EDITORIALE DEL NUMERO 19/ 2017 DI LIMES::: ANATRA O CONIGLIO?:: TRA QUATTRO O CINQUE GIORNI (secondo come contate), il 21 DICEMBRE SI VOTA IN CATALOGNA!

 

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Anatra o coniglio?

Pubblicato in: MADRID A BARCELLONA – n°10 – 2017

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

L’editoriale del numero di Limes 10/17, Madrid a Barcellona.

1. Spagna versus Catalogna: Stato di troppe nazioni contro nazione divisa, per metà in cerca di Stato. Monarchia parlamentare in crisi di legittimazione decisa a difendere il suo ordine democratico contro aspirante repubblica secessionista, dove ai paladini della rivoluzione antispagnola, che si vuole libertaria e non violenta, si oppongono unionisti di vario grado e colore. Conflitto esistenziale. Antico nelle radici, nuovo nelle forme. Nel quale oggi prevale Madrid, grazie al provvisorio (?) commissariamento della Comunità ribelle. Ma la posta in gioco è tale, la reciproca insofferenza così viscerale, da escluderne qualsiasi soluzione, comunque precaria, senza agitati tempi supplementari.    

Per il Regno di Spagna, imperniato sulla centralità castigliana, l’obiettivo è affermare un’identità condivisa superiore alle diverse nazionalità che insieme ai particolarismi tradizionali ne scuotono il corpo con impressionante frequenza. Così archiviando la velenosa sentenza del filosofo madrileno José Ortega y Gasset, che un secolo fa bollava l’España invertebrada 1. Paragonata «all’immenso scheletro di un organismo evaporato, svanito, che rimane in piedi soltanto per l’equilibrio materiale della sua mole, come dicono che accada, dopo morti, agli elefanti» 2.

Tesi tuttora confortata da alcuni indizi. La Spagna ufficiale non sa dare un testo al suo inno, la gloriosa quanto muta Marcha Real che una leggenda vuole musicata da Federico il Grande di Prussia. Quanto alla costituzione democratica del 1978: nel preambolo si evoca la «Nazione», salvo poi riferirsi ai «popoli di Spagna», compressi all’articolo uno nel «popolo spagnolo» cui è assegnata la «sovranità». Per tornare (articolo due) all’improbabile convivenza semantico-geopolitica fra «Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli» e «autonomia delle nazionalità (tondo nostro, n.d.r.) e regioni che la integrano» (carta a colori 1) 3.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Se nel Regno di Spagna la nazione è carente perché ve ne sono troppe, per la Catalogna nazionalista, che dopo Franco si è dotata di un vestito autonómico di taglia semistatuale, il sogno è di erigersi a Stato indipendente in forma di repubblica. Doppia rottura: dalla Spagna e dalla sua monarchia. La proclamazione della Repubblica Catalana da parte della stretta maggioranza del parlamento regionale (27 ottobre), autolegittimata dal risultato – non verificato da istanze neutre – del referendum indipendentista del 1° ottobre in cui una minoranza (43,03%) del corpo elettorale ha plebiscitato (90,18%) la repubblica (carta 1) 4, è sfociata quindi nel commissariamento della Comunità ribelle e nel mandato di arresto contro quasi tutti i suoi capi. Queste misure seguono l’incarceramento dei primi «martiri» sovranisti, Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, e inaspriscono il conflitto non solo legale che ne è scaturito. Ciò getta più di un’ombra sulle elezioni regionali fissate da Madrid per il 21 dicembre


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La proclamazione della Repubblica Catalana resta per ora sulla carta, sospesa cautelativamente dal Tribunale costituzionale. Ma l’indipendentismo non è domato (tabella 1), con le frange estremiste attratte dalla resistenza violenta. Quanto al Regno di Spagna come l’abbiamo conosciuto dopo Franco è al bivio tra federalismo, opzione di medio periodo giacché comporta la riforma della costituzione, e recupero per vie brevi di antiche ma vivissime vocazioni centraliste, esposte nel commissariamento della regione ribelle. In un contesto di forte delegittimazione dei partiti, di modesta autorevolezza della monarchia e di tangibile rallentamento dell’appena avviata ripresa economica. 


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 Fin d’ora, il duello tra Spagna e Catalogna sta mutando la natura dei due soggetti, il carattere dei loro rapporti e della convivenza fra tutti i popoli che compongono l’eterogeneo mosaico peninsulare. 

Se Madrid riuscisse a normalizzare Barcellona, con la forza della legge o con la legge della forza, non per questo la Spagna avrebbe ricomposto le fratture regionali e (sub)nazionali che ne sono il marchio storico. Baschi, fors’anche galiziani e altri (sub)nazionalismi peninsulari studiano i duellanti per capire se e come trarre vantaggio dallo scontro, oppure proteggersi dal crollo della casa comune. All’opposto, negli apparati profondi dello Stato spagnolo, dove pur in pieno regime democratico la tradizione autoritaria castiglianocentrica si tramanda quasi per sangue e la limpieza franchista eccita più di un nostalgico, si confida che la lezione sarà definitiva. Sicché i responsabili di questa «slealtà inammissibile contro i poteri dello Stato», fulminati da Filippo VI 5 nella bolla televisiva ex cathedra del 3 ottobre, ne risponderanno alla giustizia. Ma la confusione geopolitica, istituzionale e politica esplosa il 27 ottobre è difficilmente gestibile. Monarchici più o meno spagnolisti – liberali, socialisti ma anche reazionari – a Madrid; repubblicani radicali, cattolici moderati come pure gruppi anarcoidi a Barcellona. Nessuno rinuncerà per principio ai mezzi necessari a prevalere. E forse qualcuno cederà al fascino della violenza.

