DA G&MA con urgenza :: FRANCESCO ERBANI / ANTONIO CEDERNA, RICERCATORE AMBIENTALISTA—VENT’ANNI DOPO LA SCOMPARSA

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Antonio Cederna (Milano, 27 ottobre 1921[1]Sondrio, 27 agosto 1996[1]) è stato un giornalista, ambientalista,politico e intellettuale italiano.

Figlio di Giulio Cederna e di Ersilia Gabba, fratello della giornalista Camilla Cederna e padre di Giuseppe, Camilla e Giulio Cederna; nipote di Antonio, valtellinese di modeste condizioni, prima garibaldino e poi imprenditore di cotone aMilano. La madre Ersilia, figlia di Luigi Gabba, garibaldino e professore al Politecnico di Milano, è una delle prime donne in Italia a conseguire la laurea (in germanistica)[2].

Nel 1943, per sfuggire alla chiamata alle armi dell’esercito della Repubblica di Salò, si rifugia in Svizzera; viene arrestato e internato nel campo di lavoro forzato di Buren. Nel 1945 riesce a rientrare in Italia.

Si laurea in Archeologia classica all’Università di Pavia nel 1947 con una tesi sulla scultura tardo-romana e consegue il diploma alla scuola di perfezionamento di Roma nel 1951. Abbandona quasi subito però l’archeologia per dedicarsi con passione e impegno a campagne di stampa volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi inerenti alla salvaguardia del territorio, del patrimonio naturale e culturale italiano

 

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” LA DEMOCRAZIA E’ SOGNARE CITTA’ PIU’ BELLE ”

 

24/8/2016

CULTURA

Vent’anni fa l’addio allo studioso ambientalista che seppe coniugare tutela e sviluppo sostenibile.   Dal “Mondo”  a “Repubblica” una vita dedicata alle campagne contro l’urbanizzazione selvaggia. Antonio Cederna la democrazia è sognare città più belle

FRANCESCO ERBANI

 

una denuncia.

Non era un conservatore: amava la piramide del Louvre, ammirava la nuova Amsterdam

FOTO: © GIORGIO LOTTI/ MONDADORI PORTFOLIO

È stato un archeologo? Un giornalista? Un intellettuale e un politico? Un militante ambientalista? Vent’anni dopo la sua morte, è ancora difficile stringere Antonio Cederna in una sola definizione. Forse è più probabile ragionare su cosa non è stato. A differenza di un’etichetta rimastagli incollata, non è stato un nostalgico, un laudator temporis acti. Voleva che si conservasse l’eredità di storia e di bellezza che il passato ha trasmesso, ma non è stato un conservatore. Sottolineava che la tutela dell’antico era una scienza moderna, nata in età moderna. E l’aggettivo “moderno” rimbalza nei suoi scritti sempre per

qualificare e mai per denigrare. Non è moderna, insisteva, la città che nel dopoguerra si sviluppa trascinata dagli interessi speculativi. È moderna, all’opposto, la città che salvaguarda integralmente il suo centro storico e che si espande correttamente pianificata. E ancora: gli piace la piramide di Pei al Louvre e se l’Auditorium di Renzo Piano a Roma è lì dov’è, lo si deve anche a lui.

Cederna si spegne nella sua casa di Ponte in Valtellina il 27 agosto del 1996. Il suo primo articolo lo scrive sul Mondo di Mario Pannunzio nel luglio del 1949 (il settimanale era al quinto numero) e da allora, per quasi cinquant’anni, sul Corriere della sera poi su Repubblica e sull’Espresso, racconta che cosa accade nell’Italia alle prese con la più tumultuosa trasformazione mai avvenuta prima sul suo territorio: stando a una stima assai attendibile, i nove decimi di quel che vediamo costruito risalgono a questi cinquant’anni. Nel 1956 raccoglie nel libro I vandali in casa gran parte degli articoli del Mondo.

E nell’introduzione compare un’esauriente radiografia di come l’Italia vada smarrendo secoli di buona urbanistica, proseguendo a demolire pezzi pregiati nei centri storici e allestendo alcune fra le più disumane periferie del mondo occidentale.

