LIMES ONLINE CI OFFRE UN MOMENTO DI RIFLESSIONE SUL TEMA :: LA MISSIONE DELLA FRANCIA TRA MITO E REALTA’ –DI THOMAS VAN DER HALLEN, PUBBLICATO IL 7 GIUGNO 2012– a chi interessa la storia, come spiegazione dell’oggi, direi che lo suggeriamo…ch.

 

 

Care lettrici e cari lettori,

 

buon pomeriggio. Oggi ci occupiamo della Francia, simbolicamente colpita dall’incendio che ha distrutto una parte della cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’articolo che riprendiamo dal nostro archivio, intitolato “La missione della Francia tra mito e realtà, illustra la duplice vocazione messianica che ne anima la proiezione internazionale. 
Buona lettura

buon pomeriggio. Oggi ci occupiamo della Francia, simbolicamente colpita dall’incendio che ha distrutto una parte della cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’articolo che riprendiamo dal nostro archivio, intitolato “La missione della Francia tra mito e realtà, illustra la duplice vocazione messianica che ne anima la proiezione internazionale. 
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LIMES ONLINE DEL 7 GIUGNO 2012

http://www.limesonline.com/cartaceo/la-missione-della-francia-tra-mito-e-realta

 

 

LA MISSIONE DELLA FRANCIA TRA MITO E REALTÀ

Pubblicato in: LA FRANCIA SENZA EUROPA – n°3 – 2012

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J. Andriveau-Goujon, «France historique. 507. Conquêtes de Clovis», da Atlas Élémentaire Simplifié ancienne et moderne, inciso da E. Soulier, Paris 1838 ca., Andriveau-Goujon Editeur, tav. 20. Maggiori informazioni qui.

Da primogenita della Chiesa a sorella maggiore degli altri Stati: che ne è del doppio afflato messianico che ha ispirato nei secoli la geopolitica della ‘Grande’ e ‘Cristianissima’ Nazione? Il battesimo di Clodoveo e la Rivoluzione. Il colpo di teatro libico.

di Thomas VAN DER HALLEN

Il nostro Redentore, eleggendo il suddetto reame [la Francia] benedetto dal Signore ad esecutore per così dire delle sue volontà divine, e legandoselo attorno alla coscia come una faretra, ne trae sovente le frecce ch’Egli ha scelto per la difesa della libertà ecclesiastica e della fede.

Gregorio IX, Dei Filius Cuius (1239)

Ovunque, nel buio profondo Sprofondando la regale viltà, I francesi daranno al mondo Sia la pace che la libertà.

Marie-Joseph Chénier, Il canto della partenza (1794)


1. Presentato come una vittoria diplomatica francese, il voto della risoluzione 1973 del marzo 2011, che dava via libera alla guerra di Libia, è intervenuto sullo sfondo di insistenti critiche alla politica estera di Nicolas Sarkozy.


Primo e principale capo d’accusa: sotto la sua presidenza, la «voce della Francia» sarebbe diventata inaudibile. Fin dall’estate del 2010, due ex ministri degli Esteri, Hubert Védrine e Alain Juppé, avevano lamentato la perdita d’influenza del Quai d’Orsay nel mondo, chiamando in causa la mancanza d’ambizione di Bernard Kouchner. Il quale tuttavia, in quanto fondatore di Medici senza frontiere, avrebbe dovuto fungere da cauzione umanitaria per la diplomazia di Sarkozy. Dopo l’estate, in seguito alle espulsioni di rom rilanciate anche sulla stampa internazionale, la segretaria socialista Martine Aubry faceva propria la recriminazione di Védrine e Juppé, dichiarando che «oggi la voce della Francia nel mondo si è affievolita».


Le critiche riappaiono coi prodromi della «primavera araba» e soprattutto con le dichiarazioni dell’effimero ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie, che proponeva di offrire «il know-how [delle] forze di sicurezza» francesi per «regolare» la situazione in Tunisia.