E se anche un giorno Barcellona riuscisse a erigere la sua Comunità autonoma in repubblica indipendente non solo di nome, difficilmente quella buona metà della popolazione che intende restare unita al resto del paese si adatterebbe in serenità al nuovo regime. Senza contare il salatissimo conto economico che tutti gli spagnoli, ma anzitutto i catalani, stanno appena iniziando a pagare per difendere i contrapposti, indisponibili diritti.


2. La voragine che lo scontro tra il governo di Madrid e la Generalitat di Catalognaalacremente scava nel cuore della Spagna è di proporzioni imprevedibili. Destinate a variamente incidere sul resto d’Europa. Persino al di là del nostro continente. In geologia sarebbe apparentata alle frane per espandimento laterale, prodotte dalla frizione fra materiali rigidi sovrastanti (Regno di Spagna) con i flussi di quelli plastici sotterranei (catalanisti e altri nazionalisti espliciti o latenti). Di qui la fratturazione della struttura superiore. Nel caso specifico, la meccanica franosa si ripercuote in seno all’entità catalana, con i suoi 7 milioni e mezzo di abitanti, di cui poco meno di 5 milioni nati in Catalogna. Quanto agli allogeni, si identificano al 60% anzitutto come catalani. Pur se molti di loro non si esprimono in català, in una nazione che fa del proprio idioma il supremo marchio identitario ma parla in relativa maggioranza castigliano (carta a colori 2) 6.

Se configurata in Stato nazionale, la Catalogna potrebbe svelarsi troppo rigida alle sue plastiche comunità interne, tra cui una quota imponente di cittadini «diversamente spagnoli» o stranieri – 49 mila gli italiani censiti, di cui 25 mila a Barcellona. Con il centro medio-borghese della metropoli capitale robustamente anticastigliano, molto meno le periferie multietniche e proliferanti di immigrati dalle regioni più povere del Regno, oltre a una diffusa opinione unionista – per interesse, paura o convinzione. Frizioni visibili anche nella Catalogna interna, mediamente più secessionista. E nelle variopinte comunità straniere – europee, africane, asiatiche, mediorientali – insediate nel territorio. Per tacere dell’esigua enclave aranese, il cui dialetto occitano pure è riconosciuto dallo Statuto catalano, dove nel referendum del 1° ottobre il consenso ai secessionisti è stato piuttosto deludente.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Come non bastasse, in molti catalani, specie nazionalisti di sinistra, vive la rappresentazione geopolitica del Pi de les Tres Branques, marchio (geo)grafico dei «paesi catalani» («països catalans»), i quali ricamano nei rispettivi stendardi e gonfaloni variazioni araldiche della senyera real, bandiera dei re d’Aragona e conti di Barcellona (carta 2). Il «pino a tre rami» – ma la ramificazione è assai più folta – comprende lo storico Principato di Barcellona, composto dalla Comunità autonoma di Catalogna (autoproclamata repubblica), dalla quasi totalità del dipartimento francese dei Pirenei Orientali (la Catalogna Nord dei catalanisti), dalle Baleari e dalla Comunità Valenzana. Inoltre, la Frangia d’Aragona; il Principato di Andorra, indipendente; El Carxe, nella Regione di Murcia; l’Alguer, ovvero la nostra Alghero, dove ha sede un distaccamento della Generalitat.


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Spagna, Francia, Andorra e Italia: quattro Stati europei sono coinvolti nel pancatalanismorisorgente. Non solo spiritualmente. Un drappello di sardisti filocatalani è sbarcato a Barcellona in soccorso dei confratelli. I nord-catalanisti di Perpignano, dopo aver stampato milioni di schede referendarie trasportate clandestinamente oltre i Pirenei, hanno offerto senza successo una magnifica villa all’eventuale «governo in esilio», rifugio per il «loro» presidente Carles Puigdemont. Né sarà sfuggito alle autorità di Parigi come durante gli scontri che il 26 ottobre hanno accompagnato la visita di Emmanuel Macron nella Guyana francese in subbuglio alcuni autonomisti franco-amazzonici sventolassero a Caienna la bandiera catalana. Prodigi dell’interconnettività no-global. Troppo spesso declassata a folklore, salvo poi sorprendersi delle sue eruzioni.

Ma l’onda sismica va oltre la Spagna e i suoi vicini. Profondo e immediato è il riflessosull’Unione Europea nelle dissonanti declinazioni comunitarie e governative, sui suoi separatismi dormienti o attivi (carta a colori 3). In prospettiva, perfino sulla stabilità dell’Eurozona. Finora le cancellerie europee hanno fatto quadrato attorno a Madrid. Con qualche bemolle (Belgio, dove il premier Charles Michel ha criticato le violenze della polizia spagnola durante il referendum mentre i separatisti fiamminghi tifano per la Repubblica Catalana), cacofonie interne (Edimburgo «rispetta» Barcellona, Londra la condanna senza appello) e dissonanze coperte (la Slovenia, dove qualcuno confonde la Spagna con la Jugoslavia). Tutti gli Stati membri escludono che l’eventuale Repubblica di Catalogna possa restare nell’Ue. E ammoniscono che una volta uscita non potrebbe rientrarvi, non fosse che per lo scontato rifiuto spagnolo. Così come è escluso che la Catalogna indipendente possa affiancare la Spagna nella Nato, stante il sostegno di Washington a Madrid. Per tacere dell’Onu, in cui tutti i membri del Consiglio di Sicurezza, con la possibile eccezione della Russia – dove non ci si dispera per le secessioni in ambito euroatlantico – opporrebbero il veto alle velleità catalane.


Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


3. Al primo sguardo, lo scontro frontale Madrid-Barcellona appare irrazionale. Quasi inspiegabile, se non forse ricorrendo a donchisciotteschi stereotipi sulla hidalguía, peraltro difficilmente applicabili a protagonisti tanto scoloriti quali Mariano Rajoy e Carles Puigdemont. Di qui un rosario di interrogativi tutti legittimi, che potrebbero indurre a considerare la partita in corso come insieme di paradossi, conseguenze non volute di mosse mal calcolate. Come nel breve elenco che segue. 

Perché uno scontro di tale portata e di così antiche origini ha colto la Spagna impreparata, per tacere di noi altri europei? Com’è potuto accadere che il governo di Madrid abbia bollato «farsa» il più che annunciato referendum indipendentista del 1° ottobre, lo abbia sentenziato «nullo e non avvenuto», salvo trattarlo da sedizione, con la polizia spagnola a manganellare civili inermi in fila per il voto/carnevale, con effetti d’immagine globalmente disastrosi, a tutto vantaggio dei catalanisti? E perché commissariare la per ora teorica Repubblica di Catalogna ricorrendo all’«opzione atomica» scolpita nell’articolo 155 della costituzione, scritto per non essere applicato, come vuole la dottrina della deterrenza nucleare? Tanto più in una regione refrattaria all’Estado (sinonimo spregiativo di España), dove gli apparati spagnoli sono storicamente poco più di un ologramma, sicché il commissariamento, se prolungato nel tempo e inasprito nel metodo, si colora di reconquista? In che modo, sul fronte opposto, possono gli indipendentisti catalani – uniti dal rifiuto di appartenere alla Spagna, divisi su tutto il resto – costruire sul serio la repubblica che hanno inventato? Sovrana non solo a parole, ma per controllo del territorio, monopolio della violenza, disponibilità di Forze armate credibili e fedeli, legittimità ed efficienza dei tribunali e delle burocrazie che distinguono gli Stati veri dalle repubbliche delle banane.

A ben scavare, lo scontro è meno irrazionale di quanto appaia. Non in quanto immune da sincere passioni, moltiplicate dalle propagande e disseminate dai media. Ma perché tanta eccitazione esprime argomenti geopolitici e storici profondi, distillati nei secoli, ad inasprire ferite identitarie e territoriali mai sanate. Per analizzarle occorre sgombrare il campo dal pangiuridicismo. Madrid e Barcellona travestono lo scontro geopolitico da disputa legale. Confondono volutamente il volto con la maschera.

In punto di costituzione spagnola, Rajoy ha ragione: referendum e dichiarazione d’indipendenza sono crimine. Le controargomentazioni di Puigdemont, suggerite dagli azzeccagarbugli che si dilettano di ius gentium, paiono fiacche. Ma non siamo in tribunale, né i contendenti sono avvocati di fronte a un giudice terzo, abilitato a dirimere la vertenza. È un tentativo di rivoluzione geopolitica mascherato da conflitto legale. Finora il trucco conviene ad entrambi.

Serve al governo di Madrid, sostenuto dal tutt’altro che apolitico Tribunale costituzionale, per corroborare la propria intransigenza e impedire l’internazionalizzazione del caso, ridotto a competenza delle autorità spagnole nell’ambito della loro interpretazione del diritto interno. Insieme, per mettere alle corde l’eterogenea coalizione indipendentista Junts pel Sí che sorregge la disciolta Generalitat. Nella speranza di farne esplodere le divisioni. Sia fra i centristi del Partito democratico europeo catalano, d’ispirazione cattolico-liberale – guidati dal tentennante Puigdemont, disposto fino all’ultimo secondo a un compromesso che gli garantisse l’immunità e l’esimesse dal proclamare subito l’indipendenza – che fra gli esponenti della storica Sinistra (Esquerra) repubblicana, capeggiata dal vicepresidente Oriol Junqueras. Ma soprattutto fra costoro e gli alleati tattici organizzati nella Candidatura di unità popolare (Cup), coacervo di comunisti, neobolivaristi, ecologisti radicali e social-movimentisti (catalibani).

Ed è stato utile alla Generalitat poi commissariata, che con una mano agitava le masse secessioniste mentre sotto il tavolo – grazie ai leader baschi e ad altri «facilitatori» celati, tra cui Merkel e Tusk – tendeva l’altra al governo, agli apparati e ai partiti di Madrid, cercando di opporre all’intransigenza del Partito popolare e di Ciudadanos i meno inflessibili dirigenti di Podemos e qualche residuale malpancista. Non rendendosi forse conto che la destra tardofranchista fuori e dentro il partito di Rajoy non intendeva perdere l’occasione di tagliare la testa all’idra separatista, liquidando il secessionismo catalano affinché gli altri (sub)nazionalisti intendessero.

