http://www.youtube.com/watch?v=LyQEij88SB4
STATI DI NEGAZIONE
La rimozione del dolore nella società contemporanea.
STANLEY COHEN
scheda magnifica di Paola Giordano
questa è la prima parte (sarà più interessante quando si arrivera’ ad esempi concreti anche se qui cominciano ad essere introdotti…sempre che uno voglia sapere “di se stesso” e non “scelga” la negazione, ch.)
Il mio primo ricordo che possa essere definito “politico” risale ad una notte d’inverno a Johannesburg, alla metà degli anni cinquanta.
Mio padre era in viaggio di lavoro. In queste rare occasioni, come molte famiglie della borghesia sudafricana (soprattutto se ebree e ansiose), assumevamo una “guardia notturna”: un nero adulto, che lavorava in una società privata di vigilanza; nel caso specifico uno zulù. Poco prima di andare a letto, guardai fuori dalla finestra e lo vidi accoccolato accanto ad un fuoco di carbonella che si strofinava le mani per riscaldarsi, il bavero del cappotto kaki rialzato. Mentre scivolavo nel mio letto iperiscaldato – lenzuola di flanella, bottiglia di acqua calda, un piumino ben imbottito portato dalla nonna dalla Polonia – mi misi improvvisamente a riflettere sul perché lui fosse là fuori e io fossi dove ero. La mia vita accademica di sociologo mi ha portato per strade piuttosto diverse, ma le mie domande di bambino hanno continuato ad aleggiare. Nella mia immaginazione, un giorno, avrei riportato tutto in quella che, presuntuosamente, chiamavo una “sociologia del diniego”. Il tema, se non la presunzione, è sempre lo stesso: cosa facciamo della nostra conoscenza della sofferenza altrui e cosa fa, a noi, questa conoscenza? Le sue implicazioni sono ignorate, la gente sembra apatica, passiva, indifferente e insensibile e trova razionalizzazioni (ch. giustificazioni a se stessi che appaiono perfettamente razionali e comunicabili) convenienti per spiegarlo. Sono rimasto “intrappolato” nel termine <<diniego>> per indicare quest’intera gamma di fenomeni. Sebbene le sue ambiguità concettuali siano così macroscopiche, non sono mai riuscito a trovare un termine alternativo. D’altro canto non sono completamente soddisfatto nemmeno del termine che ho adottato quale antitesi a diniego:”riconoscimento”. Questo è ciò che “dovrebbe” accadere quando la gente è attivamente sollecitata dall’informazione; pensare, provare sentimenti o agire. In senso morale e psicologico risponde in modo appropriato a ciò che sa. Vede un problema che richiede la sua attenzione; si sente sconvolta o arrabbiata ed esprime partecipazione e compassione e fa qualcosa: interviene, aiuta, s’impegna. Nel 1980, con la mia famiglia, lasciai l’Inghilterra e andai a vivere in Israele. Il mio radicalismo “d’annata” degli anni sessanta mi lasciò completamente impreparato a questo cambiamento. Quasi vent’anni in Inghilterra non avevano cambiato molto le opinioni ingenue che avevo assorbito crescendo nel movimento giovanile sionista in Sud Africa. Scivolai in quella che in Israele è definita “l’estrema sinistra”: i margini dei margini. M’impegnai anche nelle tematiche dei diritti umani, in particolare la tortura. Nel 1990, insieme a Daphna Golan, direttrice delle ricerche dell’organizzazione israeliana dei diritti umani ( B’Tselem ), cominciai a lavorare a un progetto di ricerca sulle presunte torture inflitte ai prigionieri palestinesi. Numerose altre fonti confermarono le nostre prove sull’uso abituale di metodi violenti ed illegali durante gli interrogatori. Ma fummo immediatamente precipitati nella politica del diniego. La risposta ufficiale e tradizionale fu feroce: diniego assoluto (non succede); discredito (l’organizzazione era prevenuta, manipolata o credulona); la definizione era errata (è vero, succede effettivamente qualcosa, ma non è tortura); e giustificativa (comunque era una “cosa” moralmente giustificata).