Di fronte alle ambiguità, ai passi falsi e agli scandali di una diplomazia presa alla sprovvista dagli avvenimenti, gli organi dell’opposizione non tardano a intonare il ritornello della «voce della Francia» indebolita dalla politica di Sarkozy. «Tunisia, Egitto Libia: dov’è finita la voce della Francia?», si domandava il settimanale sovranista di sinistra Marianne . E proseguiva: «Ci fu un tempo in cui la voce della Francia nel mondo era rispettata e ascoltata. Era l’eredità della Rivoluzione del 1789, del messaggio universalista dei diritti dell’uomo, della Resistenza e della determinazione gollista». La rivista si abbandonava all’evocazione nostalgica dei bei tempi in cui Jacques Chirac rifiutava agli americani di avallare la guerra in Iraq. Ma con l’arrivo al potere di Sarkozy la «voce della Francia» si sarebbe arrochita. «A proposito di «rottura», abbiamo assistito al ritorno della Francia nel girone della Nato e alla messa in atto di una Realpolitik che ha portato a dimenticare tutti i princìpi predicati in passato, in particolare in materia di difesa dei diritti dell’uomo. È così che la Francia ha perso il treno della rivoluzione araba, al punto di ritrovarsi a correre dietro all’ultimo vagone per evitare di essere definitivamente lasciata a piedi dalla Storia».


Su un tono meno triviale, Le Monde rilanciava il malumore di una parte del corpo diplomatico,pubblicando alla fine di febbraio 2011 la tribuna di un collettivo anonimo che si firmava «Marly». Gli autori, «diplomatici francesi di generazioni […] e orientamenti politici diversi» denunciavano in sostanza il «dilettantismo», l’«impulsività» e le «preoccupazioni mediatiche a breve termine» della politica estera di Sarkozy: «La nostra politica estera è posta sotto il segno dell’improvvisazione e di impulsi successivi che si spiegano spesso con considerazioni di politica interna». Il collettivo scaricava sulla cellula diplomatica dell’Eliseo tutta la responsabilità dello stato confusionale francese di fronte alle rivolte arabe: «La politica nei confronti della Tunisia o dell’Egitto è stata concepita presso la presidenza della Repubblica senza tener conto delle analisi delle nostre ambasciate. Sono loro che hanno scelto Ben Ali e Mubarak come “pilastri meridionali” del Mediterraneo ». Il presunto risultato di una tale mancanza di chiarezza era annunciato dal titolo stesso dell’articolo: «La voce della Francia nel mondo è scomparsa».


2. Nell’ideologia nazionale, questa ossessione di preservare ad ogni costo la «voce della Francia nel mondo» ha come presupposto che la Francia avrebbe qualcosa di speciale da dirgli o da portargli, al mondo. Come sottolineava Dominique Moïsi, consigliere dell’Ifri, in una serie di interviste con il ministro degli Esteri Hubert Védrine all’inizio degli anni 2000, «la Francia è il solo paese, con gli Stati Uniti, che si percepisca ancora come latore di un messaggio universale». (Anche la Russia ha avuto il suo messianismo: per la corrente slavofila d’inizio Ottocento, la superiorità religiosa dei russi sugli occidentali avrebbe conferito loro, come popolo, la sacra missione di realizzare il cristianesimo universale.)


