www.quirinale.it ::: INTERVENTO DEL PRESIDENTE MATTARELLA A DOGLIANI NELL’AVVERSARIO DELL’ENTRATA IN CARICA E DEL GIURAMENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA LUIGI EINAUDI

 

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LUIGI EINAUDI, 1951

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IL PRESIDENTE MATTARELLA OGGI A DOGLIANI, 12 MAGGIO 2018

 

Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia in occasione dell’anniversario del giuramento e dell’entrata in carica del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi

 Dogliani 12/05/2018

 

Saluto e ringrazio il Sindaco e, attraverso di lui, tutti i cittadini di questo splendido territorio. Ringrazio il Presidente della Fondazione Einaudi, Prof. Filippi, con l’apprezzamento e la riconoscenza per l’attività della Fondazione. Saluto in modo particolare i rappresentanti della famiglia Einaudi presenti: è un privilegio che siano qui, insieme a noi, a ricordare questo grande Presidente della Repubblica.

Un saluto a tutti gli intervenuti.

Un pensiero a tutti i sindaci della zona che sono interpreti delle ansie di autonomia che il Presidente Einaudi sosteneva con chiarezza e con forza.

Il prof. Salvadori ha tracciato in maniera efficace, suggestiva, in breve tempo ma con completezza, la fisionomia di un uomo di cultura, prima ancora che dell’economista e dell’uomo delle istituzioni, del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.

Ricordiamo oggi il nostro grande concittadino a cui è toccato, allora, con Alcide De Gasperi, il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata.

Primo dei tre presidenti della Repubblica piemontesi, al figlio di questa terra delle Langhe, ricca di tradizioni patriottiche, è toccato il compito di impersonare la più alta magistratura dello Stato dopo il tramonto della monarchia.

Al figlio del Trentino, De Gasperi, invece, quello di indicare le scelte fondamentali che avrebbero permesso al popolo italiano la più lunga stagione di progresso mai conosciuta dalla penisola italiana.

Non fu un compito facile il loro.

Rendere omaggio oggi, nel 70° anniversario del giuramento del primo Presidente della nostra Repubblica disegnato dalla Costituzione, significa riflettere sui caratteri della nostra democrazia, che reca i segni incancellabili del suo magistero.

Era, quella italiana, una democrazia in bilico.

Erano avvenute scelte divaricanti, con la formazione di governi che avevano lasciato alle spalle la straordinaria condizione di unità tra le forze politiche rappresentata dal Comitato di Liberazione Nazionale.

I risultati delle elezioni generali del 18 aprile 1948 avevano rappresentato lo spartiacque che avrebbe segnato i decenni successivi della nostra vita democratica.

E la democrazia uscì vincente dalla prova.

Difatti, la divaricazione tra le forze politiche chiamate a guidare il Paese e le forze politiche alle quali era assegnato il ruolo di opposizione non si tradusse mai in una democrazia dissociativa che avrebbe reso la Repubblica fragile e debole.

A Luigi Einaudi non erano mai mancati riconoscimenti per la sua attività pubblicistica, accademica, di economista, di uomo delle istituzioni.

Vorrei mettere in luce qui, piuttosto, il senso della sua lezione, dettata dallo “scrittoio” del Presidente, come è il titolo di un suo famoso libro.

Il nuovo ordinamento costituzionale suggeriva, anzitutto, una riflessione sul carattere delle prerogative che accompagnavano la funzione presidenziale.

Si può prendere, a buon titolo, lo scritto con cui, nel 1956, Einaudi, all’indomani della conclusione del suo mandato, si intratteneva, dalle pagine della Nuova Antologia, sul Senato vitalizio di epoca regia.

Riferendosi alla prerogativa del sovrano (e, vien da pensare, interrogandosi implicitamente sul ruolo del Presidente della Repubblica), osservava che essa: “Può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé, non sono capaci di affrontare, o per ristabilire l’osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza”.

Questa riflessione di Einaudi indicava come avesse ben chiaro, all’inizio del suo mandato di Presidente della Repubblica, di interpretare un’esperienza senza precedenti: essere il moderatore dell’avvio della vita dell’Italia repubblicana.

Nella sua opera di costruzione dell’equilibrio tra i diversi organi costituzionali, lo statista di Carrù sapeva che i suoi atti avrebbero fissato i confini all’esercizio del mandato presidenziale, per sé e per i suoi successori.

