ORE 17:48 DA LIMES DEL 5-11-14 ++++ EDOARDO BALDARO — IL CALIFFO FA PROSELITI IN ALGERIA E DIVIDE I JIHADISTI DEL MAGHREB— ” UN SECONDO FRONTE? “

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chiara: pur essendo l’articolo chiarissimo ed eccellente di livello, e pur occupandomene “a tempo perso”, come si dice, da molti anni, è stato per me difficile seguire per l’ignoranza di nomi, nazioni ed avvenimenti relativamente recenti–
+++puo’ essere interessante anche a chi si interessa solo di Europa ed in particolare di Francia.
L’interesse generale è seguire il filo: quanti spezzoni di Al Qaida, pur con nomi diversi, o anche gruppi di ex soldati piu’ o meno “vaganti” in zone di crisi economica anche elementare e di facile provvista di armi, in zone amplissime dell’Africa, non sentano il richiamo di “compattarsi” con l’IS (altri: ISIS).
Il presupposto è questo.
Per Al Qaida, l’attacco alle Torri non ha significato un inizio ma UNA CONCLUSIONE.  Giudizio che ha esposto in un libro, uno studioso francese notissimo, ancor prima delle Torri Gemelle: la sua tesi era che la jhad era agli estremi. Tanto che nel 2001 ho detto tra di me: “Oh!”



di Edoardo Baldaro
L’esecuzione del turista francese Gourdel ha allarmato tutti: Parigi e Algeri temono l’apertura di un nuovo fronte della guerra al terrorismo, il ramo locale di al Qaida (Aqim) rischia di perdere i suoi mujaheddin a favore dello Stato Islamico.

Fronte del Sahara
 


[Carta di Laura Canali, clicca sull’immagine per ingrandire]

L’esecuzione del turista francese Hervé Gourdel, rapito e ucciso in Algeria il 24 settembre scorso, potrebbe segnare l’apertura ufficiale di un “secondo fronte” della guerra contro lo Stato Islamico (Is).


In un’area in cui l’instabilità regna sovrana e dove la Francia rilancia in grande stile la propria presenza per compensare le difficoltà delle poche potenze regionali rimaste, la nascita di gruppi fedeli ad al-Baghdadi potrebbe determinare un ulteriore passo verso l’implosione di una regione alle porte dell’Europa.

 

Il nostro compatriota Hervé Gourdel è stato assassinato da un gruppo terroristico vigliaccamente, crudelmente, vergognosamente […]. La mia determinazione è totale. Noi continuiamo a lottare contro il terrorismo, ovunque e costantemente, contro il gruppo Daesh [acronimo arabo dell’Is], che diffonde la morte in Iraq e in Siria, perseguita le minoranze religiose, diffonde la morte, stupra, decapita”. Con queste parole venerdì 24 settembre il presidente della Repubblica francese François Hollande ha commentato la notizia dell’esecuzione dell’ostaggio francese rapito dal gruppo Jund al-Khilafah fi Ard al-Jazaïr (i soldati del califfato in Algeria) avvenuta tre giorni prima.

 

Gourdel è il primo ostaggio francese ucciso in Algeria dal 1996 (anno del tristemente noto massacro dei monaci di Tibhirine), un fatto già di per sé molto grave per la République. Tuttavia, già nelle prime dichiarazioni a caldo, Hollande ha fatto chiaro riferimento alla lotta che il suo paese, alleato degli Stati Uniti e degli altri paesi della “coalizione anti-Is” in corso di formazione, sta conducendo contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq.

 

Questo episodio rappresenta un indizio importante che getta nuova luce su quello che sta accadendo in due differenti teatri: da un lato si osservano rapide evoluzioni all’interno della cosiddetta galassia jihadista; dall’altro sembra che nuovi rapporti di potere si stiano delineando nell’area compresa tra il deserto del Sahara e la fascia saheliana, già segnata dall’irrisolta crisi del Mali.


L’omicidio di Hervé Gourdel potrebbe costituire l’inizio di un periodo di transizione, il cui epicentro geografico si trova in Algeria, ma che tende a diffondersi e ad alimentarsi in tutti i territori con essa confinanti. In una regione in cui “grande è la confusione sotto il cielo”, nuovi attori stanno provando a imporsi, rappresentando una sfida in parte inedita sia per i pochi soggetti statali sopravvissuti alla primavera araba, sia per le potenze occidentali impegnate in un nuovo capitolo della loro guerra al terrore. Per provare a comprendere è necessario in primo luogo stabilire  chi sono i “soldati del califfato”.


