FEDERICO LARSEN, LIMESONLINE – 23 OTTOBRE 2019 :: La crisi dell’Ecuador è una lezione per l’America Latina

 

 

LIMESONLINE – 23 OTTOBRE 2019

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La crisi dell’Ecuador è una lezione per l’America Latina

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Dettaglio di una carta di Laura Canali.

 

 

 

 

La fine del “miracolo economico” di Quito rivela i limiti delle élite liberali sudamericanee del modello neo-sviluppista di Correa. Si cercano radici endogene alla crescita, ma si finisce sempre per dipendere dai diktat dei mercati.

di Federico Larsen

L’Ecuador è forse il modello più efficace per capire cosa sia successo in America Latina negli ultimi 15 anni.


Durante questo lasso temporale la regione è passata da una crescita a ritmi “cinesi” (+6-7% annuo)a una serie di crisi economiche, politiche e sociali dai risvolti notevoli: fame a Buenos Aires, violenza e militarizzazione a Rio de Janeiro, proteste e repressione a Quito, coprifuoco a Santiago del Cile.


Il filo conduttore di questi eventi è il ritorno al potere di governi liberali e di destra, desiderosi di cancellare l’eredità lasciata dal decennio di esperimenti progressisti che li ha preceduti.


L’obiettivo esplicito di presidenti come Mauricio Macri in Argentina, Jair Messias Bolsonaro in Brasile o Juan Guaidó in Venezuela (se riuscisse a rovesciare Nicolás Maduro) è chiudere la parentesi aperta dai leader considerati “populisti”, arrivati al potere all’inizio degli anni Duemila grazie al voto di indigeni, contadini, neri, mulatti, operai e ceti medi disillusi dalla tradizionale politica di banchieri, avvocati, bianchi e possidenti. E cancellare, insieme a loro, il sovradimensionato Stato sociale, sorgente della maggior parte delle pratiche corrotte e clientelari che secondo le destre tornate al potere hanno dilaniato l’economia sudamericana.


Il decennio della sinistra ecuadoriana ha il volto di Rafael Correa. Economista formato nelle più prestigiose università statunitensi e presidente dal 2007 al 2017, Correa è stato un tassello fondamentale nell’espansione del modello neo-sviluppista in Sudamerica.

 

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Rafael Vicente Correa Delgado (Guayaquil6 aprile 1963) è un politico ed economista ecuadorianopresidente dell’Ecuador dal 2007 al 2017


La tesi fondamentale del modello neo-sviluppista è che la crescita deve avere radici endogene ed essere sostenuta dallo Stato. Così, agli accordi con grandi multinazionali per l’esportazione di materie prime si affiancarono misure di protezione delle industre nazionali, sussidi ed esenzioni ai produttori locali per innalzare i salari e aumentare i consumi e un aumento generalizzato della spesa pubblica. Tra il 2007 e il 2014 il pil ecuadoriano è cresciuto del 4% all’anno, mentre la quota di popolazione che vive sotto la soglia di povertà si è ridotta dal 36,7% al 22,5%.


Il “miracolo” ecuadoriano aveva in realtà profonde cause esterne. Innanzitutto il boom dei prezzi delle materie prime, da cui l’Ecuador ha sempre dipeso. Poi, un clima regionale favorevole all’espansione di modelli alternativi a quelli impiantati durante gli anni Novanta. Il fallimento del progetto di Zona di libero scambio delle Americhe (Alca) voluto dagli Usa, il progressivo disinteresse di Washington nei confronti del Sudamerica dopo l’11 settembre 2001, l’arrivo al governo di partiti e movimenti di sinistra in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile (con tutti i distinguo del caso), Paraguay, Uruguay e Venezuela hanno permesso all’Ecuador di partecipare all’abbozzo di una struttura economica e giuridica regionale che avrebbe dovuto puntellare gli sforzi interni.


Proprio da Quito partì la proposta di creare un’architettura finanziaria sudamericana, composta da una Banca del Sud finanziata da capitali pubblici, un Fondo comune e una moneta unica, il Sucre, che sarebbe servita come “sistema comune di compensazione reciproca” negli scambi interni al sub-continente. Pur non essendo stata concepita per la circolazione, il Sucre avrebbe dovuto favorire l’abbandono del dollaro nel commercio regionale. Furono gli esperti convocati da Correa nella Comisión Ecuatoriana para la Nueva Arquitectura Financiera (Cenaf) a elaborare il piano lanciato ufficialmente nel 2007 a Quito con la firma dei presidenti di Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Paraguay, Uruguay e Venezuela. Ma l’inclusione di Argentina e Brasile nei summit del G20 a partire dal 2008 e la diffidenza brasiliana di fronte a un progetto che metteva a rischio il primato della sua Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (Bndes) nei progetti infrastruturali in Sudamerica hanno indotto gli alleati del Mercosur a paralizzare immediatamente l’iniziativa.


