svoltato e chi ha le pezze al culo, diventa l’unica norma sociale di quella competizione generalizzata che costituisce la nostra società post-democratica. Ci sono solo gli individui cui l’unica opzione che si presenta è quella di sfondare. Solo che a forza di sfondare, qualcuno rischia di farsi molto male. Fisher aveva analizzato questa situazione affermando che, diversamente dalla teoria politica di Deleuze e Guattari, il capitalismo contemporaneo non sarebbe schizofrenogenetico, ma bipolare. Fisher definiva lo stato emotivo dei suoi studenti “edonismo depressivo”: un insieme di consumo ininterrotto di prodotti culturali (musica, cinema, giochi, messaggi, informazioni) che costruiscono un guscio protettivo composto da continue scariche di novità. All’esterno di questo rumore bianco di sottofondo, la vasta wasteland della disoccupazione, delle diseguaglianze e della depressione. Ragiona Fisher prendendo spunto dall’iconografia gangsta rap:

“Il gangsta rap non riflette meramente condizioni sociali preesistenti, come molti dei suoi sostenitori affermano, né semplicemente causa queste condizioni, come argomentano i suoi critici; piuttosto il circuito secondo cui l’hip hop e il campo sociale del tardo capitalismo si nutrono vicendevolmente è uno dei mezzi che permette al realismo capitalista di trasformare se stesso in una specie di mito anti-mitologico”.

In uno di quei cortocircuiti fra high and low culture che piacevano a Fisher, mi sembra che si manifesti nel modo più crudo il nucleo sociale e culturale del realismo capitalista.

In The Neon Demon, film di Nicolas Winding Refn uscito nel 2016, assistiamo al violento omicidio di una giovane e bellissima aspirante modella da parte delle sue competitors. Esclusa la fotografia elettrica da videoclip e la colonna sonora di Cliff Martinez, il film non è un granché. C’è però una frase cruciale, pronunciata da uno stilista:La vera bellezza [sarebbe meglio tradurre ‘la bellezzavera’, ndr] è la valuta più quotata che abbiamo”. In un contesto completamente differente, sempre nel 2016, la Rai trasmette un servizio sulla Dark Polo GangRispondendo alle domande dell’intervistatore su chi sono e cosa fanno, un membro della band dice: “Noi siamo i soldi”. Dicono anche che nei loro pezzi “non c’è alcun messaggio” e che il loro obiettivo è “vincere per sempre”. Anche queste due ultime frasi hanno il loro peso, ma “noi siamo i soldi” è particolare, così come è particolare l’equazione fra moneta e bellezza.

 

Questi due casi, lontanissimi geograficamente e culturalmente, attestano la svolta hobbesiana del tessuto immaginario. Vincere ad ogni costo, essere visibili ad ogni costo, e infine: trasformare se stessi in pura unità di scambio universale, una moneta vivente, avrebbe detto Pierre Klossowski.

Ma cosa succede se si perde? Cosa succede se la moneta che si è diventati viene svalutata? Succede che la violenza irrompe sfondando gli schermi protettivi della (auto)narrazione e si rivolge contro di sé o contro gli altri. Queste narrazioni sono fragili, individualistiche, bipolari, così come lo sono le nostre esistenze. Fisher aveva trovato una chiave per smontarle e aveva anche provato a indicarci quali fossero per lui le immagini, le storie e le musiche opposte al realismo capitalista. Si trattava di opere frammentarie, a volte nostalgiche, strumenti per prendere coscienza dello stato disastroso delle cose. Ma questo era solo un lato: la coscienza della crisi avrebbe dovuto condurre a un vasto progetto di riscrittura dell’immaginario, che si è in parte manifestato nell’hype accelerazionista (alla cui esistenza Fisher ha dato un contribuito molto importante).

Come si diceva negli anni ’70 in riferimento alla morte dell’anarchico Pinelli, Fisher è stato suicidato. Ora sta a noi riscattarlo: “They have disappeared, and their disappearances will leave haunting gaps, eerie intimations of the outside”.

Un fondo per sostenere la famiglia di Fisher è stato organizzato da amici, colleghi e parenti. Potete contribuire qui.

Tommaso Guariento
Tommaso Guariento è nato a Padova (1985). Ha conseguito un dottorato in Studi Culturali all’Università di Palermo. Vive fra Padova e Parigi. Ha collaborato con Effimera e Il Lavoro culturale. Si interessa di immagini, antropologia e filosofia politica.
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