Se Puigdemont si trovava a cavalcare una rivoluzione non violenta e disarmata senza volerla proclamare tale, fosse solo per l’asimmetria delle forze in campo, Rajoy manovrava una controrivoluzione formalmente legale, con nello zaino ben convincenti mezzi economici, polizieschi e, sullo sfondo, militari. Con ciò dimostrando di comprendere la natura del conflitto, di saper valutare il parallelogramma delle forze in campo. La secessione di un territorio da un altro, per quanto pacifica nelle intenzioni – non necessariamente nelle conseguenze – è atto eversivo dell’ordine geopolitico costituito. La Catalogna non può immaginare di divorziare tranquillamente dalla Spagna senza il consenso di quest’ultima. Può farlo solo impiegando, o minacciando di impiegare, la forza. Che non ha. Appellarsi alla legalità costituzionale e statutaria che si è contribuito a scrivere, reinterpretandola a proprio vantaggio, per cercare di uscirne – ossia violarla – è nonsenso logico, strategico e geopolitico (carta a colori 4).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

È lo Stato che fonda la costituzione, non la costituzione che fonda lo Stato. Questa lo legittima e organizza, in conformità al carattere del potere da cui emana. Scambiare una rivoluzione per un processo legale significa vocazione al martirio o trista ignoranza. In ogni rivoluzione il diritto è per definizione sospeso. Sarà poi il sigillo della vittoria o della sconfitta. Se prevarranno gli eversori, affermeranno il proprio. Altrimenti, i vittoriosi difensori del regime ne inaspriranno a proprio favore il carattere, nello spirito e/o nella lettera. Se nei prossimi mesi Madrid riuscirà ad addomesticare Barcellona con l’aiuto degli unionisti locali, e se la destra manterrà la guida del governo nazionale, il termometro che misura i poteri in Spagna segnalerà un picco di febbre castiglianocentrica.    

Patetico è poi, per i sovranisti catalani, appellarsi al diritto internazionale. Ammirevole quanto anacronistico teatro allestito a fine Ottocento dai colonialismi europei per vestire di umanesimo cosmopolitico il proprio complesso di superiorità e la missione civilizzatrice che ne autoderivavano. La storia insegna quanto tale peculiarissimo «diritto» sia manipolabile in ossequio alle relazioni di potere fra i soggetti geopolitici formali e informali che, di norma refrattari alle regole, disputano nelle arene del mondo. L’idea catalanista di legittimare la secessione dalla Spagna in quanto «terapeutica», protezione rispetto «alla grave violazione dei diritti umani» prospettata in ambito internazionalistico (occidentale) per offrire fondamento giuridico all’indipendenza del Kosovo, non è solo astrusa ma involontariamente comica essendo invocata contro uno Stato che rifiuta di riconoscere sovrana l’ex provincia serba. 

Puigdemont e seguaci risultano per ora bocciati all’esame di rivoluzione. A motivarne e forse nel tempo riscattarne l’azione – maturata per decenni all’ombra del leader storico dell’autonomismo catalano, Jordi Pujol, travolto dalle accuse di corruzione, e del suo tuttora attivo successore, Artur Mas – resta una sola opzione: il teorema del «processo sovranista» (procés soviranista). Il catalanismo politicamente moderato concepisce l’autonomia come entelechia. Nel concetto e nella prassi autonomistica è inscritta la meta finale dell’indipendenza. Vetta da scalare per gradi. Partendo dal campo base – lo stentoreo «Ja sóc aquí» pronunciato al suo ritorno a Barcellona, il 23 ottobre 1977, dal presidente esiliato della Generalitat, Josep Tarradellas – per attendarsi a quote sempre più alte, grazie a leggi e prassi autonomistiche progressivamente più radicali, sperando in uno sbocco federale, forse confederale, prima di toccare il traguardo della sovranità democratica. Secondo tale strategia, grazie alla successione controllata di provocazioni periferiche e sovrareazioni centralistiche (modello 1° ottobre) si consolida il vittimismo catalano, si espone l’autoritarismo castigliano, si conquistano simpatie nelle opinioni pubbliche internazionali, specie fra i vicini europei. La legittimità spagnola viene erosa dalla legittimazione catalana. L’autorità del Regno è svuotata per tappe, fino a evaporare. Per generare infine, con parto indolore, in pace e in festa, la Repubblica Catalana. Indipendente per davvero.

Se questo era e resta il progetto di medio periodo della maggior parte dei secessionisti catalani, frenato dall’insipienza dell’ormai sfrattata Generalitat e dalle vaghezze di Puigdemont – non l’idealtipo del rivoluzionario – quando e come potrà essere rianimato? Per azzardare una risposta ci soccorrerà uno sguardo al peculiare intreccio fra storia, diritto e geopolitica che distingue la contesa fra Madrid e Barcellona. Più in generale, fra lo Stato spagnolo e le sue nazioni o aspiranti tali. Benvenuti nel labirinto dei particolarismi incrociati. Centrali e periferici.


4. La Spagna soffre di iperstoricismo. Nessun altro grande paese europeo si dilania tantointensamente intorno al suo passato. Non è solo dibattito accademico, anche se augusti professori vi partecipano appassionatamente, cum ira et studio. È l’infinita, sfinente ricerca del vello d’oro che possa guarire le ferite di un paese dal formidabile irradiamento linguistico e culturale, erede ormai peninsulare di un impero transcontinentale che nel cinque-secentesco siglo de oro si ergeva egemone fiero e ammirato su gran parte del pianeta, ma che da trecent’anni è ripiegato nella febbrile anamnesi delle cause di tanto declino. E nell’identificazione dei presunti colpevoli. Con accenti spesso polemici, a seconda non tanto delle appartenenze politico-ideologiche quanto delle regioni e delle nazioni (o sedicenti tali) di origine. La stessa storiografia universitaria si divide fra la scuola castiglianista, che tende a identificare lo Stato con il suo centro fondatore, e i filoni diversamente nazionalisti, dediti alle loro patrie e avversi all’Estado. Per tacere della manualistica scolastica, in prevalenza spagnolista. Mentre in Catalogna è orientata più a formare lo specifico sentimento identitario, dipingendo una sequenza di giuste rivendicazioni e cupe repressioni, che a informare sulla Spagna. Apoteosi del differenzialismo. Se è vero che il nazionalismo crea le nazioni, non viceversa, questa frammentata pedagogia antinomica non promette bene per chi aspira a fornire lo Stato spagnolo di una base condivisa.