Nel caso di Parigi, però, si tratta di una doppia vocazione. Il succitato articolo di Marianne invocava «l’eredità della rivoluzione del 1789, e del messaggio universalista dei diritti dell’uomo». Ma la vocazione «di paese dei diritti del­l’uomo» di cui la Francia si è arrogata la prerogativa ne maschera un’altra, ancora più remota. Questa doppia vocazione è esposta alla perfezione dallo scrittore cattolico nazionalista Charles Péguy alla vigilia della prima guerra mondiale: «Non vi è alcun dubbio che la Francia ha due vocazioni nel mondo (…) quella della cristianità e (…) quella della libertà. La Francia non è soltanto la figlia primogenita della Chiesa; (…) ha anche, sul fronte laico, un tipo di vocazione parallela singolare: essa è, incontestabilmente, una sorta di patrona e di testimone (…) della libertà nel mondo». A pochi anni di distanza dalla separazione tra Chiesa e Stato, queste «due vocazioni» sembrerebbero rappresentare un’antitesi tanto perfetta quanto quella tra ancien régime e Rivoluzione; la singolarità del nazionalismo di Péguy sta proprio nel compiere la sintesi paradossale che associa al cattolicesimo dei crociati o della Pulzella d’Orléans il giacobinismo dell’Incorruttibile e dei soldati dell’anno II: «Valmy e Jemmapes», scrive Péguy, «sono la filiazione diretta di Patay»1. Nei limiti del presente articolo, vorremmo ritornare separatamente sulle origini di queste due vocazioni.


3. È solo nel Cinquecento che appare la formula testuale di «figlia primogenita della Chiesa» per designare la Francia. Se Caterina de’ Medici afferma già, all’inizio delle guerre di religione, che «il regno di Francia è il figlio primogenito della santa Chiesa», sembra che siano stati soprattutto gli ambienti della Ligue catholique a introdurne l’uso corrente. Più antico, invece, è il titolo di Christianissimus, accordato specificamente fin dal Duecento non solo ai re di Francia, ma al regno nel suo insieme.

Il fondamento storico invocato per giustificare l’attribuzione di questi due titoli onorari risale al battesimo di Clodoveo, capo della tribù dei franchi salii e primo re barbaro a convertirsi al cattolicesimo alla fine del V secolo. Secondo Jacques Le Goff, «il colpo da maestro di Clodoveo è stato di convertirsi con il suo popolo non all’arianesimo, come gli altri re barbari, ma al cattolicesimo. Può così giocare la carta religiosa e beneficiare dell’appoggio, se non del papato, ancora debole, almeno della potente gerarchia cattolica e del monachesimo, non meno potente».

Tramandato dal resoconto di Gregorio di Tours (538-594) nella sua Histoire des Francs , il battesimo di Clodoveo è il mito fondatore della monarchia francese, su cui riposano la sacralità del potere regale e l’idea di un legame di filiazione spirituale dei re di Francia con la Chiesa che conferisce al regno un rango a parte in seno alla cristianità. Questa dignità, attribuita in via esclusiva al regno di Francia, è confermata dal papato, la cui preoccupazione principale, dall’XI al XIII secolo, è lo scontro con gli imperatori tedeschi. Secondo la bolla di Gregorio IX Dei Filius Cuius (1239), indirizzata al re san Luigi, «come una volta, fra le tribù d’Israele, la tribù di Giuda ricevette privilegi del tutto particolari, così il regno di Francia è stato distinto fra tutti i popoli della Terra mercé una prerogativa d’onore e di grazia».

In virtù di tale «prerogativa», è principalmente il regno di Francia che ha il dovere di proteggere il cattolicesimo, cioè la Chiesa universale. È in questo senso che il prologo delle Grandes Chroniques de France può già render conto (a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento) di una sorta di missione francese nel mondo cristiano: «Se un’altra nazione commette contro la santa Chiesa atto di forza o d’oltraggio, (…) di Francia viene la spada e la daga da che è vendicata, e Francia, in quanto figlia leale, soccorre la madre in ogni sua necessità».

