Ho ritrovato questo vecchio testo della ” storia della malattia di Chiara “… lo lascio, magari passerà di qui un santo cui dirà qualcosa…

 

INTRODUZIONE:

 

3. Lottare contro la parte malata è come lottare contro i draghi dalle sette teste e si rischia di diventare degli eroi.

 

Può sembrare strano l’uso della parola “scegliere” parlando di un malato mentale: di solito si pensa che un malato mentale grave non “scelga”, ma faccia solo quello che può.

E questo è molto vero.

 

Ma in un’analisi terapeutica molto approfondita, che dura anni e anni, si dà, a periodi, magari lunghi, la possibilità di una “scelta inconscia”.

Vediamo se riesco a spiegare questa espressione che può sembrare un’incongruenza.

 

In generale il malato grave vuole stare male e bene quasi con la stessa forza.

A volte è più forte la voglia di stare male perché è uno stato che già conosce, e non sopporta i cambiamenti.

Ha paura di soffrire, perché soffre già troppo e teme con un cambiamento di aumentare la sua sofferenza.

Ha paura così di ogni più piccolo squilibrio, di ogni minima trasformazione, addirittura di ogni filo d’erba che si muove.

Qualunque sia la sua situazione particolare, un malato mentale è sempre tirato da forze opposte che lo dilaniano cioè, in altre parole, è sempre spaccato in una parte sana, più o meno forte, e in  una parte malata, anche lei più o meno forte che vuole conservarsi immobile( la mia era così).

 

Con l’aiuto dell’analista, e con l’impegno del paziente, poco per volta, la parte sana fa dei piccoli passi.

Poi ne fa degli altri.

Poi degli altri.

E comincia a guadagnare un po’ di terreno sulla parte malata che, a sua volta, tende, a poco a poco, a indietreggiare o ad essere meno immobile, a voler imparare qualcosa.

A meno che non sia di quelle proprio ostinate.

La mia la chiamerei “ostinatamente ripetitiva”: sembrava spinta da una vocazione a ripetere continuamente gli stessi errori. Per questo mi ha dato molto lavoro per rieducarla.

 

Inoltre, ovviamente, non tutto procede in linea retta: ci sono le ricadute dove ogni cosa sembra perduta, e bisogna ricominciare da zero. Ci si muove allora nel buio e ci vuole molto coraggio.

E qui serve avere una buona onnipotenza come fosse un paraurti. E’ un aiuto necessario e la mente, se non ce l’ha, se la fabbrica per l’occasione, oppure rafforza quella che già possiede.

In me si è rafforzata quella che già avevo. Perché se uno fosse conscio realisticamente di tutta la sua miseria, non si muoverebbe più.

 

Nel frattempo, il compito del terapeuta è molto arduo ed io posso descriverlo molto sommariamente dal mio punto di vista di paziente: secondo me, detto in poche parole, deve essere fermo e, nello stesso tempo, molto amoroso: deve cioè fare, alternativamente, il ruolo del padre e della madre, a seconda delle circostanze, come sempre ha fatto con me il mio terapeuta.

 

Lo psicoanalista deve avere un filo sottile, ma d’acciaio, per guidare il paziente: questo filo di cui parlo è la diagnosi, che deve essere articolata in una serie di traguardi o momenti tattici, se così si capisce di più, specifici.

In seguito, con questi strumenti, il terapeuta, nuovo Pollicino, può seguire il paziente in tutti i suoi “andirivieni”, che possono essere anche estremamente tortuosi. Ma non deve perdere di vista questo che ho chiamato filo, che è il filo della speranza, neanche in quei momenti di stallo che, a volte, sono così lunghi da durare anni e anni.

 

Il cammino del paziente è sempre molto accidentato, ma non è vero che le ricadute all’indietro facciano perdere tutto.

E’ strano, ma superato lo shock, si riparte più decisi con tutto il bagaglio acquisito precedentemente nelle mani. Niente si perde del lavoro fatto.

 

Quando la parte sana ha preso abbastanza fiato, e comincia a “baluginare” una meta, è lei che prende “la decisione inconscia” di soffrire “tutto quello che c’è da soffrire” senza risparmiarsi pur di guarire.

Chiamo una “decisione inconscia” una specie di istinto di sopravvivenza che si risveglia, anche se “lontano”, “nascostamente”, ma prepotentemente, se questo avverbio si può usare, dato il torpore in cui vive un malato che soffre di una depressione psicotica.

 

Ed è in questa decisione che le cose variano molto da paziente a paziente perché l’istinto di sopravvivenza e la capacità di sopportare la sofferenza è diversa per ciascuno di noi.

 

 

Lottare contro la parte malata è come lottare contro i draghi dalle sette teste: ci vuole una certa forza, ma soprattutto intelligenza, furbizia, pazienza e una capacità infinita di sopportare l’angoscia e il panico.

Le nostre capacità di sopportazione si devono dilatare al massimo,sempre che sia possibile.

