ETTORE LIVINI, REPUBBLICA DEL 13-10-2018 ::: I COLOSSI DEL CIBO CI RIPENSANO ::: ” ORA DALLA PARTE DEGLI ANIMALI “

 

 

 

Nestlé co-founds the Global Coalition for Animal Welfare

 

REPUBBLICA DEL 13-10-2018

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/10/13/news/i_colossi_del_cibo_in_campo_basta_allevamenti-lager_-208888639/

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Approfondimento  —  Alimentazione

 

I colossi del cibo ci ripensano: “Ora dalla parte degli animali”

Dalla Nestlè a Ikea Food, otto big chiedono ai propri fornitori una gestione etica degli allevamenti: no a gabbie sovraffollate e abuso di farmaci.
Il consenso (e i dubbi) degli ambientalisti

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Il fronte della lotta contro abusi e maltrattamenti sugli animali d’allevamento trova a sorpresa i più improbabili tra i “fan”: i giganti dell’industria della trasformazione e distribuzione alimentare. Nestlé, Unilever, Sodexo, Ikea Food, Aramark, Compass ed Elior – un “cartello” che raggiunge 3,7 miliardi di consumatori al giorno – hanno lanciato la Global coalition for animal welfare (Gcaw).

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Obiettivo: imporre alla filiera della carne – grazie a una sorta di energica moral suasion – standard più etici come l’eliminazione dell’uso delle gabbie, la scelta del pascolo, lo stop al sovraffollamento negli impianti di polli e pesci, la riduzione dell’uso di antibiotici e farmaci e il ricorso al trasporto di bestie vive solo se indispensabile.

 

La santa alleanza del welfare animale ha per ora una durata di tre anni. In questo arco di tempo sarà messo a punto una sorta di decalogo di “raccomandazioni” – ma non obblighi vincolanti – per fornitori e clienti dei sette gruppi. Le ong ambientaliste hanno accolto l’iniziativa con soddisfazione ma anche con scetticismo: «I gruppi coinvolti muovono volumi importanti», ha commentato Vicky Bond di Human League Uk. «E se decideranno davvero di adottare regole più rigide i concorrenti dovranno giocoforza adeguarsi».

Ma nessuno invece si illude che la coalizione prenda posizione contro gli allevamenti super-intensivi che ormai dominano il mercato. «Il nostro obiettivo è migliorare, per quanto possibile, il benessere degli animali», ha ammesso con sincerità Nicky Amos, segretario di Gcaw. «Ma con grande realismo sappiamo che almeno nel medio periodo non si potrà rinunciare a queste megastrutture visto che la produzione, se i consumi continuano a crescere ai livelli attuali, dovrà raddoppiare entro il 2050». Le stalle con oltre mille bovini o più di 100mila polli sono l’8% del totale negli Usa ma garantiscono l’80% della carne che arriva nei piatti americani.


Il pressing per aumentare la produttività ha cambiato radicalmente negli ultimi decenni il settore e la fisiologia degli animali allevati. Spesso a loro spese. La produzione annua di latte delle vacche a stelle e strisce è passata dai 4.122 litri del 1970 ai quasi 11mila attuali, riducendone di molto l’aspettativa di vita. Gli ormoni (proibiti in Europa) hanno “gonfiato” da 240 a 294 kg la carne che si ricava da un capo pronto per il macello. Non solo. Il grande numero di animali ammassati in spazi ridotti ha costretto molti produttori a usare dosi massicce di farmaci per prevenire infezioni: l’80 per cento degli antibiotici venduti negli States finisce oggi nelle megafarm.

In queste condizioni di stress produttivo e ambientale, la mortalità tra le bestie – nessuno si stupisce – è salita dal 3,8 per cento del 1996 al 10 per cento attuale, come ha calcolato uno studio dell’University of Cornell.

Le associazioni ambientaliste spingono ovviamente per il ritorno a impianti più piccoli e rispettosi dei diritti degli animali. Anche se il fronte verde è stato un po’ spiazzato nelle scorse settimane da uno studio “controcorrente” dell’Università di Cambridge appena pubblicato da Nature sustainability. I ricercatori hanno esaminato i vari metodi di produzione di quattro macro-aree – riso, latte, carne e frumento – e sono arrivati a una conclusione sorprendente: agricoltura e allevamento intensivi (compreso l’uso della chimica) sono il modello “meno peggiore” per rispettare la biodiversità del mondo. Il motivo? Garantiscono produzioni per ettaro o per capo molto più efficienti e consentono così di sfruttare meno terra. Risparmiano l’uso di prati, boschi e acqua in aree che possono rimanere naturali. L’importante – aggiungono a Cambridge con realismo – è evitare che queste zone rimaste “vergini” vengano salvaguardate dall’assalto del mercato e del profitto. Impresa, ovviamente, molto difficile.

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