Non è solo uno scandalo urbanistico, per usare il titolo del libro con il quale alcuni anni dopo Fiorentino Sullo avrebbe raccontato la fine del suo progetto di riforma del regime dei suoli. Ma è, appunto, il capitolo di una controstoria d’Italia. Ancora nel 1991 sulle pagine di questo giornale, Cederna esprime la convinzione che a spingere il piano Solo, il tentativo di colpo di Stato del 1964 (svelato da l’Espresso nel 1967), ci sia anche la mano della proprietà fondiaria e dei suoi referenti politici contrari a ogni legge, del tipo di quella proposta da Sullo, che preveda l’esproprio delle aree sulle quali far crescere le città. Crescita che invece deve essere dettata da chi le aree possiede.

Nei primi anni Sessanta Cederna studia con metodo il piano regolatore di Amsterdam e ne scrive su Casabella. Piene di ammirazione sono le descrizioni di come la capitale olandese, dagli anni Trenta in poi, abbia costruito quartieri esemplari per qualità edilizia, spazi pubblici e verde grazie al controllo pubblico delle aree. Qui Cederna misura la modernità di Amsterdam (come di altre capitali nordeuropee, socialdemocratiche o anche conservatrici) rispetto all’arretratezza italiana, dove invece svettano «palazzine e palazzate», i cosiddetti intensivi nei quali abitano i «murati vivi», «senza prati né campi sportivi» (Cederna è anche un po’ poeta: questi versi sono tratti da una composizione burlesca, in cui prende in giro un fantomatico architetto comunista — siamo a metà anni Sessanta — che detesta «i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi», «oppio capitalistico» che distrarrebbe da impeti rivoluzionari).

Così si ingrossavano Milano, Napoli, Palermo, ma soprattutto Roma, la città in cui Cederna sbarca a fine anni Quaranta e che, con la Società generale immobiliare, il Vaticano, il marchese Gerini e la pletora sguaiata dei palazzinari, diventa l’esemplare di un’Italia che crede nella rendita e nell’edilizia come motori di sviluppo. Criticare questo modello porta Cederna sulla linea liberaldemocratica del Mondo e poi dell’Espresso, più che dei comunisti.

È un’Italia che sui temi urbanistici discute, litiga. E rischia, insiste Cederna, di rimetterci nientemeno che la democrazia. Cederna si occupa di paesaggio minacciato, di parchi nazionali, di beni culturali in pericolo (memorabili i suoi ripetuti articoli sulla collezione Torlonia, che solo ora potrebbe tornare a veder le stelle). Scrive, trascina Italia Nostra, che nel 1955 contribuisce a fondare, è eletto consigliere comunale, poi parlamentare indipendente nel Pci, mobilita intellettuali, diventa il riferimento del nascente ambientalismo, non c’è comitato o associazione che non lo tempesti per un appello o È laureato in lettere classiche, con una tesi in archeologia. Però è soprattutto l’urbanistica il terreno del suo impegno. Di tanti urbanisti è amico, divora quel che si pubblica in materia non solo in Italia. Quando avvia due fra le più coinvolgenti battaglie condotte a Roma, il Progetto Fori e il salvataggio dell’Appia Antica che sta per trasformarsi in un quartiere residenziale, due battaglie strettamente connesse, fa opera di tutela e insieme persegue un’idea di città. All’Appia Antica dev’essere risparmiato l’oltraggio del cemento sia per i monumenti lì custoditi sia per scongiurare l’infernale saldatura edilizia che distruggerebbe il “cuneo verde” di campagna che si spinge al cuore della città creando una connessione fra il centro e la periferia orientale. Connessione che si completerebbe con l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, lo stradone mussoliniano che da piazza Venezia porta al Colosseo, cioè la vera essenza del Progetto Fori (spesso ambiguamente rimpicciolito a semplice pedonalizzazione); e con un moderno centro direzionale in cui trasferire ministeri, sedi di banche e di aziende che asfissiano il centro storico. Appia Antica e Progetto Fori agli occhi di Cederna sono due programmi per la città, la bellezza coniugata al suo moderno funzionamento, non solo per il turismo. L’Appia Antica è salva (e se non ci fosse stato Cederna non lo sarebbe), il Progetto Fori è in un cassetto, di centri direzionali ne sono sorti diversi, per lo più a casaccio.

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