 

Ed è per questo, secondo me, che si fanno tratti di strada diversi da paziente a paziente, verso la cosiddetta “sanità”.

Posso sbagliarmi, ma a me pare che, in relazione a questa, molto si giochi sulla capacità di sopportare a lungo l’angoscia e il panico.

 

Senza però scordarsi che la capacità di sopportare il dolore non è l’unica, né, forse, la discriminante fondamentale per gli psicoanalisti e gli psichiatri.

In questo contesto tendo a metterla in rilievo perché, per me, è stata la variabile più significativa.

 

 

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3 risposte a Ho ritrovato questo vecchio testo della ” storia della malattia di Chiara “… lo lascio, magari passerà di qui un santo cui dirà qualcosa…

  1. Chiara Salvini scrive:

    chiara : qui ch. parla di ” malato mentale ” ma vale per chiunque si trovi in qualche imbarazzo doloroso, anche in una malattia puramente fisica: la voglia di andare avanti o indietro, o meglio, bloccarsi, è una caratteristica della nostra mente, almeno a me pare leggendo dopo tanti anni.

  2. roberto scrive:

    ciao Chiara, sei abbastanza chiara (vabbè, non è colpa mia se hai usato quel nome, forse c’era un motivo, no?) .
    Dicevo: mi sembra abbastanza chiaro sia l’argomento sia lo svolgimento (in questo momento non saprei come altrimenti chiamarlo) e, ti dirò, m’hai colto in un momento doppiamente particolare:
    su di me, che provo, in questo periodo, una stanchezza mortale. Desiderio di lasciarmi andare. Ma, poichè, dico io, non sono un “depressibile” ( termine coniato per l’occasione) , tengo duro e non mollo. Comunque, anche se non mollo, sono estenuato tra malattie mie che sono troppe e questo Covid pandemico che, l’impressione è, non della mai finire. L’idea che ho è di morirci dentro, e se fosse solo per me, che dire ? Vissuto ho assai ( anche se ancora un po di tempo, pur acciaccato, non mi dispiacerebbe. La paura è che ai miei cari tocchi la sorte di ammalarsi ( e poi guarire, si spera, in fondo son tutti giovani o quasi e in forze) e che li colga la paura della malattia: di questa malattia:mi sembrano tutti così impreparati!
    Tornando a te. Tu lo sai che ti ammiro moltissimo, vero?
    Per come sei o per come sei riuscita a ricostruirti. Si sente che senti il dolore ma il dolore non solo non ti fa perdere il sentimento ma ti acuisce la gioia o il piacere di poter gioire quando capita l’occasione. In fondo ti cerchi i momenti di (rari) di felicità e te li coccoli 🙂

    L’altro punto per cui hai toccato, casualmente al momento giusto, un altro nervo scoperto è lo stato attuale di Alessandra (mia moglie) che soffre di “depressione grave” da quando è nata Federica, quindi almeno 50 anni..più o meno grave , ovviamente con molti momenti “buoni” altrimenti sarebbe stata una tragedia. Donna forte che purtroppo tende ad usare la sua forza in senso negativo , dico io. E che non ha mai voluto curarsi seriamente. Così a volte l’ho curata io e a volte l’ho ammazzata io. Ho sempre pensato che avesse nei miei confronti una grossa componente di amore ed odio. Ma queste sono le analisi diciamo “dello scrittore” non dello psicologo . odio perchè le ho fatto avere la prima figlia che ha sempre amato, sia chiaro, ma che, lei volente, le ho “ridotto” la vita. Non è solo una questione di depressione da parto. Si è messa nel ruolo di madre e di moglie con troppo impegno e buttandosi sulle spalle tutte le responsabilità possibili ed anche oltre con una famiglia alle spalle troppo “perfettina” un po’ fredda e frivola e superficiale e di tutto questo ne ho sentito la sofferenza.
    Insomma, come descrivi tu: molti alti e bassi ma purtroppo li ho visti come fossero separati e come se nel momento della ricaduta (molto sottile nel caso di mia moglie) è come se nulla fosse cambiato nel periodo, magari cerca “tecniche di affinamento”. E diciamo che col tempo si sono ridotte ed ora , tranne brevi moemnti viviamo in una “tregua affettuosa”.
    Insomma, ho preso spunto dal tuo pezzo per parlarti di me, come spesso mi capita.
    Anzi avrei proprio lidea di fare come Zavattni che ha scritto un libriccino il cui titolo, se non spaglio rea, ironicamente “parliamo tanto di me” 🙂
    Tornando a te, se vuoi un parere: è un brano scritto molto bene (ma si, nelle “scorribande” ho letto altro di te ed è tutto scritto molto bene) ed anche ben profondo che è ancora più importante. Ti sento 🙂 Ciao Chiara.

  3. roberto scrive:

    p.s. come al solito, clicco senza rileggere e mentre clicco vedo gli strafalcioni. amen. tu, intanto, mi perdoni 🙂

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