SIEGMUND GINZBERG :: SINDROME 1933 — FELTRINELLI, 2019 — RECENSIONE DI WLODEK GOLDKORN, REPUBBLICA, 2 MAGGIO 2019 +++ IL FATTO QUOTIDIANO, 6 MAGGIO 2019, DI FURIO COLOMBO

 

 

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Sindrome 1933

Siegmund Ginzberg

 

Editore:Feltrinelli
Collana:Varia
Anno edizione: 2019
In commercio dal: 2 maggio 2019
Pagine: 192 p., Brossura
16 euro, prezzo pieno

presentazione dell’editore:::

La campagna elettorale permanente, un partito che non è di destra né di sinistra ma “del popolo”, un improbabile contratto di governo, la voce grossa che mette a tacere i giornali, l’odio che penetra nel discorso pubblico, le accuse ai tecnici infidi, il debito, la gestione demagogica e irresponsabile delle finanze. Sono le analogie che minacciano il presente e rischiano di farlo somigliare pericolosamente a un passato che credevamo di esserci lasciati alle spalle. Quando Hitler nel 1933 divenne cancelliere del Reich, i cittadini tedeschi cominciarono a seguire incantati il pifferaio che li portava nel burrone. La cosa più strana, ma niente affatto inspiegabile, è che avrebbero continuato a credere religiosamente in lui anche dopo che erano già precipitati. “I nazisti,” scrive Ginzberg, “non erano bravi solo in fatto di propaganda. Toccavano tasti cui la gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi (non solo gli interessi del grande capitale, come voleva la vulgata). A elargizioni concrete corrispondeva un consenso reale, crescente e formidabile. La cosa che più impressiona è come siano riusciti a trovare consenso anche sui comportamenti più atroci e disumani del regime.” Le analogie superficiali possono portare fuori strada. Eppure non possiamo farne a meno. La mente umana funziona per analogie. Le analogie si sono sempre rivelate uno strumento potentissimo per capire e distinguere, cioè l’esatto contrario del fare di ogni erba un fascio.

 

 

 

 

REPUBBLICA DEL 2 MAGGIO 2019

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/05/02/news/1933_siegmund_ginzberg-225352233/

 

Bandiere con la svastica stese al sole nella Berlino del 1933

 

Approfondimento Storia

1933, l’incendio dell’Europa; vi dice qualcosa?

Nel suo ultimo saggio, Siegmund Ginzberg racconta dodici mesi decisivi per i destini dell’Occidente: Hitler diventa cancelliere, cresce la violenza ma pochi fiutano il pericolo. Ogni riferimento all’oggi è puramente voluto

Nel 1933 Georges Simenon, inviato belga del settimanale francese Voilà, è in Turchia, ne trae un libro, un piccolo capolavoro, I clienti di Avrenos, in cui racconta la storia di una giovanissima ballerina ungherese che seduce gli uomini al potere a Istanbul. Ma prima ancora, a due passi dalla città sul Bosforo, metà Europa metà Asia, il reporter intervista il più celebre esule russo, nato in Ucraina e di origini ebraiche, Trotzkij. Simenon all’epoca ha trent’anni e il suo compito è raccontare il Vecchio Continente in crisi, o meglio, lo spirito di un pezzo del mondo che sembra voler rifiutare la naturale mescolanza e sovrapposizione delle appartenenze e degli idiomi a favore invece dell’ossessione identitaria, dell’odio verso chi è considerato diverso. Dove la democrazia è un fenomeno sempre più raro e precario, mentre trionfa quello che oggi chiamiamo sovranismo e populismo.