Tuttavia, più la «figlia leale» della Chiesa si afferma come Stato attraverso l’espansione territoriale e la centralizzazione monarchica, più entra in conflitto con il papato. Il regno di Filippo il Bello (1285-1314), primo sovrano francese a prendere in maniera definitiva il titolo di «re cristianissimo», è segnato da una violenta lotta di potere contro Bonifacio VIII, la cui bolla Unam Sanctam ribadisce, nel 1302, la supremazia dell’autorità spirituale su quella temporale. La disputa si conclude con l’umiliazione del papa da parte degli emissari del re di Francia venuti ad arrestarlo nella sua residenza di Anagni e, pochi anni più tardi, con la messa sotto tutela francese dei papi ad Avignone. Tra atti di forza e compromessi, l’obiettivo costante della monarchia francese fino alla fine dell’ ancien régime sarà di imporre ai papi la sovranità dello Stato sul clero. Questa volontà politica, nutrita dalla rivendicazione delle «libertà della Chiesa gallicana», è il filo conduttore che lega la Prammatica sanzione di Bourges (1439)alla «Dichiarazione dei quattro articoli» di Bossuet (1682) fino, anche dopo la caduta dell’ancien régime, alla costituzione civile del clero (1790).

D’altra parte, il rafforzamento dello Stato monarchico procede di pari passo con un’emancipazione crescente dei suoi interessi geopolitici da ogni vincolo morale o religioso. Sul piano teorico, il contributo principale di Machiavelli è stato di prendere atto di quest’evoluzione: «E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione» (Il Principe , cap. XVIII).

Sul piano geopolitico, è però la Francia di Francesco I (1515-1547) ad offrire l’illustrazione più spettacolare dell’assunto di Machiavelli. Per «mantenere lo Sta­to», minacciato dalle ambizioni di Carlo V, il «re cristianissimo» non esita ad allearsi col «grande Turco» Solimano il Magnifico. Diretta contro un sovrano cattolico, quest’alleanza «del giglio con la mezzaluna» sarà molto controversa. Lo stesso capiterà, un secolo più tardi, alla politica estera di Richelieu, alleato coi protestanti tedeschi contro gli Asburgo durante la guerra dei Trent’anni. Il teologo Cornelius Jansen, meglio noto come Giansenio (che darà il suo nome al giansenismo), la denuncia in un virulento pamphlet intitolato Mars Gallicus, nel 1635. Parigi non stava di fatto tradendo il suo dovere filiale verso la Chiesa universale?

La tesi che Henry Kissinger espone nel suo monumentale Diplomacy è precisamente che la Francia degli anni cardinali avrebbe inaugurato «un nuovo approccio» alla politica estera, fondato sul concetto della «ragion di Stato», e che lo stesso Richelieu sarebbe stato l’affossatore dell’ideale medievale d’universalità: «Richelieu fu il padre dello Stato moderno. (…) Sotto la sua egida, la ragion di Stato si sostituì al vecchio concetto medievale di «valori morali universali» come principio operativo della politica francese».

Quanto detto sopra autorizzerebbe a sfumare la portata della rottura che Kissinger attribuisce a Richelieu. Per molti aspetti, il cardinale-ministro è l’erede dei legisti della fine del medioevo, e la sua azione si inscrive in una continuità che può essere fatta risalire almeno al regno di Filippo Augusto (1180-1223). Resta il fatto che la guerra dei Trent’anni – il cui esito segna la fine dell’ambizione degli Asburgo di dar vita alla monarchia universale – apre la strada a un ordine europeo in cui tra le potenze regnano i puri e semplici rapporti di forza, disciplinati dalla fredda logica della «ragion di Stato».

Tuttavia, il paradosso storico sottolineato molto pertinentemente da Kissinger è che, nel momento stesso in cui si generalizza ovunque in Europa lo stile di politica estera inaugurato da Richelieu, ecco che Parigi si trova daccapo investita di un nuovo universalismo: «Dopo avere tentato per un secolo e mezzo di affermare la sua supremazia in nome della ragion di Stato, la Francia era ritornata, con la Rivoluzione, alle precedenti nozioni di universalismo. Non invocava più la ragion di Stato per giustificare il suo espansionismo, ancora meno la gloria dei suoi re decaduti. Dopo il 1789, fece la guerra al resto dell’Europa per difendere i frutti della sua rivoluzione e propagare gli ideali repubblicani in tutto il continente».


