parti precedenti si trovano in:
I. 8 aprile 2013 ore 18:42 ULTIMA PARTE DEL LIBRO DI CHIARA: UN DELIRIO “A DUE”. parte 13-14
II. 11 aprile 2013 ore 06:51 CHIARA, ULTIMA PARTE, n.15/16
IV. 4 MAGGIO 2013 ORE 08:45 ULTIMA PARTE LIBRO CHIARA: UN DELIRIO A DUE E SVILUPPI: PARTE XX- XXIII
parte VI—-XVIII-XXX
XXVIII come conseguenza dell’episodio del mezzadro cambia il modo di vedere mio padre
Ma l’episodio del mezzadro, riscoperto a dodici anni, ha avuto anche altre conseguenze.
Mi è arrivata addosso una depressione che mi è durata mesi, la prima di una lunga serie…
In quello stesso anno è cambiato il modo di vedere mio padre.
Ero sempre stata la sua preferita, ero la piccola della casa, la sua innamoratina.
Mi sembrava meraviglioso.
Sempre allegro e affettuoso.
Era l’unico che scherzava e aveva il senso dell’umorismo.
Improvvisamente, come si fosse tolto un velo, vedevo mio padre debole, succube di mia madre, impotente a risponderle quando gli rimproverava i suoi errori sul lavoro.
Orribile quando le rispondeva con violenza e insulti.
Ancora più mostruoso quando, ad un intervento di mia sorella nel mezzo della scena, si toglieva la cinghia, la rincorreva per tutta la casa e la picchiava.
Nel ricordo, queste scene erano quotidiane, anche se mi sembra impossibile.
Mentre accadeva questo, io vivevo con l’orecchio incollato alla radio, avevo un posto sopra una credenza dove mi rannicchiavo, ascoltando attentamente, nella speranza di estraniarmi del tutto, immersa nella musica.
Questa delusione di mio padre mi lasciava senza una figura di riferimento, perché mi era impossibile volgermi verso mia madre o mia sorella.
Una era troppo terribile e l’altra troppo vittima.
Mia sorella era sistematicamente picchiata da mio padre e da mia madre.
Sono rimasta come sospesa, in balia delle molteplici identificazioni esterne.
Mi sono allontanata troppo presto dal cerchio delle mura di casa e senza un’idea di protezione, perché questa non si acquista da soli, ti deve essere data.
Ti ci devi “impregnare” nel vedere che altri ti proteggono, per poi poterlo fare da sola.
Solo nella terapia ho potuto, faticosamente, acquisirla.
Della storia del mezzadro mi era rimasto nella testa un fatto preciso e concreto con il quale non riuscivo a stabilire un legame. Un legame mentale con il resto della mia vita.
Non si poteva né eliminarlo né attribuirgli un significato.
Si era perso il nesso.
E questo fatto rimaneva lì inerte.
Un fatto-pietra che non si poteva assimilare, solo tenerlo non digerito o espellerlo.
E quella mia parte che lo racchiudeva a poco a poco era diventata una pietra.
Perché la pietra “ non dà suoni, né cristalli, né fuoco, ma arene e arene e altre arene senza muri” (Garcia Lorca).
E anche quella pietra ero io.
XXIX nel terapeuta vedevo una figura di padre confusa con una figura seduttiva
Questa storia me la ritrovavo nella terapia, anche quando non era nominata.
Il terapeuta diventava presto un personaggio cui offrirsi per un rapporto amoroso, con l’inconscia speranza di ricevere un rotondo “no”.
Quello di cui sentivo il bisogno, non molto cosciente per la verità, era di marcare un limite perché nella mia fantasia era stato infranto.
La mancanza di questo limite era la mancanza di un muro attorno cui cementarmi.
Era la mancanza di un’idea di padre.
Oppure era l’idea di padre mio complice in un incesto.
L’impulso era ripetere un antico trauma per verificare che i confini si erano sfaldati del tutto.
E nello stesso tempo rifarli più forti e per sempre.
Per essere liberata dal panico di una forma senza pareti attorno.
Senza leggi che la demarchino e che conferiscano alla persona il diritto di esistere.
Il mezzadro è una figura legata per contratto a filo doppio con il padrone. Inoltre ero io che accompagnavo sempre mio padre in campagna e vedevo i loro rapporti di scambio e di amicizia.
Erano anche molto simili fisicamente, entrambi alti e robusti, scuri di capelli, quei tipi di persone che una volta si chiamavano “sanguigni”.
Era, forse, inevitabile che il mio inconscio li sovrapponesse.
XXX Quest’inghippo succedeva puntualmente in tutte le terapie.
Tento di dire qualcosa del mio delirio.
L’incertezza del terapeuta nel maneggiare questa difficile situazione, ammesso che ne avesse i dati, era da me interpretata come cedimento alle mie offerte.
Questa lettura aumentava la mia angoscia.
Il panico di infilarsi in una voragine buia che mi avrebbe obbligata a troncare i miei rapporti attuali.
Questi mi offrivano sicurezza e protezione, anche se non l’amore che pretendevo.
Da un lato stava un tu amato, che mi rendeva possibile un rapporto reciproco (così io fantasticavo) che, però, stranamente mi suscitava panico, dall’altro la protezione e la sicurezza.
La contraddizione era incomponibile, ancora più incomponibile perché era solo nella mia testa.
