IL SOSPETTO SU AL-SHABAAB. ITALIA NEL MIRINO PER L’AIUTO ALLA NUOVA SOMALIA–GIANLUCA DI FEO, REPUBBLICA DEL 22-11-2018, pag. 3

 

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Carta di Laura Canali

DATI 25 AGOSTO 2017

 

 

 

AL- SHABAAB —NOTA DEL BLOG

 

Al-Shabaab in lingua somala (in italiano “i Ragazzi”, dall’arabo Ḥizb al-Shabāb, Partito della Gioventù), anche trascritto ash-Shabaab o Hizbul Shabaab , o indicato come «Movimento di Resistenza Popolare nella Terra delle Due Migrazioni» (MRP), è un gruppo terroristico jihadista sunnita di matrice islamista attivo in Somalia, nato intorno al 2006.

È la cellula somala di al-Qāʿida, formalmente riconosciuta nel 2012. Da numerosi governi e servizi di sicurezza occidentali è considerata un’organizzazione terroristica. Nel giugno 2012 il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha posto taglie su numerosi capi del gruppo].

Questa formazione islamista è presente nelle regioni del sud della Somalia e mantiene vari campi di addestramento nei pressi di Chisimaio. Alcuni finanziamenti per Al-Shabaab provengono dalle attività dei pirati somali.

Lo scontro tra Al Shabaab e Isis-Somalia per l'egemonia della jihad nel Corno d'Africa

GUERRIERI DI AL-SHABAAB

 

REPUBBLICA DEL  21 NOVEMBRE 2018

http://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20181122&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2

 

 

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Lo scenario

Il sospetto su Al Shabaab

Italia nel mirino per l’aiuto alla nuova Somalia

Gianluca Di Feo

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Nessuno lo conferma ufficialmente, ma l’ipotesi che Silvia Romano sia stata rapita dai miliziani islamici di al Shabaab è più di un sospetto. E in tal caso il movente sarebbe chiarissimo: colpire l’Italia per quello che realizza a Mogadiscio. Nel nostro Paese non se ne parla quasi mai, ma il ruolo che abbiamo assunto nella ex colonia è sempre più importante: stiamo facendo rinascere l’esercito e l’embrione di una struttura nazionale. Un piccolo miracolo di efficienza, gestito sul campo da 120 militari che rischiano la vita ogni giorno e reso possibile dal coordinamento tra tutte le istituzioni, a partire dalla Farnesina. Così dal 2014 l’Europa ci ha affidato la guida della missione che forma soldati e ufficiali somali: prima addestravamo singoli uomini, adesso interi reparti. Da allora già seimila reclute provenienti dalle diverse etnie hanno completato i corsi: costituiscono l’unica realtà super partes rispetto alle dinamiche tribali che hanno portato la Somalia nel baratro. Hanno ricevuto camionette ed equipaggiamenti di seconda mano dai nostri magazzini, mezzi fondamentali per una nazione poverissima. A Gibuti i carabinieri hanno istruito 1.500 agenti, il nucleo della polizia nazionale. Inoltre abbiamo ricostruito gli uffici del ministero della Difesa e l’ospedale militare, il migliore di Mogadiscio dove si curano i feriti dei combattimenti contro al Shabaab.E facciamo venire a scuola in Italia gli elementi scelti, destinati ai quadri delle forze speciali e dell’intelligence. Ma l’intervento non si limita alle forze armate. Siamo stati il principale finanziatore delle prime elezioni libere tenute nel Paese, cerchiamo di riaprire l’università e stiamo completando decine di piccoli progetti, realizzando scuole e ambulatori che trasmettono concretamente la rinascita dello Stato somalo. Per noi è più facile muoverci nel dedalo di clan tribali, quello da cui è nata la fragile intesa di governo che si oppone alla milizia fondamentalista. «L’Italia gode di una popolarità che gli altri Paesi ci invidiano e che rende i rapporti molto più agevoli.

Spesso poi capita d’interloquire addirittura in italiano. Dove mai altrove?», ha detto senza retorica Fabrizio Marcelli, il primo ambasciatore che ha rimesso piede a Mogadiscio nel 2014. La classe dirigente locale ha studiato a Firenze o a Roma, che si tratti di ufficiali o di ingegneri; tra le reclute ci sono i nipoti degli ascari che hanno combattuto sotto la bandiera tricolore e persino alcuni dei regolamenti governativi sono ancora scritti in italiano, frutto dell’amministrazione che l’Onu ci ha affidato fino al 1960. «Il ministro Mohamed Ali Hassan mi chiama Stefano per nome – ha raccontato a Fausto Biloslavo uno degli ufficiali italiani – e il generale somalo che sovrintende alle operazioni mi racconta dei suoi 19 figli, la più piccola di quattro anni e il più grande di 50 con tre mogli differenti. Per far capire il rapporto umano e non solo professionale che si è instaurato». Altre nazioni, come gli Emirati e la Turchia, sono molto attive e investono fondi rilevanti, ma la loro presenza spesso è vista come un tentativo di ingerenza. Invece il nostro contributo è apprezzato perché ispirato a un principio ribadito dal generale Matteo Spreafico, che comanda la missione europea: «La Somalia è dei somali, sono loro i primi che vogliono essere partecipi nel difendere la loro Patria e la cosa è molto sentita. Per noi, aiutarli a ricostruire il loro Paese vuol dire anche far loro acquisire di nuovo e concretamente un’identità: “Io sono somalo, voglio difendere la mia terra”».

A Mogadiscio c’è chi mette in risalto la differenza tra il nostro impegno e quello americano: «Loro bombardano, voi costruite». Al Shabaab, il movimento fondamentalista che ha dominato la Somalia fino al 2014 e continua a condurre una guerriglia spietata, ha cominciato a comprendere l’efficacia della presenza italiana. A ottobre per la prima volta è stato attaccato un convoglio in movimento tra il ministero della Difesa e la base tricolore: un kamikaze si è lanciato contro i blindati Lince, senza riuscire a danneggiarli ma uccidendo diversi civili. Un messaggio al tritolo. E si teme che non sarà l’ultimo.

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