+++ FEDERICO LARSEN, limesonline del 20 novembre 2019 :: Militari e America Latina, un caso ancora aperto

 

limesonline del 20 novembre 2019

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Militari e America Latina, un caso ancora aperto

Bolivia, dopo le dimissioni del presidente Evo Morales. Foto di Gaston Brito Miserocchi/Getty Images.

Bolivia, dopo le dimissioni del presidente Evo Morales. Foto di Gaston Brito Miserocchi/Getty Images.

 

Cile, Bolivia, Ecuador, Brasile e naturalmente Venezuela: nell’ultimo anno il rapporto tra Forze armate e democrazia a sud degli Stati Uniti è tornato alla ribalta. Le origini coloniali, gli abusi all’epoca della guerra fredda e una grande differenza rispetto al passato: oggi sono i civili a chiedere ai generali di sporcarsi le mani.

 

di Federico Larsen

Le manifestazioni delle ultime settimane e la loro repressione ad opera delle Forze armate hanno riaperto il dibattito sul rapporto tra apparati di sicurezza e governi democratici in America Latina.

 


Una relazione ampiamente segnata dalla stagione dei regimi militari degli anni Settanta e Ottanta, che però nell’ultimo decennio ha subito forti variazioni, permettendo a figure provenienti dalle caserme di assumere un ruolo politico da protagonisti. Lo si vede chiaramente in Venezuela, nel governo di Jair Messias Bolsonaro in Brasile e nelle pressioni dei militari a favore delle dimissioni di Evo Morales in Bolivia.


Gli ultimi eventi sono esemplificativi del ruolo determinante delle Forze armate nella politica latinoamericana.

In Perú, il presidente Martín Vizcarra ha chiesto e ottenuto l’appoggio dei militari per attivare la clausola costituzionale che gli ha permesso di sciogliere il Congresso e anticipare le elezioni a gennaio.

In Ecuador, Lenín Moreno ha dichiarato l’emergenza nazionale, spostato provvisoriamente la sede del governo dalla capitale Quito a Guayaquil e imposto il coprifuoco, mentre le Forze armate reprimevano le proteste degli indigeni facendo morti, feriti e un migliaio di arresti.

In Cile, dopo aver dichiarato di essere “in guerra” contro un nemico interno e pericoloso, il presidente Sebastián Piñera ha autorizzato l’intervento di quasi nove mila soldati nella zona metropolitana di Santiago e altrettanti nel resto del paese; questo dispiegamento ha dato vita a una repressione che ha fatto registrare oltre 20 morti in 20 giorni. Per arrivare infine in

Bolivia, dove le Forze armate sono state fino all’ultimo l’ago della bilancia che ha deciso la sorte del governo di Evo Morales.


La partecipazione dei militari alla vita politica sudamericana è un fenomeno complesso, dalle profonde cause storiche e dagli sviluppi inediti.

Dagli anni Ottanta, quando calò il sipario sulla stagione delle dittature, in America Latina si è consolidata l’idea che le Forze armate dovessero rimanere sotto un ferreo controllo civile. Le derive autoritarie sono state sedate stroncando di fatto l’autogoverno dell’apparato militare, che durante i due secoli precedenti si era eretto ad arbitro delle dispute politiche tra civili, ponendo addirittura il discrimine tra ciò che era tollerabile in termini ideologici e ciò che invece doveva scomparire – letteralmente – dal dibattito pubblico.


Le Forze armate hanno sempre avuto un ruolo degno di nota. Ai tempi della colonia, furono proprio i militari a combattere contro l’Esercito spagnolo, a proclamare le indipendenze latinoamericane e a cementare le basi istituzionali e politiche degli attuali Stati. Oltre ai Libertadores, erano militari anche i fondatori dei grandi partiti e movimenti di massa latinoamericani, da Perón in Argentina a Cárdenas in Messico. Lo sviluppo stesso dei paesi dell’America meridionale è stato dunque segnato dalle ingerenze e dalle visioni degli uomini in divisa.


Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019


Le gerarchie militari hanno dovuto rendere conto delle violazioni dei diritti umani perpetrate durante le dittature degli anni Settanta. Ciò ha generato un vero e proprio spartiacque tra i paesi che hanno processato i militari, estromettendoli dal potere, e quelli che invece hanno permesso all’Esercito di mantenere politicamente attivi i propri membri.


L’Argentina è il caso paradigmatico di un paese che ha promosso la demilitarizzazione; la presenza delle Forze armate nella politica nazionale è infatti oggi trascurabile. Condannati i responsabili del golpe del 1976 in uno storico processo conclusosi nel 1986, i procedimenti sono ripresi dopo l’annullamento delle amnistie e delle agevolazioni giudiziarie concesse durante gli anni Novanta per sedare i tentativi di golpe. Oggi le Forze armate non costituiscono una minaccia. Anzi, il loro snellimento e la perdita di influenza nelle decisioni finanziarie destano preoccupazione. Lo dimostrano lo smarrimento del sottomarino Ara San Juan al largo delle coste di Mar del Plata nel 2017 o l’imbarazzo della Guardia costiera di fronte all’attività predatoria dei pescherecci cinesi ed europei lungo il “miglio 201” delle acque nazionali argentine.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


Chi come Brasile, Guatemala o Cile non ha ancora fatto i conti con il proprio passato dittatoriale lascia invece grande autonomia al “partito dei militari”, il quale – forte di aver evitato il castigo per i crimini commessi in passato – sente di poter incidere sugli equilibri politici. In Brasile, il governo di Bolsonaro è composto per un terzo da militari ed ex militari, compresi lo stesso presidente (capitano a riposo dal 1988) e il suo vice, Hamilton Mourão, ritiratosi col grado di generale pochi mesi prima dell’insediamento dell’attuale esecutivo. Di fatto si tratta della componente più solida dell’alleanza che lo sostiene e che lui stesso ha definito con tre B: Bibbia, in riferimento ai movimenti pentecostali ed evangelisti; Bue, per via dei rappresentanti del latifondo; Bala, o pallottola, dunque i militari. In tal senso, vanno sottolineati i legami stretti dai militari brasiliani con gli Stati Uniti. Il vicecomandante del Southcom (Southern Command), attivo in 31 paesi dell’America Latina, é brasiliano. Brasilia, inoltre, ha siglato accordi con Washington per l’uso condiviso della base di Alcántara per il lancio di satelliti ed è stata indicata da Trump come alleato extra-Nato in Sudamerica.


In Cile i membri delle Forze armate rappresentano circa lo 0,3% della popolazione e godono di privilegi che il regime di Augusto Pinochet volle addirittura sancire per via costituzionale. Il sistema pensionistico dei militari è statale, i loro figli hanno diritto all’istruzione gratuita e possono contare su un sistema sanitario parallelo a quello pubblico. Insomma, i cileni in divisa si sono assicurati ciò che milioni di cittadini stanno chiedendo nelle proteste che loro sono chiamati a reprimere. Privilegi disegnati già prima della dittatura che rovesciò Salvador Allende: una legge del 1958 obbliga una delle principali aziende esportatrici di rame al mondo, la statale Codelco, a versare il 10% dei profitti annuali nelle casse delle Forze armate. Gravi casi di corruzione scoppiati negli ultimi anni sulla gestione di questi fondi hanno indotto il governo a stabilirne il controllo civile nel giugno scorso, ma le prestazioni sociali restano invariate.


Anche i governi progressisti hanno cercato di dare un ruolo di spicco alle proprie Forze armate, battendo sull’idea del soldato del popolo, il cui coinvolgimento non è solo militare ma anche sociale e politico.


In Bolivia, Evo Morales ha riesumato la tradizione nazionalista delle Forze armate, rinvigorendo la retorica antimperialista sul loro ruolo: i militari sono chiamati a combattere flagelli quali povertà, razzismo, marginalità, corruzione e debolezza delle istituzioni, secondo quanto sostenuto nel 2004 in un celebre discorso dal generale boliviano César López. Sotto il governo Morales gli uomini in divisa hanno partecipato attivamente all’implementazione di politiche sociali come la distribuzione di buoni dello Stato agli alunni delle scuole pubbliche o di sussidi di anzianità nelle regioni più recondite del paese. Eppure, col tempo anche questo modello ha fatto affiorare le tensioni. L’obbligo di seguire i corsi della “Scuola militare antimperialista” ha sempre generato malumori.