Il delirio intrecciava, così, strettamente, i miei rapporti attuali ad antiche situazioni che non ero riuscita ad elaborare.
Questo a me sembra il nucleo del mio delirio, intorno al quale, come in un citoplasma ricco di organelli con vita e funzioni autonome, si sviluppavano tutta una serie di vivenze legate a sentimenti e concezioni del mio mondo attuale, vivo e concreto.
Il terapeuta di cui mi credevo innamorata rappresentava una vero sentimento, ma era anche un pretesto per riattualizzare una storia con mio padre irrisolta, nella quale avevo, prima di tutto, bisogno di discriminare la sua figura da quella del mezzadro e, secondariamente, formarmi un’idea di padre, senza la quale, sentivo la mia identità sfaldata.
Per questo ho parlato di un duplice movimento che dal presente si rivolgeva al passato e dal passato andava al presente.
Tutto questo, però, avveniva al di fuori della mia coscienza per cui non ero in grado di verbalizzarlo né di aiutare il terapeuta.
Ma il delirio non era solo questo nucleo: per rimanere nell’immagine che ho usato c’era un ampio citolasma articolato in una visione del mondo.
Vorrei che un poeta dicesse, per me, prima di dire io le mie povere cose, qualcosa della persona che, ad un certo punto della sua vita, entra in delirio, perché questa non sarà mai qualcuno che vede una stella cadente senza formulare un desiderio, non solo, tutta la sua vita è desiderio: è questo che la confonde e la rende inabile a vivere nella realtà.
La persona che può entrare in delirio, a me pare, non ha bisogni perché questi fanno parte della realtà e possono essere soddisfatti, e quindi svanire (così mi ha insegnato il terapeuta), ma solo desideri, che, invece, sono illimitati ed è di questi che si alimenta: sfiora appena la realtà per intravvederne subito un’altra più luminosa, un altro cielo sorge sempre con nuove stelle ancora più attaenti.
Anche se è solo di me che posso parlare.
“Come se cadesse una stella filante, e nessuno la vedesse, nessuno avesse formulato un desiderio. Non dimenticare mai di formulare un desiderio, Malte. Mai rinunciare ai desideri. Io credo che non ci siano adempimenti, ma desideri che durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento” (Rilke)
Dal racconto dettagliato del suo contenuto, che ho già fatto nei capitoli precedenti, si vede che il delirio è fatto di desideri straordinari insoddisfatti : “ amarsi, essere trattati come persone, dei fini non dei mezzi, sarebbe stato normale” : solo questo, tra le tante cose che sognavo, nella nostra società sarebbe straordinario, ma era, prima di tutto, straordinario, per la mia storia di “pacchetto”, di persona che per ”semplificare” aveva sempre preferito omettersi fin dall’infanzia. Mia madre, già avanti negli anni, raccontava, ancora stupita, che, in campagna, piccolissima, mi ero allontanata su un prato per fare pipì senza rivolgermi a lei per chiederle aiuto.
Come ho raccontato, molto presto, ero stata profondamente turbata dalle ineguaglianze sociali, attorno a me, soprattutto, e a livello mondiale, e questo mi aveva portato a identificarmi con partiti riformisti di sinistra. Anche su questo fronte, le frustrazioni non erano state da poco e anche qui avevo bisogno di avere il diritto di sognare accordatomi dal delirio.
La mia testa, inoltre, era insoddisfatta di un modo di pensare, che era prima di tutto mio, ma anche di altri, e che tendeva a separare piuttosto che stabilire una rete, delle relazioni tra fenomeni che appaiono opposti e irrelati; chiamavo tutto questo “ mente unilaterale” senza sapere dove l’avessi preso: il delirio mi faceva vedere un mondo che era un organismo vivente con tutto quello che questo significa.
Tutta questa costruzione aveva un fuoco che la alimentava ed era la passione per il terapeuta le cui ragioni capisco e non capisco, oppure in parte capisco, ma vorrei poterne ragionare.
Quello che capisco bene è che lui era uno schermo su cui proiettavo un film già girato in tutti i suoi dettagli tanto tempo prima e che aveva bisogno di un finale.
Questo è avvenuto nell’ultima crisi e questa antica storia si è quietata.
Mi è anche chiaro che mi aveva permesso di uscire da un tunnel di pietra, dove c’ero solo io, e che io mi ero innamorata della reciprocità.
Ma perché scartare a tutti i costi che anche la sua persona, realisticamente, potesse essere amata? E’ possibile immaginare che un paziente vaneggi tutto il tempo?
DIRE COSA: la capacità di ricercare, ma non mi chiedevo se questa persona mi piaceva, ne avevo bisogno vitale e quello che non mi andava finiva in uno scantinato.
Forse anche il terapeuta non aveva sempre lavorato con il distacco necessario, anche se lo elogiavo per saper lavorare “ a basse temperature”, ma si può stare con una persona, aiutarla, con un bilancino in mano?
Allora ero innamorata, ma è solo adesso, che ho perso il conto degli anni che ci conosciamo, e che sono ritornata per una serie di sedute, che sento di volergli bene, in maniera amichevole, garbata e attenta.
Cosa ci può essere più dell’amore tra due persone ? – si chiede Pavese nel Diario – E’ “ carità”, è accettazione dei gesti dell’altro come dei propri…è accettazione della morte dell’altro come della propria…