Jund al-Khilafah, le difficoltà di Aqmi e i nuovi rapporti di forza nel jihad globale

 

Il nome di “Soldati del califfato” era apparso per la prima volta sui forum della rete jihadista nella primavera del 2012, quando un gruppo guidato dall’algerino Abdelmalek Gouri aveva rivendicato i propri legami con Mohammed Merah, autore della strage nella scuola ebraica e di alcuni poliziotti a Tolosa nel marzo 2012.

 

Un altro messaggio era stato intercettato nell’ottobre dello stesso anno. Il comunicato confermava la morte, avvenuta a seguito di un bombardamento effettuato da droni americani a Mir Ali (Waziristan settentrionale, Pakistan), di Moez Garsallaoui, figura centrale del reclutamento di europei da inviare a combattere in Pakistan e membro di spicco del gruppo. Gouri (altrimenti noto come Khaled Abou Slimane), formatosi come combattente in Libano a metà degli anni Duemila, è stato fino ai primi di settembre capo della katiba Al-Houda, gruppo di una trentina di uomini attivo in Cabilia, regione dove Gourdel è stato rapito e ucciso.

 

Al-Houda era fino al 13 settembre legata ad Aqmi (al Qaida nel Maghreb Islamico), organizzazione jihadista, diretta discendente del Gruppo Islamico Armato (Gia), affiliata ad al Qaida fin dal 2007 e oggi guidata da Abdelmalek Droukdel. Nonostante Aqmi sia estremamente attiva nella guerra a bassa intensità che sta investendo da ormai due anni il nord del Mali, l’organizzazione ha cominciato a mostrare chiari segnali di difficoltà rispetto alla propria tenuta interna e in particolare nella capacità dei propri leader di garantirsi fedeltà e seguito presso i vari capi locali.

 

Una delle principali fonti di approvvigionamento per i gruppi terroristici presenti tra il sud dell’Algeria e il nord di Mali, Mauritania e Niger è costituita dalla partecipazione ai vari traffici illeciti (di sigarette, droga, armi ed esseri umani) che attraversano l’area e di cui un altro capo di Aqmi ormai sulla porta di uscita, Mokhtar Belmokhtar, è riconosciuto “esperto”.

 

Droukdel, costretto dalla risoluta risposta dell’esercito algerino a vivere nelle periferiche regioni dell’est da almeno un paio d’anni, sembra aver perso il controllo su questi traffici, che stanno invece arricchendo sempre di più i già autonomi capi delle varie katibe meridionali.
La vera sfida che sta però indebolendo Aqmi non proviene dall’Algeria, in quanto le origini del gruppo sono nel Levante, tra la Siria e l’Iraq. A metà luglio il capo di Aqmi ha deciso di seguire le indicazioni di colui che ritiene ancora essere il capo del jihadismo internazionale, l’ex braccio destro di bin Laden Ayman al-Zawahiri, rifiutando di riconoscere Abu Bakr al-Baghdadi come califfo e capo dello Stato Islamico.


Da allora, gruppi dissidenti si sono moltiplicati in tutto il Maghreb, dichiarando apertamente di aderire all’Is e di mettere a disposizione del califfo le proprie armi e le proprie vite. Altre organizzazioni amiche, tra cui la più famosa è sicuramente la nigeriana Boko Haram, hanno seguito l’esempio e si sono legate al califfato mediorientale. I “soldati del califfato” costituiscono uno di questi gruppi, sebbene numericamente parlando non possano essere considerati tra i più rappresentativi – a seconda delle fonti, l’organizzazione conterebbe tra i 15 e i 30 membri, a fronte di quasi mille uomini ancora in armi e fedeli ad Aqmi.

 

La grande differenza sta nel fatto che la spaccatura si è creata all’interno del gruppo algerino, cuore dell’organizzazione in tutto il Nord Africa. Già in passato altre scissioni avevano diviso e minato la solidità di Aqmi. Fra le più note, quella del già citato Mokhtar Belmokhtar detto “Mister Marlboro”, ora legato al Mujao (Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale, concorrente di Aqmi e protagonista nella guerra civile maliana) e autore dello spettacolare assalto all’impianto di estrazione di gas di In Amenas in Algeria nel gennaio 2013 (azione costata la vita a quasi settanta persone, tra cui 37 ostaggi di varie nazionalità).