L’Esercito boliviano, inoltre, non ha mai digerito la decisione del governo di andare fino in fondo nei processi contro i militari responsabili delle 68 morti avvenute durante la guerra del gas, una serie di rivolte contro le privatizzazioni dei servizi pubblici che nel 2003 causarono la caduta del presidente Sánchez de Lozada. È degna di nota anche la composizione etnica dell’esercito boliviano, nel quale prevalgono i meticci tra i subordinati e i bianchi nei settori di comando. Sebbene secondo la Costituzione il servizio militare sia obbligatorio per tutti i cittadini maschi, nei fatti i boliviani più poveri raramente completano l’anno previsto. Ancor meno frequente è l’ascesa di persone dalle radici indigene ai vertici delle Forze armate. Nel 2004 venne approvato il Programma indigeno originario, che forniva agevolazioni agli indios che iniziavano la carriera militare nella tradizionalissima scuola Gualberto Villarroel López. Il programma è stato però interrotto nel 2013, dal momento che veniva considerato una forma di razzismo istituzionalizzato.


Anche la polizia nazionale, che ha preso parte al recente golpe contro Morales, aveva le sue recriminazioni. In seguito alle cause per narcotraffico in cui erano rimasti coinvolti alcuni suoi alti ufficiali, il governo aveva recentemente sottratto alla polizia il monopolio sul rilascio delle carte d’identità e delle patenti. Gesto percepito come fortemente ostile che spiega l’esultanza di molti agenti nelle strade di La Paz dopo l’annuncio della rinuncia di Morales. I poliziotti hanno esibito crocifissi e bandiere tricolori al grido di: “la polcía se respeta”. Anche nelle forze di sicurezza la maggioranza degli agenti è meticcia e appartiene al settore più cattolico del paese. Tale identità sembra prevalere sull’appartenenza etnica e addirittura sull’obbedienza alle istituzioni e alle norme dello Stato. Una volta consumato il golpe, ad esempio, molti agenti hanno ritagliato dalla propria divisa la bandiera Wiphala, che contraddistingue le popolazioni indigene e che dalla riforma costituzionale del 2009 è considerata simbolo patrio al pari del tricolore.


Il Venezuela è governato di fatto da quella che Maduro chiama “unione civico-militare”, nella quale le Forze armate oltre a sostenere l’esecutivo contro i tentativi di rovesciarlo svolgono un ruolo fondamentale nel sistema economico. Come in Bolivia, il chavismo ha voluto introdurre un cambiamento radicale nella  dottrina da insegnare nelle caserme, basata sull’ideologia del Socialismo del ventunesimo secolo che Chávez stesso aveva tratteggiato da militare.
Nacque così la Fuerza Armada Nacional Bolivariana (Fanb), che è poi entrata a far parte del consiglio di amministrazione di varie aziende pubbliche. A partire dal colosso petrolifero statale Pdvsa, al cui comando si trova proprio il maggior generale Manuel Quevedo. La Fanb amministra anche un istituto di credito, l’azienda di trasporto Emiltra e gestisce l’agricola Agrofanb, oltre a detenere il controllo della distribuzione dell’energia elettrica e della metro di Caracas. Dal 2016, attraverso la Compañía Anónima Militar de Industrias Mineras, Petrolíferas y de Gas (Camimpeg), i militari sono diventati anche uno dei principali attori nell’estrazione di oro, diamanti e columbite-tantalite nella faglia dell’Orinoco. E nei vari traffici, legali e illegali, che tengono al potere il chavismo.


Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019


In Ecuador, la tensione tra Forze armate, polizia ed esecutivo portò a un tentativo di colpo di Stato da cui l’allora presidente Rafael Correa uscì illeso, il 30 settembre 2010. Nell’aprile 2015, Correa denunciò l’esistenza di un’autarchia militare “col proprio sistema di giustizia, il proprio sistema educativo, di previdenza sociale, sanitario, le proprie aziende e alcuni eccessi, come quello di essere diventati i più grandi proprietari terrieri del paese”. L’elezione di Lenín Moreno ha cambiato immediatamente la relazione: il successore di Correa ha nominato un militare come ministro della Difesa, ha aumentato le spese militari e accettato di fatto di rendere le Forze armate partecipi delle decisioni più rilevanti del governo.


Il ruolo dei militari diviene ovviamente cruciale quando aumenta il rischio di collasso istituzionale, come accaduto nell’ultimo anno in Venezuela, Perù, Ecuador, Cile e Bolivia. In tutti questi casi i comandanti delle Forze armate sono stati chiamati in causa in quanto garanti di una stabilità apparentemente sfuggita di mano alla politica, mentre i presidenti – allo scopo di esibire sicurezza e padronanza della situazione – sono apparsi di fronte alle telecamere accompagnati dalle divise verdi. Malgrado tutto, i militari restano l’istituzione che gode della maggiore considerazione in America Latina. Secondo Latinobarómetro, il tasso medio di approvazione è del 44%. Ben oltre il consenso di cui godono la magistratura (24%), l’esecutivo (22%) e il legislativo (21%); il prestigio tende ad aumentare ulteriormente quando i partiti e le istituzioni tradizionali sembrano spaesati di fronte alle rivendicazioni dei cittadini.


Negli ultimi anni la società civile ha chiesto il coinvolgimento delle Forze armate in questioni dalle quali sono state escluse da decenni, come la sicurezza urbana. Questa posizione ha tra i suoi sostenitori alcuni esponenti politici di secondo piano. Ad esempio la ministra per la Sicurezza del governo di Mauricio Macri, Patricia Bullrich, che nel 2017 di fronte agli abusi dei gendarmi nella Patagonia argentina assicurò che qualunque versione data dagli agenti aveva “carattere di assoluta verità” per lo Stato. O il deputato uruguaiano Jorge Larrañaga, autore della proposta di riforma costituzionale “vivir sin miedo”, bocciata di poco nel plebiscito a margine delle elezioni presidenziali del 27 ottobre. Tale proposta prevedeva di consentire alle Forze armate di pattugliare le strade e intervenire in caso di delitti comuni. Un’iniziativa molto simile a quella approvata dal governo Macri in Argentina nel 2017, in vigore ormai in quasi tutti i paesi latinoamericani – eccezion fatta per Cuba e appunto Uruguay – e che permette l’uso limitato della forza militare nelle mansioni di polizia.


In passato i militari irrompevano nella vita politica latinoamericana per favorire i gruppi più vicini alla loro visione del mondo; ora è la politica in crisi di consensi a chiedere loro di sporcarsi le mani nella vita civile. In alcuni casi, i soldati prestati alla politica sono ex ufficiali che lanciano movimenti e partiti popolari all’interno delle caserme, come Bolsonaro o il candidato a sorpresa delle ultime elezioni uruguaiane Guido Manini Ríos. In altri, sono esecutori diretti delle politiche sociali dello Stato (Venezuela e Bolivia), mantengono il monopolio dell’intelligence (Colombia) o assumono un peso determinante nelle scelte di alcuni attori economici (Cile ed Ecuador).


La relazione tra potere politico e militare in America Latina è quindi tutt’altro che risolta. Si basa su due capisaldi: la tensione tra autonomia e sottomissione al potere civile delle Forze armate, che comprende anche la nomina di ministri e segretari civili nel settore della difesa, e la sanzione dei crimini commessi in passato, che può generare ostilità e ammutinamenti. Come negli anni Cinquanta e Sessanta, in alcuni paesi le Forze armate hanno un diritto di veto più o meno esplicito sulle decisioni politiche. Si tratta di una sorta di democrazia sotto tutela da parte di un agente forgiato dalla storia delle élite sudamericane, che può diventare un vero e proprio Stato nello Stato.


Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019