L’Ecuador cercava insieme ad altri paesi di rendere concreto il progetto,caro a Hugo Chávezdi staccare i paesi sudamericani dal sistema finanziario internazionale in crisi. Nel 2009 Quito è entrata nell’Alleanza bolivariana per le Americhe (Alba), si è ritirata dal Centro internazionale per il regolamento delle controversie sugli investimenti e ha creato due commissioni di revisione dei conti pubblici che hanno dichiarato illegali e illegittimi i tre miliardi di dollari di debiti reclamati dalle organizzazioni internazionali. Insomma, il comune denominatore delle decisioni in materia internazionale del governo Correa era la convinzione che fosse possibile costruire un’alternativa per gli Stati sudamericani a partire dalla dissociazione dalle istituzioni tradizionali, legate agli interessi statunitensi, per cercare di stabilire una maggior cooperazione locale.


Era l’unica via d’uscita possibile per un paese senza sovranità monetaria – nel 2000 Quito ha abbandonato il Sucre per adottare il dollaro statunitense – ed esportatore di petrolio, fiori e pesce. L’Ecuador divenne un alleato di spicco del Venezuela, che assieme al Brasile fino al 2014 sosteneva anche finanziariamente strutture alternative al tradizionale sistema interamericano come l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur, la cui sede è stata stabilita proprio a Quito) o la Comunità di Stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac).


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Carta di Laura Canali


Ma nel 2015 l’Ecuador ha dovuto affrontare una durissima doppia crisi: la caduta dei prezzi delle materie prime e l’apprezzamento del dollaro. Il valore del petrolio ecuadoriano, principale bene esportabile e fonte dei proventi necessari a sostenere il modello di sviluppo, è passato dai 105 dollari al barile del 2013 ai 26 del 2016. Il dollaro, apprezzatosi del 22,6% rispetto all’euro, ha reso le esportazioni ecuadoriane più care nel mercato mondiale. Questi due shock hanno intaccato direttamente la popolarità del presidente, che non potendo essere eletto per un terzo mandato consecutivo in occasione delle elezioni del 2017 ha passato il testimone a Lenín Moreno, suo vice tra il 2007 e il 2013 e poi inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla disabilità e l’accessibilità.


Piccolo impresario legato al settore del turismo e attivista per i diritti dei disabili dopo aver perso la mobilità mentre subiva un tentativo di furto nel 1998, Moreno rappresentava l’ala moderata della Revolución Ciudadana inaugurata da Correa, garantendo una base elettorale più ampia. Il rivale era Guillermo Lasso, ex “superministro” dell’Economia durante il collasso bancario del 1999 e rappresentante della destra liberista che, nonostante una prima denuncia di brogli, accettò la sconfittanel ballottaggio dell’aprile 2017.


Lenín Moreno assumeva il controllo di uno Stato con forti problemi economicie che avanzava controvento. Nei due periodi di governo di Correa, la spesa pubblica totale era più che raddoppiata: dal 24% del pil nel 2007 al 49% nel 2014. Ne derivava anche un’impennata del debitoschizzato da poco più di 14 miliardi di dollari nel 2008 a 49 miliardi (di cui 34 di debito estero) nel 2018. Nell’ottobre del 2017 furono annunciati i primi provvedimenti: riduzione del 10% dei salari statali più alti, aumento delle tariffe doganali, condono fiscale, tagli alla spesa pubblica e alleanze pubblico-private nel settore edile. Misure rivelatesi insufficienti anche quando il prezzo del barile del petrolio ecuadoriano è salito a 55 dollari. L’impeachment contro Dilma Rousseff in Brasile, la vittoria di Macri in Argentina e la crisi politica e sociale in Venezuela hanno contribuito a un ulteriore raffreddamento della primavera progressista latinoamericana.