 

Le strategie di Belmokhtar sembrano rispondere a logiche di potere ben ancorate al livello regionale e principalmente legate a una lotta per le risorse economiche disponibili in quest’ampia regione a cavallo del deserto. Jund al-Khilafah rappresenta invece una sfida diversa per Aqmi.

 

All’interno della galassia jihadista la capacità di compiere azioni spettacolari, attirare l’attenzione internazionale e fare un buon uso dei mezzi di comunicazione rappresenta il miglior viatico per ottenere risorse e legittimità, fondamentali per la sopravvivenza dell’intera struttura (come le decapitazioni—aggiunta di chiara). Le possibilità di fare proselitismo, arruolare nuovi volontari e assicurarsi il sostegno finanziario di gruppi esterni dipendono in buona parte dall’applicazione di queste strategie.

 

Nel decennio successivo agli attentati dell’11 settembre, l’affiliazione ad al Qaida è apparsa come una soluzione quasi ovvia per i diversi gruppi integralisti sparsi all’interno di tutto il mondo arabo e musulmano. Questi ne hanno adottato tattiche e metodo d’azione e, almeno a livello retorico, ne hanno sposato gli scopi. La discrasia tra la volontà di rivoluzione islamica mondiale, abbattimento del nemico occidentale e il perseguimento di obiettivi quasi sempre di tipo locale è però apparsa piuttosto evidente.


Oggi, in un momento in cui al Qaida appare in difficoltà, mentre è sempre più chiaro come gli attentati alle Torri Gemelle abbiano rappresentato il culmine e non il punto di partenza dell’organizzazione, l’Is costituisce un nuovo e vitale modello per i gruppi islamisti. La sfida tra al-Zawahiri e al-Baghdadi è ormai una lotta per ottenere la guida del jihadismo internazionale.

 

Nonostante i tentativi di mediazione, in alcuni scenari lo scontro è già diventato armato, anche al di fuori di Siria e Iraq. Oltre ad apparire chiaramente come la forza in ascesa all’interno del movimento jihadista, trionfatore sia sul terreno sia sui media, l’Is sembra andare maggiormente incontro alle necessità delle organizzazioni geograficamente distanti dal teatro delle sue operazioni.

 

Seppur uniti da un unico (presunto) obiettivo, ovvero la creazione di un califfato islamico in grado di riunificare anche politicamente l’intera umma sunnita, i vari gruppi sono liberi di agire esclusivamente nella regione di loro interesse e competenza, legittimati a ripercorrere fuori dai confini del Medio Oriente il percorso che ha portato l’Is a controllare una larga parte del territorio compreso tra Siria e Iraq.

 

Le motivazioni inserite nel comunicato del 13 settembre con cui Jund al-Khilafah ha rotto con Aqmi e ha stretto alleanza con al-Baghdadi sottolineano ulteriormente questa spaccatura: oltre a muovere un’accusa di allontanamento dalla giusta via sul piano dottrinario, Gouri rimprovera a Droukdel l’assenza di azioni concrete da parte di Aqmi da ormai troppo tempo. Le modalità dell’esecuzione di Hervé Gourdel dimostrano come i “soldati del califfato” abbiano immediatamente appreso le lezioni dell’Is circa l’uso, prima di tutto mediatico e di comunicazione, di un ostaggio occidentale.

 

Il brevissimo tempo intercorso tra il rapimento e la decapitazione del turista francese può invece essere spiegato guardando alla poderosa mobilitazione dell’esercito algerino nell’area del rapimento. Mobilitazione che può essere compresa solo alla luce delle ultime evoluzioni che stanno interessando il Sahel.

 

 


cartina inserita da chiara

 

 

 

 

Le inquietudini dell’Algeria, le preoccupazioni della Francia, l’instabilità del Mali


Un’operazione condotta da tremila uomini dell’esercito algerino sta tuttora attraversando la Cabilia alla ricerca dei membri di Jund al-Khilafah. Una mobilitazione su larghissima scala, soprattutto se si considerano le ridotte dimensioni del gruppo di ricercati, la quale potrebbe indirettamente aver spinto il gruppo di Gouri a decidere per l’uccisione in tempi cosi brevi dell’ostaggio francese. Fino ad ora, l’operazione ha portato all’individuazione dell’accampamento dove si sarebbe svolta l’esecuzione e all’uccisione di tre membri del gruppo che stazionavano ancora nella zona.