Né va trascurato che l’unità della Spagna imperiale non fu prodotta dalla fusione delle entità iberiche solo grazie all’impulso castigliano. La España una nasce come progetto che coniuga la geopolitica europea e africana di Madrid con l’espansione mediterranea di marca catalano-aragonese, salvo estendersi per via oceanica alle Americhe e all’Asia. La Spagna aveva senso come impero. Perso il quale, è arduo ricomporre uno Stato, plurinazionale o castiglianocentrico, sulla mera piattaforma iberica (carta a colori 5).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

La contrastiva ermeneutica del passato è fondamento delle attuali dispute geopolitiche.Indicativo presente e imperativo futuro. Il torneo delle opposte mitografie è entrato a pieno titolo nella costituzione della Spagna post-franchista. Pertanto determina una frizione permanente fra democrazia spagnola e diritti storici delle sue componenti inegualmente autonome. Contrasto implicito nella prima disposizione aggiuntiva della Carta del 1978: «La Costituzione garantisce e rispetta i diritti dei territori dotati di diritti locali tradizionali» (traduzione ufficiale di «territorios forales») 7. Nel complesso, la legge fondamentale risente dell’intenzione prevalente fra i costituenti di enfatizzare la novità dello Stato democratico in quanto rispettoso delle nazionalità e delle tradizioni locali. In specie delle istanze catalane, basche e galiziane.

Lo storico castigliano Luis González Antón denuncia quindi la «penetrazione storicista»indotta dai «minoritari nazionalismi periferici» 8. E condanna lo «storicismo neoromantico, soprattutto la preoccupante tentazione di ricorrere al passato come fonte di legittimazione superiore alla costituzione» 9. Sicché i nazionalisti baschi avanzano una presunta «sovranità originaria» risalente al 1839 o affermano che i «fueros sono la nostra costituzione». Allo stesso tempo vige un particolarismo castigliano, già strapazzato da Ortega y Gasset – «la Castiglia ha fatto la Spagna e la Castiglia l’ha disfatta» – che guarda sdegnoso alle «periferie» riluttanti ad assoggettarsi alla monarchia borbonica 10.

Ma è in Catalogna, dove il nazionalismo si vuole anti-etnicista, giusta la formula di Jordi Pujol – «è catalano chi vive, lavora in Catalogna e lo vuol essere» 11 – specie di ius soli al cubo, che la via storicistica all’identità nazionale ha segnato il processo indipendentista. Val la pena evocarne alcuni tratti rivelatori.


5. Al culto della propria lingua quale segno identitario, protetto contro la penetrazione del castigliano, lingua coufficiale della Comunità, il catalanismo associa la costruzione di una storia nazionale distinta da quella spagnola. Il moderno nazionalismo catalano si determina per negazione del dominio castigliano. Sicché la storia catalana è sempre contemporanea e spesso vittimista. La festa nazionale – Diada – celebra ogni 11 settembre la caduta della Barcellona filo-asburgica per opera delle truppe di Filippo V di Borbone (omettendo che vi erano inquadrati diversi catalani), nell’anno di grazia 1714. Ma le radici della Catalogna si ostentano altomedievali (carta a colori 6), coronate nel 1137 dalla promessa matrimoniale tra Petronilla, erede del Regno d’Aragona, e il conte di Barcellona Ramon Berenguer IV, a forgiare l’unione catalano-aragonese. Poi proiettata verso il Mediterraneo, alla conquista della Sicilia (1282), della Sardegna (1323-26) e di Napoli (1442), oltre che del ducato di Atene e Neopatria e di altre sponde tardobizantine (carta 3).


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Nella pedagogia catalana le origini dello Stato catalano sono antiche, nobili, ben distintedalla parabola castigliana. A tagliar corto, il compendio di storia catalana redatto dall’illustre cattedratico Jaume Sobrequés i Callicó parte dalla preistoria: informa che i resti umani più antichi in territorio catalano risalgono a 450 mila anni fa, ritrovati nella Cova de l’Aragó, a Talteüll, nel Rossiglione «oggi sotto amministrazione francese» 12Homo catalanus si risveglierebbe dunque nella Grande Nation. Sobrequés sembra attribuirgli una coscienza protoirredentista. 

A conferma che anche in Catalogna la legittimità storica fa aggio su quella costituzionale– nel caso, sullo statuto di autonomia – la Generalitat contemporanea si considera erede diretta di quella fondata nel 1359. Il molto onorevole signor Carles Puigdemont i Casamajó ne è (era) pertanto il centotrentesimo presidente (CXXX nella numerazione araldica), lungo la linea «dinastica» inaugurata da Berenguer de Cruïlles, vescovo di Girona (Puigdemont ne fu sindaco dal 2011 al 2016), suo primo predecessore fino al 1362.