Con la discrezione e la fermezza che lo caratterizzavano diede vita a un dialogo di permanente leale collaborazione istituzionale, proponendo una penetrante “moral suasion” nei rapporti con il governo, a partire dall‘esercizio del potere previsto all’art. 87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa.

Consigli, previsioni, esortazioni che gli valsero, da taluno, la definizione di pedante.

Una valutazione che Einaudi respingeva nella convinzione che le osservazioni al governo non avevano mai, diceva: “Indole di critica, sibbene di cordiale collaborazione o di riflessioni comunicate da chi, anche per ragioni di età, poteva essere considerato un anziano meritevole di essere ascoltato”.

Einaudi rinviò due leggi approvate dal Parlamento, perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell’art.81 della Costituzione.

Una presidenza tutt’altro che “notarile”, come dimostrò anche la vicenda del diritto di nomina dei cinque giudici di spettanza del Presidente, secondo il disposto dell’art. 135 della Costituzione.

La questione portò, nel 1951 – in occasione della legge che integra quell’articolo, poi approvata nel 1953 – a un aperto contrasto con il governo e si concluse, secondo i suoi desideri e le sue decisioni, con la piena conferma dei poteri del Presidente stabiliti dalle norme costituzionali.

Cercando sempre leale sintonia con il governo e il Parlamento, Luigi Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario.

Fu il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo le elezioni del 1953. Nomina per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Democrazia Cristiana.

Fu un passaggio di un esecutivo di pochi mesi, guidato dall’ex ministro del Tesoro, Giuseppe Pella, e che portò al chiarimento politico con la formazione di una maggioranza tripartita che governò, con Mario Scelba, sino alla scadenza del settennato dello stesso Einaudi.

Tale l’importanza che attribuiva al tema della scelta dei ministri, dal volerne fare oggetto di una nota verbale, da lui letta il 12 gennaio 1954, in occasione dell’incontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana, rispettivamente Aldo Moro e Stanislao Ceschi, dopo le dimissioni del governo Pella.

E’, scrisse in quella nota: “Dovere del Presidente della Repubblica evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

Sin dal suo messaggio alle Camere riunite in occasione del giuramento, giusto settant’anni or sono, il presidente Einaudi ricordò il ruolo affidatogli di “tutore” dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica e sottolineò i principi solenni contenuti nella Costituzione.

Ed ebbe a dire: “Conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza”.

Parole straordinariamente e perennemente attuali.

Il costituzionalismo di Luigi Einaudi, testimoniato dalla sua attivissima partecipazione al dibattito dell’Assemblea costituente, si può riassumere nel binomio libertà e buongoverno.

Due elementi che esprimevano le convinzioni più profonde dello studioso Einaudi: solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi.

Einaudi aveva segnalato, in uno scritto su “La Città libera” nel 1945 – a proposito dei contrappesi istituzionali – che: “I freni hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori”.

E continuava, evocando un messaggio degli uomini del passato a quelli del presente: “Tu non potrai operare a tuo piacimento…tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello Stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più”.

Questa visione lo porta, sin dal suo rientro a Roma dall’esilio svizzero, per assumere l’incarico di governatore della Banca d’Italia, il 10 dicembre 1944, a battersi per una ricostruzione morale basata sulle autonomie, sulla difesa del mercato e delle libertà fondamentali, a cominciare dalla libertà di stampa e di insegnamento.

Nel suo “Riflessioni di un liberale sulla democrazia” (1946), osservava: “Se al tremendo pericolo della tirannia sempre imminente nelle società industriali moderne…vogliamo fuggire, importa fare ogni sforzo per conservare e ricostruire le forze sociali e politiche indipendenti dallo Stato leviathano: dar forza e vigoria alla persona umana, agli aggregati umani di cui l’uomo fa veramente parte, la famiglia, la vicinanza, il Comune, la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, di fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa. Gli uomini hanno bisogno di non sentirsi isolati, atomo fra atomo, numero fra numero”.

Il suo pensiero si presenta influenzato dalla tradizione del cattolicesimo liberale e, in qualche modo, dalla sua “piemontesità”, dalla radice risorgimentale che diviene dimensione intellettuale e senso di appartenenza alla terra di origine, come dimostra l’amore che ha avuto per questi luoghi. Non a caso ne vogliamo onorare oggi la figura.

Einaudi appare fortemente segnato dal timore del ritorno di spinte all’autoritarismo, in una dimensione che i commentatori odierni potrebbero riferire alla sconsiderata formula – pur inconsistente e insostenibile – della “democrazia illiberale”.

Di qui il suo profondo convincimento avverso all’assemblearismo.

