Il viaggiatore
19 EURO, PREZZO PIENO
Prima di ogni letteratura sull’Olocausto, la prima testimonianza letteraria sull’inizio della catastrofe europea del Novecento. Pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1939, Il viaggiatore cade nell’oblio per ottanta anni, per poi diventare, nel 2018, un caso letterario internazionale.
«Questo romanzo è per molti aspetti un miracolo» – Süddeutsche Zeitung
«Il viaggiatore è un romanzo che arriva dal passato, scritto in poche settimane con un’urgenza clamorosa e rimasto chiuso per 80 anni negli archivi della Biblioteca Nazionale di Francoforte. Sembra scritto oggi, e certamente ci parla anche di oggi» – Paolo Giordano, La Lettura
Otto Silbermann sta negoziando con un conoscente la vendita del suo elegante appartamento di Berlino quando alla porta di casa risuona un colpo secco seguito da un ordine: «Apri, ebreo» intima una voce. È il 10 novembre 1938, il giorno dopo la Notte dei Cristalli: i pogrom organizzati dal regime nazionalsocialista sono iniziati e Silbermann, ricco e stimato commerciante ebreo tedesco, sguscia fuori dalla porta di servizio, incontrando il suo destino di fuggiasco. «Berlino – Amburgo, pensò. Amburgo – Berlino. Berlino – Dortmund. Dortmund – Aquisgrana. Aquisgrana – Dortmund. E forse sarà sempre così. Adesso sono un viaggiatore. In realtà sono già emigrato, sono emigrato nelle ferrovie del Reich.» Succede proprio questo, Silbermann trascorre una settimana intera sui treni, sa di essere in trappola, ma non gli è possibile fermarsi o smettere di cercare un riparo. Esule in patria, uomo sopraffatto, emblema di tutte le anime rifiutate costrette a soccombere al meccanismo della paura, ora è nient’altro che un «insulto con due gambe». “Il viaggiatore” è il quadro, realizzato con drammatica lucidità, delle conseguenze della Kristallnacht, il romanzo di un giovanissimo scrittore – Ulrich Boschwitz aveva poco più di vent’anni – che ebbe il dono tragico della preveggenza e descrisse in presa diretta il crollo di ogni legge di umana convivenza. Prima di ogni letteratura sull’Olocausto e prima ancora di ogni Diario, questa è la prima testimonianza letteraria sull’inizio della catastrofe europea del Novecento.
ESPRESSO.REPUBBLICA.IT — 25 GENNAIO 2019
http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2019/01/25/news/giornata-della-memoria-indifferenza-1.330816
Giornata della memoria, un monito contro l’indifferenza
Arriva in Italia “Il viaggiatore”, un romanzo scritto nel 1938 dal giovane scrittore Ulrich Boschwitz. Una potente denuncia contro chi si volta dall’altra parte
DI WLODEK GOLDKORN, ILLUSTRAZIONI DI PIERLUIGI LONGO
Per Anton Cechov, medico di campagna e autore di racconti che tutto ci dicono dei nostri cuori, l’indifferenza significa «la paralisi dell’anima e la morte prematura». E con questa frase si potrebbe riassumere quello che un altro grande scrittore e nostro contemporaneo, David Grossman definisce come «il male della nostra epoca». In un intervento a Milano Grossman disse: «È difficile scegliere di soffrire». Intendeva: l’empatia comporta assumersi una parte del dolore della vittima; e alzi la mano chi non fugge da una simile esperienza; scagli la prima pietra chi non è mai stato indifferente. Indifferente è la borghesia, priva di ogni etica, descritta da Alberto Moravia, giusto novant’anni fa. E contro l’indifferenza hanno parlato Sartre e Camus e tanti altri. Poi c’è la versione delle vittime.
Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia e pure lui medico, quindi persona che con la morte e la sofferenza umana aveva dimestichezza, raccontava spesso la storia che segue. Fattorino dell’ospedale del ghetto, tra le sue mansioni c’era quella di portare documenti all’ufficio igiene del municipio, dalla parte ariana della città. Usciva quindi dal varco custodito dai soldati tedeschi e saliva su un tram per gli ariani, la fascia con la stella di David sul braccio. Diceva Edelman: «Guardavo le persone voltare lo sguardo altrove; l’indifferenza era, dal mio punto di vista, peggio della volontà dei nazisti di uccidermi».