L’affascinante libro Sindrome 1933 di Siegmund Ginzberg, anche lui nato a Istanbul, in uscita con Feltrinelli, inizia proprio così, con l’inventore del personaggio del commissario Maigret in giro per l’Europa. Ora, per affrontare un tema difficile e scivoloso come le analogie tra la situazione di ottantasei anni fa e oggi in un modo avvincente per il lettore e non troppo saggistico, è molto utile narrare la storia con gli occhi di altri scrittori e autori, ed è questo il grande pregio del libro. Ginzberg mette a confronto l’immaginario degli uomini (sono quasi tutti maschi, segno dell’epoca), romanzieri, poeti, registi, giornalisti che forgiavano il racconto del mondo di allora, con la vera storia come la conosciamo oggi e con rimandi alla situazione attuale, in Italia e altrove. Allora, come oggi, sembra suggerire l’autore, nessuno, o quasi, si accorgeva di niente, la vita scorreva normale, mentre nel cuore dell’Europa c’era chi stava preparando la catastrofe. Simenon racconta di aver incontrato Hitler nell’ascensore dell’albergo Kaiserhof a Berlino, e non sappiamo se è vero. Ma era vero il suo colloquio con Trotzkij, appunto, un uomo che al netto della retorica bolscevica era capace di un acume quasi profetico, e che gli spiega quanto la prospettiva inevitabile nel Vecchio Continente sia il propagarsi delle dittature nazionaliste e di conseguenza la guerra.

Una di queste, anzi la peggiore delle tirannie della storia umana, dice Ginzberg, inizia quasi in sordina. “Il 30 gennaio 1933 era un lunedì. Freddo ma asciutto. Al mattino ancora non si sapeva come sarebbe andata a finire”, scrive. Finì con Auschwitz e Treblinka, lo sappiamo oggi, ma prima di arrivare a mettere in atto, qualche anno dopo, l’inimmaginabile, i politici si davano da fare come sempre, tra astuzie, piccoli inganni, calcoli di convenienza. Non riassumeremo la giornata del 30 gennaio qui (basta leggere le pagine del libro, scritte con piglio da romanziere e non solo da cronista), ma al mezzodì l’imbianchino austriaco diventò cancelliere della Germania. Nel suo governo i nazisti avevano pochi ministeri; il dicastero chiave, quello delle Finanze, era in mano a un tecnico che prometteva di tenere i conti in ordine: garante dell’operazione era l’ex cancelliere Franz von Papen, esponente del partito del Centro cattolico, formazione moderata, che nell’esecutivo ricopriva la carica de vice-cancelliere. Non tradì mai Hitler (anche se dissentiva di certo dai suoi metodi) e morì nel suo letto nel 1969 all’età di novant’anni.

Ginzberg spiega che non era inevitabile formare quel governo, in cui in realtà l’odio reciproco tra la vecchia destra militarista e la nuova destra nazionalsocialista era fortissimo e racconta, con punte di vero divertimento e sincero stupore, come la stragrande maggioranze degli osservatori e commentatori fosse sicura che quello di Hitler era un potere destinato a durare pochissimo tempo. Ne era convinto, tra le personalità citate dall’autore, Karl Kautsky, teorico marxista, ormai ritiratosi in Austria, che definiva i nazisti “imbecilli ignoranti”; e anche i “ragazzi di Oxford” Wystan H. Auden, Christopher Isherwood e Stephen Spender, presenti nella capitale tedesca, erano del parere che a primavera Hitler sarebbe diventato una storia del passato. In Italia, Gramsci dalla sua prigione intuisce invece come ogni potere anche estremista e radicale diventi “centrista” e per questo di lunga durata.

Una narrazione a sé è poi quella della morbosità dei racconti dei crimini a sfondo sessuale, di cui si appassionano ai tempi i tedeschi: inevitabile la citazione di Moosbrugger, il perverso assassino che colpisce l’immaginazione di Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità di Musil, pubblicato in quegli anni. Fanno parte del racconto anche la retorica del ripristinare l’ordine naturale dei generi e porre fine agli eccessi di libertinismo. E la retorica razzista  contro gli immigrati.

Le analogie con oggi sono tante e Ginzberg le esplicita tutte (talvolta troppo, per fare una sola annotazione critica), pur dichiarandosi consapevole dei limiti del metodo: aiuta a capire il presente, non a prevedere il futuro. L’autore alla fine del libro dice che Cassandra non era creduta perché il potere (e il popolo) non ama le previsioni.

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO–6 MAGGIO 2019

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/05/06/quando-la-storia-manda-a-dire-litalia-come-weimar-nel-1933/5155792/

 

 

Quando la Storia manda a dire: “L’Italia come Weimar nel 1933?”