 

L’Algeria sta prima di tutto attraversando un difficile momento di transizione che rischia di rimettere in discussione delicati equilibri di potere instauratisi da più di un decennio. Quest’anno si sono tenute le elezioni presidenziali che hanno portato alla riconferma per il quarto mandato consecutivo di Abdelaziz Bouteflika: l’anziano presidente e uomo dell’esercito, colpito l’anno scorso da un attacco ischemico, appare sempre più come la fragile barriera dietro la quale si stanno muovendo i poteri forti del paese per organizzare la sua successione.


Nonostante le precarie condizioni di salute, né il suo partito (il Fronte di Liberazione Nazionale), né l’esercito sono riusciti a esprimere un’alternativa da presentare alle elezioni. Ciò dimostra come una sua eventuale dipartita rischierebbe di gettare il paese in una lotta per il potere le cui conseguenze non sono al momento prevedibili. Se infatti l’Algeria è stata capace, insieme al Marocco, di resistere senza particolari scossoni al passaggio delle primavere arabe del 2012, nondimeno la situazione interna resta fragile.

 

Lo scontento nei confronti della classe dirigente cova nel paese, come dimostra anche la bassa affluenza alle ultime elezioni (poco più del 50% degli aventi diritto è andato a votare, contro l’oltre 70% del 2009). Solo l’assenza di un vero coordinamento tra le varie anime del malcontento ha impedito che questo si esprimesse in forme più concrete. L’ammutinamento senza precedenti di diverse centinaia di poliziotti, durato dal 15 al 17 ottobre e che ha portato a un vero e proprio “assedio” del palazzo presidenziale e del primo ministro, rappresenta un fortissimo segnale dell’instabilità che sta investendo il regime algerino. A preoccupare altrettanto governo ed esercito sono però anche le notizie che giungono dalle frontiere.

 

L’Algeria comincia a temere la possibilità di essere “accerchiata”da avversari di un nuovo genere rispetto al passato. Storicamente, la lotta per aggiudicarsi il ruolo di potenza regionale nell’area che comprende il Maghreb e l’area occidentale della fascia saheliana ha visto come principali concorrenti l’Algeria, il Marocco di Hassan II e Mohammed IV, la Libia di Gheddafi e, in forma più defilata, l’antico colonizzatore francese.

 

Mentre il Marocco dà segnali di risveglio nei confronti delle sue frontiere meridionali senza che questo inquieti i suoi vicini, Algeria e Francia si ritrovano a stringere patti di collaborazione nell’ambito della sicurezza che non hanno equivalenti in passato. Dopo aver normalizzato le proprie relazioni con il suo ex dipartimento già nei primi anni Duemila, la Francia ha infatti individuato nell’Algeria un alleato fondamentale nella lotta al terrorismo e in generale per affrontare l’instabilità crescente dell’area, all’interno di una più generale ridefinizione dell’impegno transalpino sul continente.

 

Per espressa volontà del presidente Hollande, la République ha deciso di rilanciare la propria presenza in Africa in grande stile, come non accadeva probabilmente dai tempi della guerra fredda. Dopo gli anni Novanta le linee guida della politica africana della Francia erano state ancorate al doppio binario degli affari e degli aiuti allo sviluppo: i primi prevedevano uno Stato che, attuando di fatto un ribaltamento dei ruoli rispetto ai quarant’anni precedenti, mettesse contatti e rete diplomatica a disposizione delle grandi imprese nazionali; i secondi hanno cominciato a privilegiare l’approccio multilaterale, in particolare attraverso l’Unione Europea (di cui si cerca comunque di influenzare l’azione per privilegiare i propri alleati storici).

 

Nello stesso periodo si è cominciato ad attuare un graduale disimpegno militare dal continente, che ha visto la costante riduzione della presenza di soldati francesi di stanza in Africa. Se la decisione presa dall’allora presidente in carica Sarkozy di bombardare la Libia ha riaperto le porte agli interventi diretti della Francia in Africa (assenti, se si esclude il caso della Costa d’Avorio, nei dieci anni precedenti), le sue “conseguenze” hanno costretto la Francia a nuovi interventi effettuati con truppe di terra in diverse aree del continente.