Sono queste le reazioni di fronte ad una conoscenza sgradita, specialmente sulla sofferenza inflitta da un essere umano ad un altro
(chiara: avrete sperimentato anche voi che la stessa cosa avviene nelle relazioni personali)
Che cosa s’intende dicendo che “bisogna fare qualcosa” per queste atrocità? Per i governi ciò suggerisce “intervento”, nel senso inteso nei recenti dibattiti su Bosnia, Iraq, Zaire, Ruanda; Kosovo o Somalia. Per la gente comune – il mio vero interesse – significa partecipazione, impegno ed azione; una donazione, boicottare un prodotto, diventare membri di un’organizzazione, sostenere a distanza un obiettore di coscienza, firmare una petizione, partecipare ad una dimostrazione. Questo è “riconoscimento” piuttosto che diniego. Nel 1995 questo studio fu pubblicato sotto forma di rapporto.
Finalmente libero dalle insaziabili richieste di una certa politica di vita e attività, ritornai al sicuro mondo della teoria e della ricerca. Comincia con Freud e le teorie psicologiche del diniego, poi i temi nei quali si presenta tale concetto, fosse l’AIDS, i senzatetto o il surriscaldamento del pianeta. Nel frattempo lo psicoblaterare “del diniego” era entrato nella cultura popolare. Singoli e società intere stavano scivolando nel diniego di (praticamente) qualunque cosa. Il vocabolo inglese che qui traduciamo con “diniego” è denial. (meglio tralasciare, ch. E’ necessario comunque precisare che in ambito psicoanalitico, accanto a questo termine, se ne incontrano altri due, “rimozione” e “negazione”, sempre volti ad indicare meccanismi di difesa inconsci per allontanare da sé immagini o fatti inaccettabili per il soggetto, e che presentano fra loro alcune significative differenze. Con “rimozione” si indica un atto con il quale il soggetto cerca di mantenere inconsci pensieri e ricordi legati ad un desiderio pulsionale proibito (o vissuto come tale); con “negazione” si indica un atto con cui il soggetto nega che alcuni pensieri, desideri e fantasie gli appartengono; con “diniego”, infine, si indica il rifiuto da parte del soggetto di riconoscere una realtà traumatizzante per il soggetto stesso.)
LE FORME ELEMENTARI DEL DINIEGO.
Quarant’anni dopo queste precisazione di Freud, lo storico americano Gordon Horwitz ha intervistato le persone che vivevano intorno a Mauthausen campo di concentramento in Austria dal 1942 al 1945.
Molti hanno sostenuto che, sebbene vedessero il fumo dei forni e sentissero dicerie sul vero scopo del campo, non sapevano cosa realmente stesse succedendo. All’epoca non avevano fatto troppe domande e non erano riusciti a “mettere insieme” le informazioni che avevano. Horwitz descrive le reazioni degli abitanti: >Non hanno mai cercato di informarsi su quello che era accaduto. Non ci si trova davanti ad un laconico diniego dell’esistenza dei campi, ma solo ad una indifferenza alla loro presenza così tanto tempo fa. In alcuni casi non si può parlare di dimenticanza poiché non si può dimenticare quello che non si è mai tentato di sapere >.
Questi sono alcuni degli stati indicati dalla mia parola-codice “diniego”. Non è né un “meccanismo” psicologico fisso, né un processo sociale universale. Questo capitolo, semplicemente, definisce i modi in cui il concetto di diniego è usato. A costo di ripetermi, traccio prima i temi dell’intero libro, ma in forma semplicistica, senza tutte le note, le divagazioni, le teorie e i riferimenti accademici che compariranno nei capitoli successivi.
Le dichiarazioni di diniego sono affermazioni che qualcosa non è accaduto, non esiste, non è vero o è ignoto e ci sono tre possibilità sul loro valore di verità.
– La prima e più semplice è che esse sono, di fatto, vere, giustificate ed esatte. Ovviamente ci sono numerose occasioni in cui gli individui, le organizzazioni o i governi sono pienamente giustificati quando sostengono che un fatto non è assolutamente accaduto, o comunque non come si è affermato sia accaduto, o che potrebbe essere accaduto, ma senza che loro lo sapessero. Questi dinieghi sono semplici dichiarazioni di fatto in buona fede. Possono essere prodotte prove e contro-prove, si possono controllare le pretese, sbugiardare le menzogne, presentate standard di prove logici.
