ANTONIO GNOLI, REPUBBLICA -ROBINSON 22 LUGLIO 2018, pp. 64-65 INTERVISTA IL GRANDE ORIENTALISTA RANIERO GNOLI (ROMA, 1930)

 

Raniero Gnoli (Roma1930) è un orientalistastorico delle religioni e indologo italiano.

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RANIERO GNOLI CON SUA FIGLIA, LA STORICA SOFIA GNOLI

 

REPUBBLICA –22 LUGLIO 2018—ROBINSON,  pp. 64-65

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22/7/2018

ROBINSON

Raniero Gnoli

 

di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli (che non abbiamo trovato, pazienza…)

 

La particolarità di Raniero Gnoli – dal quale mi divide oltre le sterminate competenze letterarie e religiose, anche il benché minimo grado di parentela – è nel perfetto equilibrio tra una mente agile e policroma e la duttilità delle sue mani con cui realizza meravigliosi e a volte stravaganti manufatti. Raniero, tra i più grandi orientalisti europei, vive a Castel Giuliano non distante dal lago di Bracciano, in una casa ampia e aristocratica. Dopo i suoi lunghi soggiorni in India, nel Nepal, perfino in Sudafrica dove a quanto pare sposò la sua prima moglie (ne ha avute tre), ha trascorso lunghi periodi a Roma dove ha insegnato indologia alla Sapienza. Nel salone, rinfrescato dall’ombra, dove chiacchieriamo, noto alcuni oggetti di sua fabbricazione: « Quella che vede, lì sospesa e sorretta da un filo, è una sfera armillare che ho costruito su un modello che per primo fornì un frate che visse nella seconda metà del ’600, Vincenzo Coronelli, cartografo e geografo, inventore di globi». Faccio una certa fatica a collocare quell’oggetto a una sua funzione. «Serviva», mi dice a mo’ di spiegazione, «per conoscere la composizione del cielo e della terra. Strumenti che appassionarono per la loro bellezza anche grandi sovrani come il Re Sole » . Un riverbero sostanzioso di questo discorso lo si ritrova, almeno nello stile mentale, in quel libro memorabile che è Marmora romana con cui La nave di Teseo inaugura Le costellazioni una nuova collana diretta da Vittorio Sgarbi. Proprio Sgarbi appone una bella prefazione al lavoro di Gnoli.

Quando nasce questa passione per i marmi?

«Da bambino costringevo mio padre a portarmi al Foro romano a cercare pezzetti di marmo. Mio zio mi donò il libro sulle pietre antiche di Faustino Corsi. Mi incuriosiva la ricerca su un mondo che non aveva eguali, per bellezza e profondità. Era parte di una storia che gli studiosi avevano trascurato».

Che lei affrontò in che periodo?

« Negli anni Sessanta. Cominciai allora a raccogliere le pietre e a studiarle. Intrapresi viaggi prima in Italia, nella villa imperiale di Piazza Armerina e a Ravenna, in seguito in Medio Oriente e in Africa. Viaggiai a lungo e faticosamente nei posti più estremi, ma allora tranquilli come la Siria e il Libano; mi inoltrai nel deserto egiziano e tunisino alla ricerca di cave che potessero saziare la mia curiosità».

Viaggiava in che modo?

«A volte solo, più spesso accompagnato da qualche esperto locale. Durante un viaggio, alla scoperta di una cava di porfido, venne con me un geologo di fede copta. Attraversammo il deserto con una jeep dormendo su dei pagliericci infestati dagli scorpioni. Al mio prevedibile disappunto il copto reagiva insultandomi e accusandomi di effeminatezza. Da queste ricerche è nato Marmora romana che vide la luce una prima volta nel 1971».

Fu giudicato un evento.

«Nel suo piccolo lo fu. Ad appezzarlo furono con mio grande piacere Giuseppe Tucci e Mario Praz, i miei due maestri. Infine il libro scatenò involontariamente una vera e propria moda per i marmi».

Bellezza a parte, qual è la loro importanza?

«Si potrebbe dire che la diffusione, per quanto selettiva, di queste pietre policrome rappresentò l’affermarsi di un’arte dell’arredo. A Roma e poi a Costantinopoli se ne diffuse rapidamente l’uso. Una tale sgargiante esibizione non poté passare inosservata agli occhi di coloro che videro in quelle manifestazioni lussuose il primo segno della mollezza. Catone, Orazio, Virgilio, Cicerone – i poeti che avevano a cuore la virtus romana – lamentavano la decadenza dei loro tempi. Anche Plinio nella sua Storia Naturale mosse critiche all’abuso di marmi e gemme».

Quell’abuso divenne fonte per il collezionismo.

«Non c’è dubbio che molte raccolte finirono nei musei e soprattutto nelle case private: io stesso ne ho posseduta una delle più importanti. Fu nel XVIII secolo che le prime raccolte di marmi divennero oggetto di veri e propri studi. Descrizioni dei più importanti marmi romani si trovano nelle note di Addison, de Brosses e in molti viaggiatori di quel periodo».

Lei citava il libro di Faustino Corsi.