Il settore moderato, ormai al governo, cominciò allora a spingere verso posizioni più liberali,mettendo in dubbio il modello neo-sviluppista di Correa e aprendo a parte dell’opposizione. Lo scandalo Odebrecht – la compagnia brasiliana che ha ammesso in sede giudiziaria di aver pagato tangenti a 12 governi, quasi tutti sudamericani, in cambio di appalti e agevolazioni – ha coinvolto vari funzionari ecuadoriani e accelerato la svolta verso destra dell’esecutivo. Lo scontro Moreno-Correa divenne palese. Jorge Glas, allora vicepresidente e uomo forte di Correa nell’esecutivo, fu accusato di aver organizzato il sistema di appalti truccati di Odebrecht e tre mesi dopo esser stato eletto fu destituito e condannato a sei anni di reclusione.


Poi venne il turno dello stesso Correa, autoesiliatosi a Bruxelles dopo che la giustizia ecuadoriana aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, accusandolo di aver permesso il sequestro di un oppositore in Colombia. Nel febbraio 2018 un referendum ad hoc ha modificato la Costituzione per impedire a chiunque abbia rivestito cariche esecutive per due mandati di accedere a un terzo periodo, anche se non consecutivo. Correa è l’unico presidente della storia dell’Ecuador in tali condizioni.


Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019


Dopo l’apertura all’opposizione in nome della riconciliazione nazionale,sono arrivate le riforme economiche più ortodosse. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), il progressivo aumento degli stipendi applicato in Ecuador nel periodo 2007-2017 non è stato accompagnato dall’aumento della produttività. In un contesto economico dipendente dal dollaro e dal prezzo del petrolio – attualmente in calo – questo ha portato il governo di Correa a metter mano alle riserve della Banca centrale, ingrossando così il deficit. Moreno si è quindi rivolto all’Fmi per “affrontare le vulnerabilità economiche, ristabilire la crescita e migliorare i risultati in ambito sociale”, ottenendo nel marzo scorso un prestito di 4,2 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti i 6,1 miliardi concessi dalla Banca Mondiale e la Banca interamericana di sviluppo. In cambio gli organismi internazionali di credito hanno chiesto all’Ecuador riforme strutturali per risanare l’economia, basate sull’ormai classica ricetta dell’Fmi: la riduzione del deficit mediante l’austerity.


A inizio ottobre Moreno ha annunciato l’abbandono dell’Organizzazione dei paesiesportatori di petrolio (Opec) a partire dal 1° gennaio 2020; Quito intende svincolarsi dalla politica di riduzione della produzione a livello globale per forzare un aumento del prezzo del greggio. Il giorno dopo l’annuncio, il governo ha varato un pacchetto di misure – il decreto 883 – tese a ridurre di 2 miliardi di dollari la spesa pubblica. La riforma ha eliminato i sussidi che da 40 anni assicuravano prezzi accessibili al diesel e benzina, che hanno subito un aumento compreso tra il 75 e il 125% in poche ore. La misura ha un chiaro valore regressivo. Degli 1,5 miliardi di dollari che il governo prevedeva risparmiare, il 75% proviene infatti dai sussidi al diesel, usato nel trasporto pubblico e di merci, col conseguente aumento dei prezzi di biglietti e beni primari; mentre i 330 milioni di dollari restanti provengono dalla benzina, comprata dai pochi ecuadoriani in condizione di possedere un automobile.


A questa decisione dall’effetto immediato si aggiungono le riforme presentate dal governo all’Assemblea Nazionale: il dimezzamento delle ferie per gli impiegati pubblici, ai quali verrà imposta una tassa mensile equivalente alla remunerazione di una giornata lavorativa, la riduzione dei congedi di maternità e paternità e la diminuzione del 20% dei salari per gli impiegati che decidono di mantenere un contratto di lavoro con orario fisso. Allo stesso tempo, Moreno ha annunciato l’eliminazione delle imposte doganali all’importazione di cellulari, computer e tablet e la riduzione delle imposte agli esportatori di banane e alle aziende che importano beni capitali.


L’opposizione nelle strade è stata durissima. Dopo lo sciopero generale convocato dai sindacati dei trasporti, circa ventimila indigeni organizzati nella Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) sono confluiti a Quito dando inizio alle proteste più radicalizzate. Il governo ha accusato Caracas di aver progettato e finanziato gli scontri e ha denunciato la presenza di guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) tra i promotori delle proteste. Una teoria per ora non corroborata dai fatti.