Cito dal suo scritto “Il mito della sovranità popolare”, del 1947: “Non può essere verità assiomatica un principio il quale conduce alla meta ultima del governo d’assemblea… Noi sappiamo che il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza”.

Un argomento che portava a sostegno della sua avversione contro il mandato imperativo, che definiva “la morte dei parlamenti”.

E’ un richiamo forte, il suo, a cogliere la differenza tra il totalitarismo e la libertà.

Cito dal suo testo “Scuola e libertà”, del 1956: “Il totalitarismo vive con il monopolio; la libertà vive solo perché vuole la discussione tra la verità e l’errore…Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste finchè esiste la possibilità della discussione, della critica”.

E sul rapporto tra verità e libertà tornava nella sua lezione a Basilea, dedicata a “Gian Giacomo Rousseau, le teorie della volontà generale del partito guida e del compito degli universitari”, nello stesso 1956, in occasione della consegna della laurea Honoris causa.

Disse: “Troppo spesso i politici sono persuasi non solo di dover ricercare la verità, ed è persuasione giusta e feconda, ma di conoscere già ‘quella’ verità, ‘una’ verità, e di non poterne tollerare la negazione. E questo è pericolo mortale… La verità vive solo perché essa può essere negata. Essendo liberi di negarla a ogni istante, noi affermiamo, ogni volta, l’impero della verità”.

Europeista e federalista, il presidente avvertì fortemente il senso dell’autonomia dell’Europa rispetto al conflitto che opponeva le due superpotenze dell’epoca: non concepiva l’idea che potesse bastare la protezione degli Stati Uniti d’America a garantire ciò che, a suo giudizio, gli Stati nazionali non erano più in grado di assicurare ai loro cittadini, ciascuno da solo: sicurezza, libertà e benessere. La civiltà europea avrebbe potuto salvarsi dall’autodistruzione soltanto collocandosi nella prospettiva dell’integrazione e perseguendo la via degli Stati Uniti d’Europa.

Affermava (nel 1954), nel suo ultimo scritto europeista, dedicato alla ratifica della Comunità Europea di Difesa: “Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente a impedire l’unione…?”

Un testo che conserva un’incredibile freschezza, a sessant’anni di distanza.

Luigi Einaudi ispirò il suo mandato ad uno stile semplice schietto, del quale troviamo ampia traccia nel suo volume “Lo scrittoio del presidente”.

Uno spirito di profonda umanità, di vicinanza costante alle difficoltà ardue che la popolazione affrontava nell’Italia del dopoguerra.

I complessi problemi legati alla ricostruzione, le campagne nazionali contro la tubercolosi, a favore dell’infanzia abbandonata, dei profughi giuliani e dalmati, trovarono puntuale ascolto e riscontro al Quirinale, dove il Presidente utilizzò più di un terzo della dotazione annua della Presidenza della Repubblica a questo scopo, inclusa l’importazione di medicinali reperibili diversamente, all’epoca, solo al mercato nero. Così come particolare impegno – e vi si impegnò con forza – richiese la devastante alluvione del Polesine.

I coniugi Einaudi aprirono il Quirinale ai più poveri. Ai “mutilatini”, agli orfani di guerra, a vecchi e bambini delle borgate romane, organizzando pranzi in loro onore, soprattutto in occasione del Natale e della Befana.

Parlò agli italiani dalla radio, inaugurando anche la prassi dei messaggi di fine anno, con auguri brevi, asciutti, essenziali, diretti a “ogni italiano, entro e fuori i confini della Patria”. Era allora un periodo di forti migrazioni dal nostro Paese.

Esponente della cultura antifascista, firmatario del Manifesto promosso da Benedetto Croce, Luigi Einaudi, senatore del Regno, non mancò alle sedute in cui manifestare dissenso a provvedimenti liberticidi, come nel 1928, quando venne approvata la riforma elettorale che introduceva la lista unica dei candidati approvata dal Gran Consiglio del fascismo o su provvedimenti contro l’umanità, come le leggi razziali del dicembre 1938.

Ricercato dai nazisti nel settembre 1943, fu rifugiato in Svizzera per contribuire poi, da Governatore della Banca d’Italia, alla ricostruzione del Paese.

Uomini eccezionali per stagioni eccezionali.

Luigi Einaudi fu uno di questi uomini.

Un patriota, consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica.

La Repubblica oggi gli rende omaggio, come a uno dei Padri costituenti che hanno fatto dell’Italia un grande Paese.

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