4. Una salutare tendenza della storiografia contemporanea (perfino in Francia) è di non considerare più la Rivoluzione francese come un evento isolato, ma di iscriverla in un lungo ciclo euro-atlantico di rivoluzioni democratiche borghesi, che va dagli anni Settanta del Settecento agli anni Quaranta dell’Ottocento. Basti citare qui il lavoro di Annie Jourdan La Révolution, une exception française? (2004). Ma gli accadimenti di Francia restano di gran lunga i più rilevanti di questa fase storica. Un’importanza all’epoca percepita dai «simpatizzanti», come il tedesco Fichte, per il quale «la rivoluzione francese interessa, mi pare, tutta l’umanità». Ma non meno percepita da coloro che, come l’inglese Burke, ne denunciano il pericolo: «Ho la sensazione di assistere a una grande crisi non soltanto negli affari della Francia, ma in quelli di tutta l’Europa; e forse addirittura oltre le frontiere dell’Europa. Tutto considerato, la rivoluzione francese è la più straordinaria che mai si sia verificata nel mondo».

La potente onda d’urto dell’evento ha delle ragioni oggettive. La Francia di fine Settecento è uno degli Stati più grandi e più potenti d’Europa. Il suo peso e il suo prestigio politico le permettono di esercitare una specie di egemonia culturale in Europa. Nel secolo dell’illuminismo, la «repubblica delle lettere» legge gli autori francesi, scrive in francese, segue la moda francese. In una certa misura, tutte queste ragioni spiegano come la notizia della rivoluzione abbia potuto produrre un effetto così ampio, tanto da modificare l’ora della passeggiata quotidiana di Kant nel suo remoto recesso prussiano-orientale. Se la rivoluzione, agli occhi del filosofo di Königsberg, è l’evento che prova la tendenza dell’umanità a progredire storicamente verso il suo fine morale, è anche perché essa incarna il tentativo di fondare una costituzione civile conforme al diritto.

Infatti, avendo stabilito nel giugno 1789 che il suo potere era non soltanto in concorrenza con quello del re ma superiore ad esso, l’autoproclamata Assemblea costituente trovava il fondamento assoluto della sua legittimità nel diritto naturale, supposto universalmente valido poiché dedotto dalla natura stessa dell’uomo. La Dichiarazione del 26 agosto – che postula che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali in diritto» e che «il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione» – doveva dunque in teoria essere applicabile a tutti i popoli. In politica estera, i princìpi adottati dall’Assemblea dovevano logicamente condurre al rispetto della libertà e della sovranità di tutte le nazioni. Un articolo della costituzione del 1791 ha, da questo punto di vista, un taglio da progetto di pace perpetua: «La Nazione francese rinuncia a intraprendere qualsiasi guerra a fini di conquista e non impiegherà mai le proprie forze contro la libertà di alcun popolo».

Tuttavia, quegli stessi princìpi implicavano anche il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Questo diritto è chiaramente stabilito da Robespierre in occasione del dibattito sulla petizione del «popolo avignonese» che, dopo aver rovesciato il legato papale, chiedeva l’annessione alla Francia: «Se una nazione è solo una società di uomini riuniti nel loro interesse comune, sotto leggi e governo comuni, (…) chi potrà negare a un popolo, quale che sia, il diritto di cambiare a proprio piacimento sia le leggi che il governo e, a maggior ragione, coloro ai quali esso ha affidato le funzioni di quello stesso governo?». Ma se tale diritto a disporre di sé è riconosciuto a tutti i popoli, la missione della Francia rivoluzionaria non è forse quella di sostenere coloro che volessero farne uso e, se necessario, di intervenire per aiutarli a deporre il loro tiranno? Questo tipo d’argomentazione, che costituirà la linea editoriale di un pubblicista come Desmoulins, sarà abilmente utilizzato dagli oratori girondini per scatenare la guerra contro l’Europa dei re: «Quello francese diventerà il popolo più importante dell’universo; schiavo, fu intrepido e fiero; libero, potrebbe forse mostrarsi timido e debole? (…) Eleviamoci, in questa circostanza, all’altezza della nostra missione. (…) Diciamo all’Eu­ropa che se i gabinetti impegnano i re in una guerra contro i popoli, noi impegneremo i popoli in una guerra contro i re».