Dal ritorno alla democrazia nel 1979, l’Ecuador è stato uno dei paesi più instabili del mondo. Di fatto, Correa è stato l’unico presidente in grado di concludere il suo mandato negli ultimi 40 anni e il primo nella storia del paese a essere rieletto. Nei 10 anni precedenti si erano avvicendati 11 presidenti diversi, la maggior parte caduti a causa di durissime proteste popolari nelle quali la componente indigena è sempre stata determinante. Inoltre, la relazione tra la Conaie e l’asse Correa-Maduro è pressoché inesistente. Le organizzazioni degli indigeni, che hanno una diffusa presenza territoriale nell’asse centrale andino e nelle regioni amazzoniche, hanno dato vita a forti scontri col governo precedente a causa dell’espansione del modello monoproduttivo di petrolio anche sulle loro terre. Durante le ultime settimane la Conaie ha apertamente criticato Correa e i suoi, accusandoli di opportunismo e di voler “approfittare della nostra piattaforma dopo aver ucciso i nostri compagni”. Nonostante ciò, esistono alcuni sospetti circa l’infiltrazione interessata delle manifestazioni nella capitale. Piccoli gruppi estremamente violenti hanno attaccato e bruciato gli studi di Teleamazonas ed El Comercio e preso di mira la sede Corte dei conti, dove si trovano i documenti probatori di alcuni casi giudiziari che riguardano rappresentanti di spicco del precedente governo.


La crisi è rientrata dopo la parziale abrogazione del decreto 883 e l’apertura di un tavolo negoziale mediato da rappresentanti locali delle Nazioni Unite e dalla Conferenza episcopale. Svolta accolta dalle organizzazioni sociali ecuadoriane come una vittoria “contro Moreno e l’Fmi”. Si apre ora un periodo di trattative, che non sembrano però indirizzate a risolvere i problemi fondamentali del paese. Al di là del deficit fiscale, così caro a neoliberisti e Fmi, esistono infatti gravi problemi strutturali come la bilancia commerciale in rosso e, soprattutto, l’altissimo costo delle manifatture locali. Producendo in dollari, tutto ciò che viene importato da Colombia, Perù o Brasile è infatti molto più economico di ciò che viene prodotto in Ecuador, nella misura in cui il dollaro aumenta il proprio valore.


Sul piano internazionale, Moreno si è rapidamente dissociato dal bolivarismo. L’Ecuador ha sancito l’uscita definitiva dall’Alba, è entrato a far parte del Gruppo di Lima per isolare Caracas, ha dichiarato l’abbandono dell’Unasur e partecipato alla prima riunione del Prosur assieme ai presidenti conservatori dell’America Latina.


Privo di sovranità monetaria, l’Ecuador è un caso particolare.Ma dal suo dilemma si possono trarre considerazioni valide anche per i paesi sudamericani che attraversano gravi crisi istituzionali (Perù, Brasile, Colombia, Venezuela) o economiche (Argentina). La strategia di sviluppo dell’Ecuador, come quella dell’Argentina di Macri, è stata fondata sul flusso degli investimenti esteri e l’esportazione delle materie prime. Modello al cui fallimento è seguito l’intervento dell’Fmi. Ad aggravare il caso ecuadoriano è l’impossibilità di svalutare la propria moneta per affrontare dinamiche recessive a breve termine. Come quello argentino, il governo ecuadoriano ha dimostrato che la capacità delle élite sudamericane di garantire stabilità e governabilità non è all’altezza della necessità di costruire un’alternativa post-progressista.


Al tempo stesso, il caso ecuadoriano mette in luce i limiti del modello neo-sviluppista, che nell’affanno di affermare la propria indipendenza dai centri tradizionali del potere globale ha ancorato la stabilità economica dei propri paesi a variabili esterne e incontrollabili.


La lezione vale soprattutto per i governi che nasceranno in Argentina, Bolivia e Uruguay dopo le imminenti elezioni.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

Il fallito golpe in Ecuador è un poliziesco

Il fallito golpe in Ecuador è un poliziesco

Le proteste della polizia ecuadoriana contro i tagli a certi benefici economici sono sfociate in un tentato e fallito colpo di Stato. Il presidente Correa attacca l’opposizione. Fra tanti punti oscuri, una certezza: l’America Latina difende la democrazia.
(nella foto: Correa viene liberato dall’esercito e portato fuori dall’ospedale su una sedia a rotelle e con una maschera anti-gas. Fonte: El Universo)

Ecuador: lo scambio petrolio-Co2 e la figura di Correa

RUBRICA ALTREAMERICHE. La proposta del presidente Correa di rinunciare a nuovi pozzi di petrolio per difendere l’ambiente in cambio di aiuti internazionali. I rapporti con il movimento indigenista. Somiglianze e differenze con Morales e Chávez.

 

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