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Infine, come dimenticare il manifesto firmato da Pep Guardiola, carismatico tecnico del Barcellona calcio – il più globale fra i marchi catalani – insieme al tenore Josep Carreras e ad altre celebrità connazionali a supporto del referendum consultivo indipendentista del 2014, in cui paragonava i resistenti della Diada ai ribelli del Boston Tea Party, entrambi equiparati ai catalani in lotta per la «dignità» e la «democrazia»? 13.

Ciò a memoria di chi insiste a vedere nel secessionismo catalano la pura matrice economicista. Certo, la relativamente popolosa (grafico 1) e ricca Catalogna vale un quinto del pil spagnolo (grafici 2 e 3) e un quarto delle sue esportazioni. E lamenta un trattamento fiscale piuttosto svantaggioso, specie in rapporto ai «cugini» baschi, con annessi slogan contro «Madrid ladrona» («Espanya ens roba»). Ed è anche vero che il moderno nazionalismo catalano di matrice borghese e mercantile emerge dopo il disastro del 1898, con la perdita per mano statunitense degli ultimi possedimenti ultramarini – Cuba, Portorico, Guam, le Filippine (carta a colori 7) – dopo che tra inizio e metà Ottocento ci si era dovuti congedare dalle immense colonie americane. Mercati e traffici strategici, nei quali la vocazione al commercio dei catalani si distingueva con profitto e orgoglio, erano perduti per colpa dell’inetta Spagna.


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Al fondo del catalanismo – inizialmente regionalista, poi federalista, confederalista o secessionista – resta però il risentimento identitario. Testimoniato nella seconda metà dell’Ottocento dal germogliare di istituzioni e pubblicazioni volte alla salvaguardia dell’identità regionale, alla codificazione della grammatica, alla rappresentazione della Catalogna «organica» contro la Spagna «artificiale». Come nel Compendi de doctrina catalanista di Prat de la Riba e Pere Muntanyola (1894), in veste di catechismo: «Domanda: Che cos’è questo elemento nemico della Catalogna e che ne snatura il carattere? Risposta. Lo Stato spagnolo» 14. Particolarismo identitario inizialmente espresso dalle classi medio-alte e dagli intellettuali – filologi, scrittori, storici, artisti – esteso poi a correnti progressive, financo sovversive, che avrà il definitivo battesimo del fuoco nella guerra civile, con Barcellona estremo bastione della Repubblica (carte 4 e 5). A spingere Franco alla rivolta fu infatti, prima di ogni considerazione politica, la volontà geopolitica di stroncare i nascenti autonomismi repubblicani, scorgendovi a ragione una minaccia esistenziale per l’Estado. I trentasei anni della sua dittatura furono segnati dalla coerente strategia di eradicamento di lingua, cultura e identità catalana. Come confermano gli slogan delle grandi manifestazioni indipendentiste degli ultimi anni, la memoria di quell’oppressione è tramandata di padre in figlio, talvolta esasperata fino ad assimilare alcuni tra gli attuali governanti della Spagna democratica al Generalissimo e ai suoi falangisti.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Il passato non passa. Sicché riesce facile agli spagnolisti di ferro argomentare che continuando a slittare sul piano inclinato dell’autonomia, magari concedendo grandiose agevolazioni fiscali e favorendo gli investimenti in Catalogna, ci si illude di saziare un mostro insaziabile. Secondo questa tesi, il secessionismo catalano non può essere sedato con ricche mance, visto che si fonda su un incorreggibile essenzialismo. Dove la rauxa prevale sul seny, antonimia catalana fra irriflessivo impulso e pazienza ragionata.


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Finché la fissazione identitaria non sarà diluita nel pragmatismo à la Pujol, il sogno della Repubblica Catalana resterà tale. Eppoi, come pretendere da dirigenti culturalmente democristiani, spesso allevati dall’Opus Dei e socialmente più che benestanti, di travestirsi con successo da rivoluzionari di professione? Lo si è visto dopo il 2010, quando provando a forzare il combinato disposto della doppia crisi – economica e del sistema politico – e rispondendo agli scandali che minavano la credibilità del principale partito catalanista di matrice cattolica (Convergència i Unió), prima Mas poi Puigdemont si sono scoperti indipendentisti senza se e senza ma, al fianco della Sinistra repubblicana. Contrapposti agli spagnolisti al comando a Madrid, tanto nel Tribunale costituzionale che al governo, che avevano di molto annacquato il nuovo statuto di autonomia, approvato per referendum nel 2006. Sicché nel giro di sette anni, tra 2006 e 2013, il consenso per l’indipendenza quasi triplicava, montando dal 14 al 49%, mentre l’opposto spagnolismo (i favorevoli a ridurre la Catalogna a una qualsiasi regione del Regno) si confermava residuale, calando dall’8 al 5% nello stesso segmento di tempo 15. La strategia secessionista doveva quindi spostare verso l’indipendentismo i fautori della Catalogna «Stato federale dentro la Spagna» – quasi un confederalismo – fluttuanti intorno a un terzo dell’elettorato. Per conservare la maggioranza in parlamento dopo il voto del 2015, l’alleanza repubblicana fra centro-destra e centro-sinistra si era però dovuta allargare agli estremisti della Cup, alieni all’arte del compromesso. Fino alla forzatura del referendum, che avrebbe dovuto convincere Madrid al federalismo, ma sempre più sbilanciato verso Barcellona. L’intransigenza di Rajoy – supportato dal re e dagli apparati – oltre che dei suoi alleati di centro-destra (Ciudadanos) e centro-sinistra (Psoe), insieme alla necessità di non spaccare il suo fronte hanno costretto Puigdemont alla dichiarazione d’indipendenza, palesemente insostenibile. E all’estremo tentativo di internazionalizzare la causa catalana, quanto meno in ambito europeo.