Siegmund Ginzberg racconta il declino della democrazia in Europa

Mai letto un libro simile. È una conversazione benevola, narrata con criteri di buon senso, col tono di qualcuno che, alla tavola di casa, rievoca le vicende di un affare di famiglia, un po’ complicato e sgradevole, ma alla fine perfettamente plausibile. È il buon senso (un modo di coprire il rigore storico della narrazione e la certezza, sperimentata da noi tutti, di fatti realmente accaduti) che attrae il lettore con una certa serena leggerezza, senza avere coscienza immediata di alcune cose che sono appena accadute (sono accadute davvero ) intorno a noi, e che assomigliano stranamente a vicende della recente e triste storia contemporanea.

Il nostro autore (Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933, Feltrinelli Editore), uno dei più agili e abili nel giocare fra pace apparente e tragedia narrata ovvero tra serenità e macerie, compie qui uno straordinario e unico lavoro. Narra il minaccioso presente italiano come se di esso (del che cosa potrà accadere tra poco) sapesse tutto, accenna senza calcare la mano, alle conseguenze inevitabili e al come andrà a finire un Paese penetrato, come le pareti di una casa in pericolo, da grandi macchie di umidità del fascismo.

Mostra che una volta entrati nel labirinto nel modo in cui siamo entrati, la via d’uscita non c’è o non è in vista. La narrazione di Ginzberg è un irresistibile “c’era una volta” di una fiaba finita un pò male nel 1933, in Germania e in Italia. E la strana ripetizione dello stesso “C’era una volta” in un presente che dovrebbe essere storicamente non ripetibile. Leggi e ti domandi: com’è possibile? Il libro di Ginzberg, scritto con lieve ironia, una bella narrazione, e ben verificate analogie di circostanze storiche, dimostra che la storia di ciò che è accaduto in Europa (sopratutto Germania e Italia) nel 1933, oggi, come nei riti fascisti, risponderebbe “presente!”.

Il gioco accurato, cauto, ben congegnato, perfetto nei dettagli, una vera trappola per i lettori che non riescono a sganciarsi, mostra ciò che tutti negano sempre: la storia sta ripetendosi, e le coincidenze sono impressionanti. Una è che nel 1933 (Repubblica di Weimar) quasi chiunque avrebbe negato la situazione e assicurato che si stava andando verso il meglio (e persino Hitler in persona avrebbe negato, come ha fatto, l’inizio di ogni persecuzione e la pratica della cattiveria come programma) isolando i pochi che osavano annunciare il pericolo.

Un’altra, la più incredibile delle coincidenze, è che quasi nessuno a Weimar, nel 1933, voleva più riconoscersi nella democrazia che perdeva forza, voce, rappresentanza. E negava con prontezza, persino con orgoglio, problemi e rischi del “nuovo” che stava dilagando. Con il tono di uno storico dedito con serenità e precisione al passato, Siegmund Ginzberg ci sta raccontando il nostro presente, mentre si espande il fascismo, con vari nomi, eventi diversi e crudeli, affinità, imitazioni, emulazioni, nelle scuole, nella burocrazia, in alcuni tribunali stranamente fermi o stranamente concitati. L’autore ha una bella voce narrante (oltre che un elenco impeccabile di documenti) che bisogna per forza ascoltare.

 

 

L’AUTORE–SIEGMUND GINZBERG

 

 

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Siegmund Ginzberg è nato a Istanbul nel 1948 in una famiglia ebrea giunta a Milano negli anni Cinquanta. I nonni furono sudditi dell’impero ottomano. Dopo gli studi in filosofia ha intrapreso l’attività giornalistica ed è stato una delle storiche firme de “l’Unità”, quotidiano per cui ha lavorato a lungo come inviato in Cina, India, Giappone, Corea del Nord e del Sud, oltre che a New York, Washington e Parigi. Ha più volte girato il mondo portando con sé, nel corso degli innumerevoli traslochi, una biblioteca più adatta alla stanzialità che all’erranza. Oltre alla selezione di scritti “Sfogliature” (2006), ha pubblicato “Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano” (2008), «una sorta di zibaldone dove un giornalista colto e spiritoso legge le notizie di ieri con gli strumenti di oggi, e quelle di oggi con il sapere di ieri» (Giuseppe Conte) e il romanzo familiare “Spie e zie” (2015). (foto: © Festivaletteratura) — http://archivio.festivaletteratura.it

 

 

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