– La seconda possibilità è altrettanto logicamente semplice, anche se più difficile da definire. Un’affermazione deliberata, intenzionale e consapevole tesa all’inganno, in altre parole, mentire. La verità è chiaramente nota, ma per molte ragioni – personali, politiche, giustificabili o no – è occultata. Il diniego è deliberato ed intenzionale. A livello personale, sono perfettamente adatte alcune parole comuni (mentire, occultare, ingannare), a livello pubblico (forse ad indicare la penetrazione del mentire alla vita pubblica) vengono usati più termini: propaganda, disinformazione, sepolcri imbiancati, manipolazione, cambiare le carte in tavola, informazioni fuorvianti, inganno, copertura.
– La terza e più affascinante gamma di possibilità. Il diniego può non essere questione né di dire la verità, né di mentire intenzionalmente. L’affermazione non è del tutto deliberata e lo status di “conoscenza” della verità non è del tutto chiaro. Sembrano esistere stati mentali, o addirittura, intere culture, in cui noi sappiamo e allo stesso tempo non sappiamo. Che sia questo il caso de quegli abitanti del villaggio vicino al campo di concentramento? O della madre che non sa a cosa suo marito stia sottoponendo la loro figlia?
Il diniego è visto (da Freud, ch.) come un meccanismo di difesa inconscio per poter affrontare colpa, ansia ed altre inquietanti emozioni suscitate dalla realtà (che altrimenti il nostro io non potrebbe sopportare, ch.). La psiche esclude le informazioni che siano, letteralmente, impensabili o insopportabili. L’inconscio erige una barriera che impedisce al pensiero di raggiungere la conoscenza consapevole. Le informazioni e i ricordi scivolano in una regione inaccessibile della mente.
(si potrebbe saltare, ch.)Il diniego è anche studiato in termini di psicologia cognitiva e di decisionismo. Questo approccio enfatizza la normalità del processo e minimizza la sua componente emotiva. Il diniego è un meccanismo cognitivo ad alta velocità per elaborare le informazioni, come il comando “cancella” piuttosto che “salva” del computer. Ma questo presuppone il paradosso del diniego. Per poter utilizzare il termine “diniego” per descrivere l’affermazione di una persona “non lo sapevo”, bisogna presupporre che sapesse o che sappia ciò che pretende di non sapere o, altrimenti, il termine “diniego” non è appropriato. A rigore, questo è l’unico uso legittimo del termine diniego. Per capire come notiamo e, contemporaneamente, non notiamo, gli psicologi cognitivi usano il linguaggio dell’elaborazione, del controllo, della percezione selettiva, del filtro e dell’arco dell’attenzione. Alcuni giungono perfino a proporre quale modello il fenomeno neurologico della “agnosia visiva”: una parte della mente può sapere esattamente cosa sta facendo, mentre la parte che si suppone sappia ne è ignara.
Questo suona simile all’interesse filosofico nella conoscenza di sé e nell’auto-inganno, in particolar modo la famosa nozione della “malafede”. Secondo Sarte, in antitesi alla teoria psicoanalitica, il diniego è, in verità, consapevole. L’auto-inganno si riferisce al mantenere segreta la dualità tra ingannatore e ingannato. La sua alternativa, la “malafede” è una forma di “diniego” che la mente rivolge scientemente a se stessa.)
CONTENUTO: LETTERALE, INTERPRETATIVO O IMPLICITO?
Ci sono tre possibilità per quel che riguarda ciò che è esattamente “negato”: letterale, interpretativa e implicita.
– Nel diniego letterale, di fatto, o eclatante, il fatto o la conoscenza del fatto sono negati. Nell’ambito privato della famiglia: mio marito non può aver fatto questo a nostra figlia. Nell’ambito pubblico delle atrocità: qui non è successo niente, non c’è stato alcun massacro, mentono tutti, non vi crediamo, non ci siamo accorti di alcunché, non ci hanno detto alcunché, non avrebbe potuto succedere, senza che noi lo sapessimo. Per qualunque ragione, in buona o malafede, che queste proteste siano vere, sfacciatamente false o meccanismi inconsci di difesa, queste affermazioni rifiutano di riconoscere i fatti.
nota ch.: chi di noi ha vissuto “la strategia della tensione” e ha seguito le varie dichiarazioni e i processi, è a conoscenze delle molteplici varianti di quello che l’autore chiama “diniego o negazione assoluta dei fatti”
– Il diniego interpretativo. In altri casi, i fatti nudi e crudi non sono negati, ma, piuttosto, viene loro attribuito un significato diverso da quello che appare agli altri. (ch. mi pare l’aspetto più comune)
Cambiando le parole, con eufemismi, con gergo tecnico, l’osservatore contesta il significato cognitivo attribuito ad un evento e lo ricolloca in un’altra classe d’eventi.
