ore 18:38 I BOOK BLOG —CLASSICI SULLE BARRICATE –einaudi—con un’intervista a WU MING—” (Abu’l-Qasim Ash-Shabbi, poeta tunisino, morto nel 1934 – a soli 25 anni )

 

 

 

Quando all’inizio di gennaio i tunisini sono scesi in piazza in quella che sarà ricordata come «la rivolta dei gelsomini», c’era una frase a scandire la protesta:

 


Se un giorno il popolo vorrà vivere, il destino dovrà fargli strada.

 


È un verso del poeta Abu’l-Qasim Ash-Shabbi, tunisino, morto nel 1934 – a soli 25 anni. La sua opera fu ignorata o aspramente criticata quando era in vita, e dopo la sua morte ci furono decenni di oblio. Fu negli anni Sessanta, quando nei paesi arabi cominciò la lotta contro il colonialismo e l’imperialismo, che Ash-Shabbi fu riscoperto, e consacrato come poeta politico. Eppure non era un rivoluzionario. Era stato persino accusato di sfruttare a suo vantaggio il dominio francese, di non avere rispetto per il popolo arabo.
Il fatto è che l’opera di Ash-Shabbi, e pure la sua figura, si prestano a diventare simbolo. Non importa il contesto in cui le sue poesie sono state scritte, e non importa quali fossero, allora, i referenti reali. Negli anni Sessanta le sue parole diventarono il simbolo della lotta all’imperialismo.
Oggi i popoli del Medio Oriente lottano per conquistare la democrazia, e i versi di Ash-Shabbi si vestono di nuovi significati.
Dopo la Tunisia, il 25 gennaio le strade del Cairo si gonfiano di manifestanti, e a suggellare la nascita di una rivoluzione ci sono, ancora una volta, le parole di Ash-Shabbi.

Oh despota ingiusto,
amante del buio e nemico della vita,
hai riso dei gemiti di un popolo debole,
mentre la tua mano è imbrattata del suo sangue.
Vai profanando l’incanto della vita
E seminando le spine della sofferenza nel suo campo.

Piano! Non ti lasciare ingannare dalla primavera,
dal cielo sereno e dalla luce del mattino;
ché al di là dell’immenso orizzonte c’è il terrore delle tenebre,
lo squarcio dei tuoni e il furore dei venti.
Stai attento! Sotto le ceneri cova il fuoco
E chi semina spine raccoglie ferite.

Guarda là… Quante teste hai tagliato
e quanti fiori di speranza.
Hai riempito di sangue il cuore della terra
E le hai fatto bere lacrime fino a ubriacarla.
Sarai travolto da un torrente, un torrente di sangue,
e divorato dal fiume ribelle.

Ai tiranni, da I canti della vita, traduzione dall’arabo di Imed Mehadheb, Di Girolamo editore

 

 

Il poeta ragazzino morto quasi ottant’anni fa dà voce ai giovani che oggi si ribellano ai regimi. I suoi versi, letti al megafono o gridati a squarciagola, raccontano di una rivolta universale: hanno parlato contro Ben Ali, hanno interpellato Mubarak. Sono il testimone, feroce e lirico, che la Tunisia ha passato all’Egitto.

Questo è il potere di un classico. La parola che si fa senso condiviso, la parola che unisce, che ha valore per chi conosce la storia e per chi non la conosce. La parola che si slaccia dal contesto in cui è nata per parlare di altri luoghi e altri tempi.

I classici – ha scritto Calvino – sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.


foto di Laura Berardi

Una lezione che anche gli studenti italiani, nei cortei di dicembre, hanno trasformato in azione. Dilagati fino a Londra, i Book Bloc, termine coniato dai Wu Ming, sono diventati il simbolo di una rivolta che rivendica il diritto alla cultura. Sui loro scudi di gommapiuma i manifestanti esibivano titoli e autori capaci di parlare non solo ai propri compagni, ma anche a chi stava dall’altra parte della barricata, alle istituzioni, alle generazioni precedenti, ai genitori che magari le parole di quei libri le avevano fatte proprie nelle proteste di quarant’anni fa. Titoli che da soli esprimono idee e valori, critiche e proposte.

 

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