6. Per diffondere il verbo catalanista nel mondo la Generalitat ha istituito dodici delegazioni all’estero (carta 6), ambasciate di fatto, da Berlino a Parigi, da Bruxelles a Washington, affiancate dalla rete dell’agenzia commerciale Acció, con dozzine di uffici nei cinque continenti. Con esiti finora magri, oppure controproducenti – il sostegno di Nicolás Maduro non è apprezzato nelle cancellerie euroatlantiche. Specie per il sofferto ma infine deciso no dell’amministrazione americana, di fatto gestita da un trittico di generali (James Mattis, John Kelly, Herbert McMaster), dopo che i lobbisti catalani avevano attratto qualche simpatia nel Congresso. Ora le speranze si concentrano in Europa.


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Qui la Catalogna ha fatto leva, negli ultimi vent’anni, su due fattori. La ventata regionalista dei secondi anni Novanta, quando su ispirazione soprattutto tedesca (bavarese) e mitteleuropea fiorivano i progetti di Euroregione. Ideologia geopolitica codificata nel Comitato delle Regioni istituito dal trattato di Maastricht (1993), dalle ambizioni inizialmente notevoli. La Catalogna si qualificava allora con Baden-Württemberg, Lombardia e Rodano-Alpi fra i «quattro motori dell’Europa», grazie all’elevato grado di industrializzazione. Quadrilatero formalizzato con il memorandum di Stoccarda (9 settembre 1998), che stabiliva relazioni speciali fra i soci. Lo sfondo geopolitico di questo speciale europeismo immaginava l’Ue imperniata sulle Regioni, in linea con il processo di delegittimazione degli Stati nazionali di moda fra i padri nobili dell’ideale paneuropeo. Ripreso in questi giorni da un’ascoltata analista tedesca, Ulrike Guérot, che in una veemente apologia dell’europeismo antinazionale e regionalista propone «una federazione europea di entità regionali», in risposta alle «attuali tendenze alla rinazionalizzazione» nell’Unione Europea. Sicché «in una Europa delle Regioni entrerebbero sia i catalani che i baschi come pure la Spagna». Di più: «Intendiamo definire e rivalutare politicamente le Regioni quali attrici costituenti di una futura Repubblica Europea» 16. I catalani indipendentisti che sperano di riunirsi all’Ue saltando la Spagna – come d’altronde i nazionalisti baschi e galiziani – e perciò esibiscono la bandiera europea accanto alla senyera blava ne sarebbero entusiasti (carta a colori 8).

Forse non sono abbastanza consapevoli del curioso effetto che provoca sventolare insieme le variopinte insegne di uno Stato che vorrebbe essere ma (ancora) non è accanto alla bandiera di una rissosa famiglia di Stati che non vuole unirsi in Stato. Dunque non è soggetto geopolitico. Effetto di straniamento accentuato dall’escursione belga del destituito presidente Puigdemont, «perché Bruxelles è la capitale dell’Europa». Allucinazione geografica. Errore blu in geopolitica. 


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


 

Non sarà certo pressando la fantasmatica Commissione brussellese, conquistando qualche europarlamentare, sollecitando gli amici sloveni, fiamminghi e scozzesi o rinverdendo la fraternità con i «paesi catalani» che gli indipendentisti di Barcellona troveranno sponde in Europa. Al contrario. Nei governi che contano, a partire da Berlino, li si scansa bruscamente. Dopo aver contribuito concretamente a inclinare la caduta del franchismo verso sponde non comuniste, la Germania ha investito sulla Spagna come modello per gli altri latini, italiani in testa, nell’alchimia disperata che vorrebbe transustanziarci in austeri nordici. Per quanto indebolita, alle prese con il travagliato parto di una variopinta coalizione, Merkel si batte contro chi attenta alla stabilità della Spagna. Tanto più ora che il separatismo bavarese mostra segni di risveglio, come testimoniato in luglio da un sondaggio per cui il 32% dei cittadini del Libero Stato vorrebbero separarsi dalla Bundesrepublik 17. A differenza della costituzione spagnola, la secessione unilaterale di un Land, peraltro di storico rango statuale quale la Baviera, non è espressamente vietata dalla legge fondamentale. Sicché la Corte costituzionale ha ritenuto di interpretare quest’ultima statuendo che tale ipotesi è incompatibile con il diritto vigente.

Quanto a Macron, europeista negli slanci sinfonici ma freddo nazionalista nella prassigeopolitico-amministrativa, nessun cedimento alle velleità statuali dei pur francofili vicini, tanto più in quanto considerano il dipartimento dei Pirenei Orientali provincia irredenta dei «paesi catalani». A ridosso peraltro delle elezioni territoriali del 3-10 dicembre in Corsica, dove nazionalisti, indipendentisti e autonomisti presentano una lista comune ed evocano un possibile plebiscito per il distacco dall’Esagono entro dieci anni (molti esagonali ne sarebbero intimamente sollevati). Senza contare che l’autunno prossimo Parigi rischia di perdere un pezzo di Francia oceanica, se nel referendum sull’indipendenza in Nuova Caledonia dovessero prevalere i fautori del divorzio, decisi a battezzare la repubblica di Kanaky.