– Il diniego implicito, in altre circostanze ancora: non c’è tentativo di negare sia i fatti sia la loro interpretazione convenzionale: sono negate o minimizzate le implicazioni psicologiche, politiche o morali che convenzionalmente ne conseguono. Quale testimone di un’aggressione nella metropolitana, vedete esattamente cosa sta succedendo, ma, in veste di cittadino, negate qualunque responsabilità d’intervento. Questo tipo di diniego viene spesso definito “razionalizzazione”: “Non ha niente a che vedere con me”; “Perché devo rischiare di diventare un’altra vittima?”; “Cosa può fare una persona qualunque?”; “Altrove è anche peggio”; “Ci penserà qualcun altro”. La razionalizzazione è un’altra cosa quando sapete ciò che può o dovrebbe essere fatto, avete i mezzi per farlo e non vi è rischio. Questo non è un rifiuto a riconoscere la realtà, ma il diniego del suo significato o delle sue implicazioni. Il mio goffo neologismo “diniego implicito” racchiude una moltitudine di vocaboli – giustificazioni, razionalizzazioni, evasioni – che noi utilizziamo per affrontare la nostra consapevolezza di così tante immagini di cruda sofferenza. Queste tecniche di fuga, deviazione e razionalizzazione dovrebbero attingere da buone storie, vale a dire, da storie credibili. (da qui, si potrebbe saltare, ch.) Queste storie sono difficili da decifrare. La passività e il silenzio possono sembrare la stessa cosa di oblio, apatia e indifferenza, ma possono non essere affatto la stessa cosa. Partecipiamo e ci preoccupiamo profondamente eppure rimaniamo in silenzio. Il termine “diniego implicito” dilata le parole per coprire tutti questi stati. A differenza del diniego letterale o interpretativo, il punto non è la conoscenza di per se stessa, bensì il fare la cosa “giusta” con essa. Sono questioni di mobilitazione, impegno e coinvolgimento. Vi è un’angolazione più rigida, però, in cui l’inazione è associata al diniego – che venga dal non-saper o dal sapere e infischiarsene. Ogni tipo di diniego ha il suo status psicologico. Il diniego letterale può essere genuina e non-colpevole ignoranza; un deliberato distogliere lo sguardo da una verità troppo insopportabile da riconoscere; uno stato crepuscolare di auto-inganno nel quale parte della verità viene nascosta a se stessi; un non-notare culturale poiché la realtà è una parte della propria visione del mondo presa per scontata.
– Il diniego interpretativo spazia da un’incapacità genuina di afferrare ciò che i fatti significano per gli altri, ad una ri-definizione profondamente cinica al fine di evitare censura morale e responsabilità legale.
– I dinieghi impliciti scaturiscono da tecniche comuni abbastanza banali per evitare sollecitazioni morali e psicologiche, ma sono addotti con vari, sconcertanti, gradi di sincerità. (a qui, ch.)
Pertanto, il diniego comporta cognizione (non riconoscere dei fatti); emozione (non provare sentimenti, non essere disturbato); moralità (non riconoscere ingiustizia o responsabilità) e azione (non agire attivamente in risposta alla conoscenza). L’azione è il punto focale nell’arena pubblica dell’informazione sulla sofferenza altrui – i media, la politica, gli appelli delle istituzioni benefiche. Oxfam e Amnesty International incalzano con le loro informazioni per impedire che stacchiate il contatto, ignoriate, dimentichiate e continuiate semplicemente a vivere la vostra vita.
Il diniego può essere: individuale, personale, psicologico e privato, oppure, comune, sociale, collettivo ed organizzato.
– Il diniego personale nei pazienti che dimenticano che la diagnosi è un cancro terminale; coniugi che respingono i sospetti sull’infedeltà del partner; rifiuto di credere che membri della famiglia e amici – “qualcuno di noi” – possa comportarsi in modo così crudele.
Nel modello freudiano essi rimangono inconsci ed inaccessibili persino al Sé, a meno che non siano esplicitati con aiuto professionale.