«Era un avvocato e fu il più grande collezionista di pietre della prima metà dell’Ottocento. La sua raccolta fu acquistata in Inghilterra e poi donata all’Università di Oxford. Corsi riuscì a mettere ordine nella nomenklatura delle pietre, accordandone i nomi antichi con quelli moderni. Ad ogni modo quella dei marmi è stata una delle passioni della mia vita».

L’altra è l’India.

«Un Paese che oggi mi disgusta. Vi arrivai la prima volta a 25 anni, come assistente di Tucci, un uomo stupefacente per le conoscenze che possedeva. Parlava numerose lingue tra cui il tibetano, aveva una competenza assoluta sulle diverse scuole di buddismo e tantrismo, si interessò di scavi archeologici in Afghanistan, Pakistan e Nepal. Lo accompagnai in diverse missioni. Una delle più emozionanti fu quella in Nepal, nel 1955».

Che Paese trovò?

«Non c’erano turisti e solo un albergo dove potevamo risiedere. Se penso all’orgia cementizia che ha travolto Katmandu, che significa padiglione di legno, beh, mi si stringe il cuore».

La sua missione in cosa consisteva?

«Erano state trovate delle importanti iscrizioni. Un amico di Tucci mi aiutò a prendere i calchi. Le iscrizioni erano in sanscrito del periodo Gupta, all’incirca VI secolo d.C. Il mio compito fu di tradurle. Con Tucci tornai molte volte in quelle zone. Per i miei studi sul buddismo si rivelarono importantissimi l’Afghanistan e il Pakistan, questo prima che le popolazioni diventassero musulmane».

È stato un periodo felice?

« I pochi viaggiatori erano accolti con serafico entusiasmo. Tutto sembrava essere a disposizione del proprio cuore. Ricordo l’emozione che provai quando Tucci trovò uno straordinario manoscritto su fogli ricavati dalla corteccia di betulla. Un testo del V secolo che raccontava la vita del Buddha».

Fu ritrovato in che modo?

«Presso un mercante di Islamabad, il quale aveva messo le mani, non so come, su una parte di una biblioteca scoperta a Gilgit da Aurel Stein, un archeologo che agli inizi del ’900 si interessò del buddismo del Gandhara. Quella biblioteca fu trafugata e portata in Pakistan. Tucci la ritrovò e affidò a me il compito di occuparmene».

Lei conosceva il tibetano?

« Diciamo che lo traducevo attraverso il sanscrito. Nel corso del tempo il lavoro dei monaci era stato anche quello di trascrivere in tibetano opere in sanscrito che erano andate perdute».

Tucci era interessato anche alla cultura persiana, ma lei non si è lasciato coinvolgere. Perché?

« Non mi interessava perché non avevo studiato il persiano. Cosa che invece affrontò con successo mio fratello Gherardo».

Suo fratello è scomparso da qualche anno.

«Fu un iranista importante. Si mosse sulla scia dei grandi studiosi: da Michele Amari, che nell’800 scrisse un libro sull’Islam in Sicilia, a Alessandro Bausani che tradusse il Corano. È curioso: mio fratello intraprese i suoi studi persiani dopo essersi occupato delle iscrizioni ebraiche ritrovate in Afghanistan. Non ho mai capito il passaggio alla Persia, anche se riconosceva che rispetto alla cultura indiana quella persiana era un tantino più noiosa».

Ma si può valutare in termini di noia una cultura?

«Cosa ce lo impedisce? Intendiamoci, non sto dando una valutazione. A me, che tendo facilmente ad annoiarmi, la varietà della cultura indiana ha offerto qualcosa di unico e di eccitante».

Si annoiava anche da bambino?

«La noia è sempre stata un’insidia che ho combattuto dedicandomi a molte cose».

Tra quelle attività di contrasto ce ne erano alcune prettamente femminili.

«Ah! Si riferisce alla mia passione per la passamaneria. Costringevo mia madre a portarmi nelle mercerie del centro di Roma ad acquistare nastri e stoffe con cui mi sarei misurato nell’arte del cucito».

Sua madre come reagiva a questa stravaganza?

« Non c’era per fortuna la psicoanalisi e quell’inclinazione era vista come il frutto di una predisposizione artigianale. Fin da piccolo mostrai un’abilità speciale nell’uso delle mani e un senso spiccato dell’osservazione. Due qualità che misi alla prova nel disegno».

Disegna ancora?

«Ho smesso da tempo, ma qualcosa di quella passione giovanile è probabilmente conservata nel mio archivio».

Un altro personaggio della sua famiglia è stato il pittore Domenico Gnoli.

«I suoi quadri li apprezzo più ora che sono vecchio di allora».

Cosa non la convinceva?

« Mi sembrava una Pop Art spinta all’estremo. Solo oggi riesco a comprendere meglio la sua ossessione per il dettaglio. In fondo la dilatazione di un particolare aveva in sé qualcosa di involontariamente orientale. E tra l’altro lavorava moltissimo, ma conoscendolo sembrava che non lavorasse mai».

Vi siete frequentati?