 

Lo scorso luglio la Francia ha deciso di ristrutturare la propria presenza militare in tutta la fascia saheliana: lanciando l’operazione “Barkhane”, il cui comando si troverà a N’Djamena (capitale del Ciad), i transalpini riuniscono sotto un unico comando integrato le diverse missioni in corso in Mali e in Repubblica Centrafricana, oltre alle diverse basi (di fanteria e aeronautica) sparse nei vari paesi tra Ciad e Senegal.

 

La lotta al terrorismo islamico è il principale obiettivo dell’intera operazione. Su questo terreno gli interessi di Francia e Algeria si incontrano. I rapporti tra il regime algerino e i gruppi terroristici sviluppatisi durante gli anni della guerra civile hanno sempre rappresentato un complesso rompicapo, in cui vari attori di entrambi i campi hanno alimentato relazioni con lo scopo di cogliere mutui vantaggi dall’evolversi della situazione.

 

Sostenere che Aqmi e i suoi predecessori sono stati la creazione di una parte (essenzialmente l’esercito e i servizi segreti) del regime di Algeri può sembrare eccessivo, ma è chiaro come in passato diversi accordi siano stati raggiunti tra le parti. L’ultimo esempio è probabilmente stata la decisa partecipazione di Aqmi alla rivolta Tuareg (1990-1995,

agg. ch. ) del nord del Mali:

 

in cambio di una rinuncia a condurre il grosso delle operazioni sul suo territorio, il regime di Algeri ha chiuso più di un occhio rispetto al traffico (di uomini e armi) che ha permesso alla rivolta di prendere piede e di giungere a minacciare l’esistenza stessa del vicino meridionale. Oggi però la situazione appare completamente cambiata.


Proprio ad Algeri si stanno svolgendo dei complessi negoziati tra il governo di Bamako

 

Risultati immagini per bamako

bamako,  capitale e città piu’ popolosa del Mali

 

 

e diversi (ma non tutti) gruppi ribelli del nord  (del Mali? ch.)

 

 

Nel frattempo il territorio maliano a nord di Mopti resta, insieme all’est della Mauritania e al nord-ovest del Niger, un’area contesa e in costante evoluzione. Le forze francesi e della missione Onu (Minusma) sono sottoposte a costanti attacchi – solo nell’ultimo mese nove soldati nigerini e almeno sei ciadiani sono stati uccisi in imboscate organizzate dai gruppi ribelli che rifiutano i negoziati di Algeri – e controllano di fatto solo alcune città del nord.

 

L’Algeria sembra non poter più contare sul suo “rapporto privilegiato” con Aqmi. L’unità dell’organizzazione sembra infatti sempre più messa in discussione e, come già affermato in precedenza, diversi gruppi se ne stanno allontanando con l’intento di formare un nuovo soggetto legato all’Is. Per quanto ogni teatro sia diverso, la situazione tra Mali, Niger, Libia e aree meridionali di Tunisia e Algeria non sembra così differente dal contesto mediorientale in cui l’Is si è formato e rafforzato. Ampie aree non sottoposte a controllo statale sono percorse da milizie spesso formate da reduci di eserciti dissolti, in luoghi dove certamente non manca la disponibilità di armi.

 

Se il messaggio di al-Baghdadi dovesse essere recepito da gruppi diversi in grado di unirsi e coordinare la propria azione, la situazione da complessa potrebbe diventare rapidamente esplosiva, con tutte le conseguenze del caso. Di questo, sia Algeri che Parigi sono pienamente consapevoli e per questo la loro collaborazione e il loro impegno nella lotta al terrorismo sta conoscendo una svolta quasi senza precedenti.

 

L’Algeria si vanta di essere l’unico paese ad aver eliminato dal proprio territorio la minaccia islamista, al prezzo di centinaia di migliaia di vittime perite durante i quasi dieci anni di guerra civile – vittime causate tanto dal terrore dei gruppi islamisti che dalla brutalità della repressione dell’esercito. Il rapimento di Hervé Gourdel è avvenuto negli stessi giorni in cui in Algeria si ricordava un anniversario di sangue: nella notte tra il 22 e il 23 settembre del 1997 più di 400 persone morivano nel massacro di Bentalha, alla periferia di Algeri, probabilmente per mano del Gia (ma più di un dubbio è stato sollevato circa un possibile coinvolgimento di truppe governative).


Uno dei tanti episodi di un incubo che l’Algeria non vuole rivivere.


Per approfondire: Le maschere del califfo

(5/11/2014)


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