– Il diniego ufficiale va oltre gli eventi specifici (il massacro che accadde) fino a giungere a riscrivere la storia e ad escludere il presente. Lo Stato rende impossibile o pericoloso il riconoscimento di realtà passate e presenti. In società più democratiche, il diniego ufficiale è più sottile e copre la verità con una vernice di rispettabilità, costruisce un’agenda pubblica, adultera i fatti, fa filtrare informazioni tendenziose ai media, esprime preoccupazioni selettive per le vittime adatte e dinieghi che riguardano la politica estera.
– Il diniego culturale non è né intermante personale né ufficialmente organizzato dallo Stato. Intere società possono scivolare in tipi di diniego che non dipendono da una conclamata forma stalinista od orwelliana del controllo del pensiero. Le società giungono ad accordi non scritti su cosa possa essere pubblicamente ricordato e riconosciuto senza che sia loro detto cosa pensare (o non pensare) e senza essere punite perché “sanno” la cosa sbagliata. La gente finge di credere alle informazioni che sa di essere false e simula la sua fedeltà a slogan senza significato o a cerimonie kitsch. A parte i dinieghi collettivi del passato (come le brutalità inflitte alle popolazioni autoctone), la gente può essere incoraggiata ad agire come se non conoscesse il presente. L’interdipendenza tra il diniego ufficiale e quello culturale prende la sua forma più visibile nello spazio dato dai media alle atrocità e alla sofferenza sociale. L’immagine della Guerra del Golfo è stata un capolavoro di diniego collusivo tra chi ha prodotto e chi ha riprodotto la realtà, ma, d’altra parte, il pubblico non voleva realmente saperne di più. Vi sono anche micro-culture del diniego all’interno di particolari istituzioni. Le “menzogne-vitali” sostenute dalle famiglie, le connivenze all’interno della polizia, dell’esercito o delle burocrazie governative: ancora una volta, non sono né personali né il risultato d’istruzioni ufficiali. Il gruppo si auto-censura, impara a tacere su questioni la cui aperta discussione minaccerebbe la sua immagine. Gli Stati mantengono miti elaborati; le organizzazioni dipendono da forme concertate di ignoranza, livelli diversi del sistema si mantengono non-informati su ciò che sta accadendo altrove. Dire la verità è un tabù: è fare la spia, fermare il gioco, dare conforto al nemico.
– Il diniego storico a livello biografico e personale, è una questione di memoria, oblio e rimozione. E’ un luogo comune parlare di ricordare solo quello che vogliamo ricordare. Un punto più controverso è che i ricordi di esperienze di vita traumatiche, in modo particolare gli abusi sessuali nell’infanzia, possono essere completamente esclusi per decine di anni e poi “recuperati”. I casi dell’Armenia e dell’Olocausto associano sia il diniego letterale che quello interpretativo (non è successo; è accaduto troppo tempo fa perché possa essere provato; i fatti si prestano a diverse interpretazioni; ciò che è successo non è genocidio). Più spesso, il diniego storico è il risultato di un graduale filtrare dell’informazione in un qualche buco nero collettivo, che non di una campagna pianificata.
-Il diniego contemporaneo. La psicologia cognitiva conferma che la gente è bombardata con una quantità di stimoli infinitamente eccessiva perché la mente possa elaborarli. Poiché i media ci forniscono così tante informazioni (“sovraccarico d’informazione”), dobbiamo essere altamente selettivi. Si inserisce un filtro percettivo sulla realtà e parte della conoscenza è esclusa:”diniego letterale del presente” Ci sono alcuni legami interessanti tra il diniego storico e contemporaneo. La retorica del diniego storico è prefigurata nelle spiegazioni date al momento dai colpevoli in modo da nascondere, a se stessi ed agli altri, le implicazioni delle loro azioni. La pianificazione e la messa in atto dell’inganno – con l’uso deliberato di eufemismi, ordini in cui è codificato un doppio significato, la distruzione di ordini incriminanti – sopravvivono a lungo al fatto stesso.
C’è un triangolo di atrocità: in un angolo le vittime, coloro che subiscono qualcosa; nel secondo i colpevoli, coloro che infliggono qualcosa; nel terzo gli osservatori, coloro che vedono e sanno quel che sta succedendo. I ruoli non sono fissi: gli osservatori possono diventare sia colpevoli sia vittime, i colpevoli e gli osservatori possono appartenere alla stessa cultura del diniego.