E dell’indifferenza parla la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, persona che più di tutte si è adoperata perché a Milano sorgesse il memoriale alla deportazione degli ebrei, Binario 21, e una delle ultime testimoni della parte più preziosa e più in pericolo a causa dell’atmosfera che oggi si respira in Europa, della nostra memoria.
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Dell’indifferenza, ora, parla un romanzo, “Il viaggiatore” di Ulrich Alexander Boschwitz, (traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli) che sta per uscire in Italia con Rizzoli. Pubblicato in Germania l’anno scorso, vero capolavoro del Novecento, scritto ottant’anni fa, il libro sebbene racconti la vicenda di una vittima dell’antisemitismo ai tempi di Hitler, in realtà narra di noi: non noi italiani o polacchi o tedeschi, ma noi europei, abitatori del vecchio e stanco continente, incapaci di assumerci il dolore dell’Altro, chiusi nel nostro ruolo di ottimi padri e madri di famiglia, attenti solo a non perdere il nostro benessere e la nostra, e dei nostri figli, presunta serenità.
Ma procediamo con ordine. “Il viaggiatore” (in Germania il libro ha avuto un grande successo) è una storia che si svolge in pochi giorni, all’indomani della Notte dei cristalli, nel novembre 1938, quando i nazisti, con la partecipazione della popolazione, distrussero e incendiarono abitazioni, negozi, sinagoghe, luoghi di ritrovo degli ebrei e arrestarono migliaia di uomini. Al centro del racconto c’è un ricco commerciante, Otto Silbermann, un ebreo completamente assimilato, che pure nell’aspetto esteriore non assomiglia a un ebreo. Ha la moglie “ariana”, ha combattuto con valore ed eroismo nelle trincee della prima guerra mondiale, ha come soci in affari persone che non sono ebree e di cui si fida. Costretto alla fuga da casa sua a Berlino, comincia a vagare per tutta la Germania. Ogni giorno, o più volte al giorno, sale un treno che lo porta in una diversa città, con in mano una valigetta piena di banconote. Silbermann è un viandante nella paura e nell’indifferenza. Sta sempre sui treni, perché da ebreo non può stabilirsi in un albergo (se non per pochissime ore, prima che il proprietario si accorga della sua identità). I soldi dovrebbero dargli la sicurezza e forse la salvezza, ma non è così. Le persone che il protagonista di “Il viaggio” incontra in genere non sono cattive, sono solo troppo pavide per aiutarlo, oppure non vogliono vedere la sua sofferenza, non intendono condividere niente con un uomo che, per parafrasare Hannah Arendt, è ormai una non persona, un paria, un escluso dal consesso degli umani.
Nel libro, un’opera che per molti versi ricorda il modo di scrivere e la profondità dello scavo psicologico di Albert Camus e di Franz Kafka (con citazioni e rimandi espliciti), c’è l’atmosfera dell’ambiente in cui era cresciuto lo stesso autore; e anche la sua vicenda ha qualcosa di romanzesco.
Boschwitz era nato, nel 1915, da un padre ebreo, benestante e assimilato, caduto in guerra mentre la madre, Martha Wolgast, era incinta. Martha Wolgast era a sua volta discendente di un’antica famiglia di fede protestante: senatori, facoltosa borghesia di Lubecca, un po’ come i Buddenbrook di Thomas Mann. Il ragazzo e la mamma fuggirono dalla Germania verso la Norvegia e poi la Svezia, nel 1935, due anni dopo la salita di Hitler al potere. Avevano i mezzi per capire l’avvenire e agire di conseguenza. Poi, dopo peregrinazioni tra Francia e Belgio, approdarono a Londra. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, i due in quanto cittadini tedeschi, quindi “nemici” della Gran Bretagna, vennero internati; il giovane Ulrich caricato sulla nave Dunera e spedito al confino in Australia; durante la traversata, gli internati, nazisti, anti-nazisti, ebrei, subirono ogni sorta di angheria (il comandante fu in seguito condannato da una corte marziale).
Nel 1942 Boschwitz ottenne il permesso di tornare in Inghilterra, ma la nave che lo portava dall’Australia fu affondata da un siluro di un U-Boot tedesco, sull’Atlantico. Finiva così, all’età di 27 anni, la vita di uno scrittore geniale.
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Purtroppo difficilmente si regge la sofferenza degli altri, sia umani, sia di tutto il resto animale. E’ la cosa più ” umana ” e più facile girare la testa dall’altra parte, perché non si regge quello strazio. Ma la ferita che infliggiamo a noi stessi è terribile,perché dentro di noi sappiamo di avere “tradito” dei nostri simili.