NEMO & MA ::: STEFANO BOERI JOSEPH GRIMA PIER PAOLO TAMBURELLI —UN GRANDE PROGETTO PER IL PAESE DOPO IL SISMA

 

REPUBBLICA DI IERI VENERDI’ 23 SETTEMBRE 2016, p. 50

 

COMMENTI

UN GRANDE PROGETTO PER IL PAESE DOPO IL SISMA

 

STEFANO BOERI JOSEPH GRIMA PIER PAOLO TAMBURELLI

NEL settembre 1997 un terremoto (magnitudo 6,1) colpisce Umbria e Marche. Muoiono 11 persone. Nell’ottobre 2002 un terremoto (magnitudo 6) colpisce il Molise. Muoiono 30 persone. Nell’aprile 2009 un terremoto (magnitudo 6,3) colpisce L’Aquila. Muoiono 310 persone. Nel maggio 2012 un terremoto (magnitudo 5,9) colpisce l’Emilia. Muoiono 27 persone. Ad agosto 2016 un terremoto (magnitudo 6) colpisce la regione montana tra Marche e Lazio. Muoiono 297 persone. Sono cinque i terremoti in venti anni, tutti grossomodo della stessa intensità, tutti grossomodo nella stessa regione.

In generale, un terremoto di magnitudo 6 non è necessariamente devastante. I terremoti di questa intensità lo diventano solo di fronte ad alcune condizioni del patrimonio edilizio. Si tratta quindi di intervenire per modificare questi insediamenti.

Crediamo che il problema vada inteso in due tempi: un tempo breve dell’emergenza, delle soluzioni dichiaratamente temporanee e un tempo lungo della gestione del territorio. Un tempo del “fare presto” e un tempo del “fare bene”.

Dal punto di vista architettonico, il Giappone offre un modello concreto di cosa sia possibile fare nell’immediato. Nel 2010, un gruppo di architetti coordinato da Toyo Ito, Kazuyo Sejima e Riken Yamamoto ha reagito al fortissimo sisma che ha colpito la regione di Tohoku avviando il progetto  Home for All (case per tutti) , un programma di microedilizia di elevata qualità, finanziato quasi interamente con donazioni private. In decine di villaggi sono state realizzate in tempi brevi abitazioni, asili e servizi sociali provvisori, ma capaci di restituire dignità ai luoghi di una comunità in ginocchio, prevenendo così lo sgretolamento del tessuto sociale. Questa esperienza, come del resto quella della ricostruzione dei centri urbani friulani colpiti dal sisma del 1976, ci ricorda che le soluzioni prodotte nell’emergenza, se nascono dalla condivisione con i cittadini dei loro bisogni possono agire come elementi generatori di una nuova vita sociale, che diventa la traccia e il luogo di sperimentazione delle città che vi faranno seguito.

Nel lungo periodo si dovrebbe invece provare ad immaginare come mettere in sicurezza tutto il territorio. Ma resta da chiedersi quanto potrebbe costare un simile piano. Le cifre più credibili parlano di 50 miliardi per i soli edifici pubblici e di 100 per quelli privati. Ma è possibile ridurre questa cifra sottolineando due aspetti: che non si

deve trasformare

tutto e che non si deve trasformare

subito.

La messa in sicurezza di una parte consistente del territorio nazionale a forte rischio sismico (grossomodo coincidente con tutto l’Appennino, una parte di Veneto e Friuli e la parte orientale della Sicilia: quasi metà del Paese, con una popolazione di circa 20 milioni di abitanti) va inserita all’interno di una urgente ricognizione di questi territori. Sono zone che spesso hanno una densità di popolazione inferiore a 50 abitanti per chilometro quadrato, un rapporto di due anziani per ogni giovane e una percentuale di abitazioni vuote censite spesso pari al 50% del patrimonio edilizio. In queste zone, l’arrivo del sisma spesso porta un’improvvisa accelerazione di un processo di spopolamento già in atto da tempo, e di conseguenza sarebbe perfino dannoso ricostruire tutto, perché questo “tutto” del tutto teorico (ospedali parzialmente usati e spesso inefficienti, case che i proprietari nemmeno si ricordano più) è largamente superfluo.

Queste zone, assieme ad immaginare come proteggersi dai terremoti, devono immaginare come potranno vivere nel futuro. Immaginare come gestire il territorio, come proteggere la rete viaria minore, come redistribuire i servizi. La messa in sicurezza del territorio potrebbe quindi essere l’occasione per una più generale riorganizzazione dei territori periferici italiani, ripensando i confini amministrativi, definendo unità territoriali elementari più ampie dei Comuni attuali (il 70% dei Comuni italiani ha meno di 5.000 abitanti) e con maggior autonomia finanziaria e decisionale (un Comune di 300 abitanti di cui metà ultrasettantenni non riesce ad essere davvero democratico; metà delle volte il sindaco è il dottore). Si potrebbe iniziare con progetti-pilota con cui verificare alcune ipotesi iniziali e poi procedere a definire una metodologia di intervento più generale.

La “messa in sicurezza” di mezza Italia ha bisogno di ricerca, di conoscenza e, più di tutto, di un progetto, anzi di tanti progetti. Questi progetti bisogna avere il coraggio di volerli fare. Altrimenti, se si pensa invece che non si deve progettare niente e che non si deve escludere nulla dai contributi pubblici, allora sappiamo già come va a finire.

Mercoledì 12 ottobre presso il Politecnico di Milano vogliamo cominciare a discutere di come le discipline del progetto possono essere chiamate a contribuire efficacemente alle grandi sfide dell’emergenza post sismica e della rigenerazione delle nostre città.

 

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