Nonostante le obiezioni di Robespierre, secondo cui «nessuno apprezza i missionari armati», nella primavera 1792 la Francia si lancia in un’epopea guerriera che durerà quasi senza interruzione fino al 1815, e le cui contraddittorie ripercussioni saranno gravide di conseguenze per il futuro. Da un lato, come scrive Eric J. Hobsbawm, «in termini di geografia politica, la Rivoluzione francese mette fine al medioevo europeo»: ovunque passino gli eserciti francesi, gli anciens régimes sono spazzati via, e al loro posto vengono stabilite le istituzioni rivoluzionarie e napoleoniche. D’altra parte, però, il carattere espansionistico assunto dalla guerra sin dalla fine del Direttorio fa nascere – in particolare in Germania – una coscienza nazionale basata su sentimenti antifrancesi. Così, nella Berlino occupata dalla Grande Armée, Fichte, l’ex apologeta della Rivoluzione francese, pronuncia la sua serie di Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808).

Questo tipo di sentimento, tuttavia, il primo nazionalismo dell’Ottocento francese non lo prende ancora in considerazione. Nazionalismo di tradizione giacobina, molto marcato a sinistra, segnato da una sorta di universalismo nazionalitario, si distingue da quello che si svilupperà nettamente a destra, dopo il 1870. L’idea del primo, difesa soprattutto da Jules Michelet, è che le nazionalità sono l’espressione della vitalità del mondo, e che la Francia, in virtù della sua tradizione storica culminata con la Rivoluzione, ha il compito quasi provvidenziale di far trionfare la loro causa. «Siamo i figli di coloro che, con lo sforzo di una nazionalità eroica, hanno tessuto il mondo e fondato, per ogni nazione, il vangelo dell’uguaglianza », scrive Michelet. «(…) La leggenda nazionale della Francia è una chioma di luce immensa, ininterrotta, vera e propria via lattea verso cui il mondo sempre volse lo sguardo».

Paradossalmente, questo messianismo magniloquente troverà la sua traduzione pratica meno nel prudente Manifesto all’Europa di Lamartine, ministro degli Esteri della Rivoluzione del 1848, che nella politica estera del regime autoritario di Napoleone III. Allo scopo di scalzare l’ordine di Vienna, l’imperatore dei francesi si fa paladino dell’autodeterminazione nazionale, favorendo direttamente l’unità italiana e indirettamente l’unità tedesca, con le conseguenze che sappiamo. A Sedan, il principio delle nazionalità si rivolta contro la Francia e mette ipso facto in crisi l’universalismo nazionalitario di cui essa pretendeva di incarnare la missione.


5. Da qualunque parte lo si voglia considerare, il 1870 mette fine a due secoli di preponderanza francese in Europa, e inverte la tendenza dominante del suo nazionalismo: l’espansionismo lascia il posto a un’introversione concentrata esclusivamente sulla «patria» umiliata e ferita. Jules Ferry cercherà di ricollegarsi alla retorica missionaria per giustificare l’espansione coloniale, ma delle voci si alzeranno per ribattergli che il loro «patriottismo è in Francia» (Georges Clemenceau). La crescente consapevolezza del declino della potenza francese contribuisce allo spostamento del nazionalismo da sinistra verso destra. Maurice Barrès e Charles Maurras sono ossessionati dallo spettro della decadenza nazionale; assillo che li porta, soprattutto quest’ultimo, a una reazione difensiva violenta contro tutto ciò che per lui è «l’anti-Francia»: i protestanti, gli ebrei, i massoni, gli apolidi, i déracinés , ma anche il retaggio universalista della Rivoluzione francese che avrebbe condotto il paese alla catastrofe. L’ideologia del regime di Vichy ai suoi inizi attingerà da queste teorie il nocciolo della sua ispirazione.