Infine noi italiani. Declassare il referendum veneto per l’autonomia – assai partecipato e vinto a mani basse dai sostenitori della Regione a statuto speciale – a commediola dell’arte non parrebbe saggio. Tali leggerezze non si convengono a uno Stato di così debole legittimazione, dove la furia di seguire l’onda federalista agitata a suo tempo dalla Lega ha già prodotto la disastrosa riforma del titolo V della costituzione. In questa Italia che per reggersi avrebbe bisogno di riaccentrare e responsabilizzare i poteri pubblici, piuttosto che devolverli a ulteriori opache burocrazie o abbandonarli al crimine organizzato, l’imitazione di iperautonomismi altrui non è raccomandabile. Roma sembra esserne consapevole. Il nostro governo è stato tra i primi a schierarsi seccamente con Madrid.

Il duello ispano-catalano non finirà nemmeno con il voto del 21 dicembre, quale ne sia il risultato. La Catalogna non è la Padania o altra finzione di politici annoiati. La Spagna non è Stato periferico, tale da essere amputato senza danni che per se stesso.

Restiamo però ottimisti. Siamo in Europa, geopolitica dell’irrealtà. Nello spazio dell’illusione diamo spazio all’illusionismo. Lo schizzo che qui riproduciamo, dovuto a geniale penna anonima, apparve per la prima volta il 23 ottobre 1892 sulla rivista tedesca Fliegende Blätter. Anatra o coniglio? Lo psicologo statunitense Joseph Jastrow ne ha ricavato un pensoso studio sull’illusione ottica. Illustri epistemologi come Ludwig Wittgenstein e Thomas Kuhn vi hanno dedicato dotte dissertazioni. C’è chi giura che durante la Pasqua sia più probabile vedervi il coniglio, d’ottobre l’anatra 18. Nella patria di Cervantes, maestro dell’illusione, spagnolisti e catalanisti vorranno accordarsi su un compromesso sufficientemente polisemico da consentire a ciascuno di leggervi l’anatra o il coniglio che preferisce?


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Note:

1. J. Ortega y Gasset, España invertebrada, Madrid 1922, Calpe, pdf in hermanotemnblon.com

2. Cit. in L. Garruccio, Spagna senza miti, Torino 1968, U. Mursia & C., p. 20, da J. Ortega y Gasset, Vieja y nueva politica, Madrid 1911, Renacimiento.

3. Costituzione Spagnola, 27 dicembre 1978, testo originale tratto dal sito web ufficiale del Congreso de los diputados, p. 3, www.congreso.es

4. Cfr. «Referèndum d’autodeterminació de Catalunya. Resultats definitius», Generalitat de Catalunya, web.gencat.cat

5. Felipe VI, «Mensaje de Su Majestad el Rey», Casa de Su Majestad el Rey, 3/10/2017, www.casareal.es

6. Cfr. H. Zuber, «V for Victoria: Catalonia Wants Independence too», Spiegelonline.com, 10/9/2014.

7. Costituzione Spagnola, Disposizioni aggiuntive, Prima, cit., p. 55.

8. L. González Antón, España y las Españas, Madrid 1997, Historia Alianza Editorial, p. 646.

9. Ibidem.

10. J. Ortega y Gasset, España invertebrada, cit., p. 38.

11. Citato in A. Mas, «Spirito catalano», la Repubblica, 18/1/2014.

12. J. Sobrequés I Callicó, Història de Catalunya, Barcelona 2012, Editorial Base, p. 13.

13. «Give Catalonia Its Freedom to Vote – by Pep Guardiola, Josep Carreras and Other Leading Catalans», The Independent, 10/10/2014.

14. Cfr. il testo di E. Prat de la Riba, P. Muntanyola, Compendi de la doctrina catalanista, Barcelona 1894, www.tufs.ac.jp

15. «El proceso independentista catalán: como hemos llegado hasta aquì? Cual es su dimensión europea? Y qué puede ocurrir?», Real Instituto Elcano, 23/10/2017, p. 10.

16. U. Guérot, «In Spaniens Krise offenbart sich eine neue EU», Die Zeit, 10/10/2017.

17. «Jeder dritte Bayer für Unabhängigkeit von Deutschland», DPA, 17/7/2017.

18. C. Farand, «Duck or rabbit? The 100-year-old optical illusion that could tell you how creative you are», The Independent Online, 14/2/2016.

Carta di Laura Canali - 2017

REGIONALISMI E AUSTERITÀ: LA POSTA TEDESCA NELLA CRISI CATALANA

Berlino guarda con preoccupazione alla vicenda spagnola. Più degli interessi economici in Catalogna, a pesare è lo spettro del secessionismo bavarese e il timore di perdere con Rajoy un alleato sul fronte del rigore fiscale. Il silenzio europeo è assordante.

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1 risposta a EDITORIALE DEL NUMERO 19/ 2017 DI LIMES::: ANATRA O CONIGLIO?:: TRA QUATTRO O CINQUE GIORNI (secondo come contate), il 21 DICEMBRE SI VOTA IN CATALOGNA!

  1. Donatella scrive:

    Un bel pasticcio, come del resto un po’ tutta la realtà. Ho sempre pensato agli stati nazionale europei come a delle formazioni che piano piano si sono raggrumate attorno ad una regione prevalente. Questo percorso è stato lungo e doloroso, ma ci si è arrivati. Ora gli indipendentisti mi sconvolgono questo bel quadro, dovrò cambiare le mie certezze storiche o pseudo-storiche: è come la maionese impazzita o un budino che non si solidifica.

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