– Le vittime soffrono per qualcosa che “capita” loro o viene loro deliberatamente inflitto. Questo accade anche a livello culturale. Interi gruppi di vittime potenziali o designate possono negare il loro destino incombente.
– I colpevoli. Ricorre una domanda su chi perpetra atrocità politiche e gravi crimini: come può la gente comune fare cose terribili eppure, durante o dopo il fatto, trovare il modo di negare il significato del suo operato? Questi dinieghi giocano un ruolo causale non solo nel permettere che siano inizialmente commesse atrocità, ma anche nel consentire ai colpevoli condotte come se non stesse accadendo alcunché di inusuale. Gli stessi tipi di diniego non solo compaiono nelle versioni ufficiali e negli appelli dei governi al fine di persuadere i loro cittadini a commettere cose terribili o a tacere sul fatto di saperne in proposito, ma riappaiono nella retorica successivamente usata per deviare ogni critica.
– I testimoni: ci sono tre tipi di pubblico:
1 immediato, letterale, fisico o interno (coloro che sono effettivamente testimoni d’atrocità e sofferenza o ne sentono parlare in tempo reale da fonti dirette)
2 esterno o metaforico(colore che ricevono informazioni da fonti indirette, principalmente i media o le organizzazioni umanitarie);
3 Stati osservatori (altri governi o organizzazioni internazionali).
1. Testimoni immediati. Molta della sofferenza umana viene vissuta in privato, invisibile a qualunque osservatore esterno. Non conosciamo mai le segrete angosce di coloro che ci sono più vicini.
L’iconografia del classico “effetto del testimone passivo” – l’indifferenza degli estranei alla visibile sofferenza pubblica. La ricerca suggerisce che l’intervento è meno probabile quando la responsabilità è spartita; quando le persone sono incapaci di identificarsi con la vittima (anche se vedo qualcuno come una vittima, non agirò se non riesco ad identificarmi con la sua sofferenza; aiutiamo la nostra famiglia, gli amici, la comunità, “la gente come noi”, non quelle escluse dal nostro universo morale che possono perfino essere biasimate per ciò che capita loro – esperienza comune per le donne vittime di violenza sessuale); e quando sono incapaci di ideare un intervento efficace – anche se non vengono erette barriere di diniego, anche se si prova un sincero disagio morale e psicologico, non necessariamente il risultato sarà un intervento.
2 Gli osservatori esterni. Seduti nei loro salotti, osservando testi ed immagini di sofferenza, siamo tutti osservatori esterni e metaforici. Tattiche quali cambiare giornale o canale televisivo, o perfino andare in vacanza, ci fanno guadagnare solo poco tempo. I bambini, in particolare, non ci daranno tregua: uccisi nelle strade di Rio, malati di AIDS, negli orfanotrofi rumeni, venduti come schiavi nel Bangladesh, le dodicenni“sane” nei bordelli tailandesi,i bambini-soldato della Sierra Leone con gli arti dilaniati. Poi, quasi a fomentare il disagio provocato dai media, le organizzazioni rullano i loro tamburi; fate un’offerta, sostenete un bambino a distanza, firmate una petizione, partecipate ad una dimostrazione, diventate soci, fate qualcosa.
3 Stati osservatori. Anche interi governi e “la comunità internazionale” sono osservatori esterni. Il termine “nazioni osservatrici” fu originariamente usato per descrivere la mancanza di sensibilità dei governi alleati alla conoscenza iniziale dell’annientamento in atto agli ebrei europei: la riluttanza a credere alle accuse di genocidio e il rifiuto di adottare politiche che contemplassero, per esempio il bombardamento dei campi di concentramento.
Esiste una forma più profonda di diniego universale: l’incapacità o il rifiuto di “vivere con” o “affrontare” continuamente verità spiacevoli. Problemi nazionali o internazionali, per esempio, possono essere evitati con lo stesso spirito: <<Cose peggiori stanno accadendo altrove>>. Nella vostra stessa società questo consente una vaga rassicurazione che ciò che sta accadendo non è poi così male; per una società lontana, questo colloca l’informazione su un atlante relativistico di altri terribili luoghi: perché dovete preoccuparvi per questo posto particolare quando altrove succede di peggio? Come ben sapevano gli Antichi Maestri di Auden, la sofferenza esiste sempre da un’altra parte.