Il colpo da maestro di Charles de Gaulle nel 1940 è, al contrario, quello di aver ridato senso alla vocazione universale della Francia, nel momento in cui la sconfitta mette più che mai in evidenza il suo indebolimento sulla scena internazionale. Scrive de Gaulle: «C’è un patto venti volte secolare tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo. Di fatto, il nostro paese, anche questa volta, ha compiuto il suo dovere nei confronti dell’umanità e, benché schiacciato nella sua avanguardia, continua a farlo tramite l’impegno dei francesi liberi. (…) Per un popolo, la stella più sicura nella tempesta è la fedeltà alla sua vocazione». In queste righe, reinserite nel loro contesto obiettivo, vi è un colossale diniego della realtà, che però, grazie all’abilità del generale a sfruttare i contrasti tra britannici e americani, permetterà comunque alla Francia di esibirsi alla fine della guerra nel campo dei vincitori e salvare così ufficialmente la faccia.

La disfatta militare e la divisione politica della Germania non restituiscono tuttavia a Parigi la sua supremazia passata: la penosa avventura di Suez, nel 1956, non tarda a dimostrarlo, se mai ce ne fosse stato bisogno. Da quell’epoca ai nostri giorni, la Francia fatica ad accordare le proprie pretese universaliste con lo stato delle proprie forze, che sono quelle di una media potenza. Da un lato, alcune correnti piuttosto realiste ammettono la necessità di non abusare più della retorica del messaggio universale. Come spiegava ad esempio Védrine nella serie di interviste che abbiamo già citato: «In un mondo in cui è necessario stringere alleanze e costruire maggioranze, non si possono imporre le proprie idee soltanto proclamandole o declamandole, in altri termini, con la sola “voce della Francia”; benché vi siano dei momenti in cui essa deve farsi sentire per dire di no. (…) Occorreva dunque non comportarsi più in ogni circostanza come una potenza che si crede deputata a diffondere a tutti gli altri il proprio “messaggio”».

La campagna dello scorso anno sul «male diplomatico francese» ci ricorda che con «la voce della Francia» non si scherza. Per quanto riguarda Sarkozy, la cui tattica è consistita spesso nel prendere i suoi avversari in contropiede, sembra abbastanza probabile che tale considerazione abbia pesato sulla decisione di improvvisare l’intervento in Libia per rimettere in sella una diplomazia francese disarcionata dalla «primavera araba». Tra parentesi, si noterà che la legittimazione ideologica di quell’operazione sotto mandato dell’Onu – e quasi impossibile senza la Nato – è stata più l’applicazione del «diritto d’ingerenza» da parte della comunità internazionale che una qualunque «missione» specificamente francese. Ma questo diritto d’ingerenza, promosso in particolare dall’ex ministro Kouchner e dal filosofo Bernard-Henri Lévy, non è esso stesso un prodotto made in France?


Carta di Laura Canali, 2018

Carta di Laura Canali, 2018

1. Valmy e Jemappes sono le località dove si svolsero, nell’autunno del 1792, le battaglie «fondatrici» della Prima Repubblica francese. A febbraio dell’anno successivo, la prima leva di massa creò l’esercito dei mitici « soldats de l’An II ». Il 18 giugno 1429, a Patay, le truppe di Carlo VII sconfissero la coalizione tra i duchi di Borgogna e l’Inghilterra, in una vittoria il cui merito è tradizionalmente attribuito a Giovanna d’Arco.