«Picci, così lo chiamavamo, ha abitato soprattutto a Spoleto. Ci frequentammo quasi quotidianamente nel periodo romano. Componevamo un bel terzetto: io, Picci e Nicola Caracciolo. Poi si trasferì a New York, dove è morto troppo giovane, non aveva 40 anni, per dispiegare tutto il suo talento».

La sua famiglia che origini ha?

« Ferraresi, ma il ramo romano è ottocentesco. Appesantito da troppi eruditi con il vizio, per giunta, della poesia».

Scrive versi?

«Per carità! Li leggo. Anzi, prima che lei mi raggiungesse, sfogliavo qualche pagina di Marino Moretti».

Speravo che mi dicesse Baudelaire.

« Moretti è certamente inferiore. Ma c’è una sua poesia nella raccolta Poesie scritte col lapis che si intitola Non ho niente da dire, nonpuò immaginare a quante persone si potrebbe attagliare. Ma non si sognano di seguirne il consiglio».

Lei ha avuto molto da dire nel campo dell’indologia.

«Perfino troppo, ritengo».

È insoddisfatto di quello che ha realizzato?

«Ho provato l’acuta sensazione di aver perso molto tempo».

Cosa glielo fa credere?

«La convinzione, non saprei quanto fondata, che il mio artigianato ha qualche risvolto di tenera follia. Mi chiedo a volte perché ho sprecato così tanto tempo a realizzare cose così stupide. Mi consola pensare che sia stato un divertimento».

Forse anche un modo inconsapevole di vuotare la mente.

«Ne valeva la pena?».

Non siamo più abituati a far coesistere il lavoro delle mani con quello della testa.

«È una separazione tipica dell’occidente, ma ho l’impressione che anche a oriente questo nesso sia da tempo venuto meno. Ma lei parlava del vuotare la mente».

Sì.

«Non è come vuotare un catino pieno d’acqua. Poiché ogni cosa è relativa a un’altra, allora quella cosa non ha una propria natura, il suo vuoto è riempito da tutto quello che l’universo può donarle».

Si può in tal senso parlare di perfezione?

« Parlerei piuttosto di equilibrio che è sempre precario. La perfezione è un processo di purificazione dalla brama, dal desiderio, dalle cose materiali».

Lo yoga è lo strumento giusto per ottenerla?

«Lo yoga è un esercizio mentale, di respirazione e corporale. Aiuta a superare i limiti ma non le nostre imperfezioni. Abhinavagupta era convinto che lo yoga, rinforzando il corpo, rinforzasse l’ego».

C’è una fede nelle religioni indiane paragonabile a quella del cristianesimo?

« La fede cristiana è un assurdo, come insegna Paolo. In India ha vincoli diversi. Di solito si è obbligati ad accettare un certo sistema di credenze. Uno di casta visnuita leggerà solo certi testi. Uno shivaita a certe condizioni può anche modificare la propria credenza».

È ammessa la conversione?

« L’India è sempre stata più tollerante dell’occidente. Pochissime furono le persecuzioni. L’intolleranza è un fenomeno recente».

Dove arrivano le sue competenze sul mondo indiano?

« Mi sono occupato dell’iniziazione tantrica, ho tradotto e commentato numerosi testi sacri, mi sono accostato alla logica indiana e all’estetica. Fin da giovane sono stato affascinato da quel mondo di cui resta ben poca traccia se non nella testa di qualche indologo».

Non c’è più la sua India?

«Non c’è più quella raccontata da Kipling né quella dei grandi viaggiatori né quella di Eliade, di Zolla o magari la mia. Non c’è neppure quella leggera venerazione che Herman Hesse fornì con i suoi romanzetti. C’è solo qualche grottesca scimmiottatura. Per il resto è solo potenza, calcolo, geopolitica. Cosa vuole che interessi lo sguardo di un vecchio signore che avendo avuto il privilegio di vivere in un’altra epoca oggi guarda con smarrimento a ciò che accade. Tornerò ad annoiarmi».

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3 risposte a ANTONIO GNOLI, REPUBBLICA -ROBINSON 22 LUGLIO 2018, pp. 64-65 INTERVISTA IL GRANDE ORIENTALISTA RANIERO GNOLI (ROMA, 1930)

  1. Donatella scrive:

    Questo studioso-ricercatore apre orizzonti sconfinati.

  2. Veridico scrive:

    Estraggo dall’intervista…”Lo yoga è un esercizio mentale, di respirazione e corporale. Aiuta a superare i limiti ma non le nostre imperfezioni. Abhinavagupta era convinto che lo yoga, rinforzando il corpo, rinforzasse l’ego».

    Non è possbilie sminuire così CLAMOROSAMENTE sia lo Yoga ( che mira all’Unione col Divino, dal nome stesso ) sia Abhinavagupta…

    • Chiara Salvini scrive:

      Ti ringrazio, caro Veridico, del tuo intervento chiarificatore, purtroppo io conosco lo yoga solo per sentito dire, mi pare -quella espressa da Gnoli- l’opinione ” laica ” o profana che circola in genere…Cerchero’ di interessarmene un po’ meglio, ma sai, chi non la pratica da una vita, credo che possa raggiungere poco la verita’ dello yoga, grazie ancora, chiara per il blog

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