2. La Lega cattolica è il partito creato nella seconda metà del Cinquecento allo scopo di sradicare il protestantesimo in Francia.

3. Emanata da re Carlo VII, essa prevedeva l’elezione dei vescovi da parte del clero locale francese.

4. Lo scrittore (e vescovo) Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) è l’autore degli articoli che costituiscono l’assise ufficiale del gallicanesimo, e che prevedono, tra l’altro, l’indipendenza del re dal papa e la subordinazione di quest’ultimo al concilio del clero francese.

 

 

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  1. Donatella scrive:

    Insomma, c’è bisogno oggi di una Europa che funzioni e che cerchi di cavare fuori dalla sua lunga e sanguinosa storia il meglio di se’.

  2. Donatella scrive:

    Insomma, c’è bisogno oggi di una Europa che funzioni e che cerchi di cavare fuori dalla sua lunga e sanguinosa storia il meglio di se’.
    A proposito di Europa e soprattutto di ciò che non fa, mi sembra interessante una dichiarazione del Tribunale Permanente dei Popoli, tribunale internazionale di opinione promosso dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso. Il Tribunale ha presentato al Parlamento europeo le sentenze emesse sulla violazione dei diritti dei rifugiati e dei migranti. Da ” Il Fatto” del 16 aprile 2019, pag. 13, dichiarazione firmata da Philippe Texier, Presidente del Tribunale Permanente dei Popoli.

    “… I giudici delle varie sessioni, svoltesi a Barcellona, Palermo, Parigi e Londra, hanno accertatio che le politiche e le prassi adottate in materia di asilo e di immigrazione dall’Unione Europea e dai suoi membri, compresa l’Italia, nel loro insieme integrano dei crimini contro l’Umanità…L’Unione europea adotta politiche di contrasto all’immigrazione così rigide da trasformare il Mar Mediterraneo in un cimitero sommerso, in cui sono morte o scomparse oltre 30.000 persone. Quei morti sono la conseguenza delle politiche di ” esternalizzazione” dei confini meridionali dell’Europa, realizzata con finanziamenti miliardari al regime turco di Erdogan per la chiusura della rotta balcanica e alle milizie libiche per il blocco dei migranti africani; chiusura e blocco effettuati con inaudite violenze, sottratti ad ogni controllo come risulta dagli allarmi dell’Alto commissario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La chiusura dei confini e dei porti e il rifiuto di soccorso e aiuto a chi ne ha bisogno costituiscono crimini internazionali, feroci ma anche inutili, giacché mai le migrazioni dei popoli sono state impedite da ostacoli materiali o giuridici.
    Il Tpp ha inoltre censurato l’illegittimità delle prassi della stipula di accordi internazionali in forma semplificata, come quelli con la Turchia e con la Libia, che eludono la competenza dei Parlamenti e il controllo dei giudici nazionali e della stessa Corte di Giustizia europea. Il Tribunale ha sollecitato l’UE ad assumersi direttamente la responsabilità di cambiare le sue politiche economiche e la normativa in materia di asilo e di migrazione, giacché i Paesi membri tendono ad assecondare tendenze sovraniste e ad alimentare timori e umori indotti o aggravati dalla mancanza di efficaci politiche di accoglienza. Nel frattempo è comunque urgente sospendere e ridiscutere gli accordi con Turchia e Libia, e dei finanziamenti miliardari ad Erdogan e alle milizie libiche e porre fine ad ogni ostilità verso le Ong che intervengono in soccorso dei naufraghi e dei migranti in difficoltà.
    Infine, il Tribunale, a nome dei tanti naufraghi scomparsi senza identità. si è fatto portavoce della richiesta di istituire un organismo indipendente che si occupi della ricerca dei corpi delle vittime e della ricostruzione dell’identità delle persone scomparse. Sarebbe una risposta minima al diritto alla memoria, alla verità e al lutto, componenti essenziali della civiltà umana”.

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