LIMESONLINE DEL 12 LUGLIO 2019 ::: 1. TURCHIA/ RUSSIA/ USA ; 2. USA/ IRAN/ UK ; 3. HONG KONG E CINA ; 4. ELEZIONI IN GRECIA ; 5. TRANSIZIONE IN SUDAN

 

 

Limes online del 12 luglio 2019

http://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-iran-regno-unito-hormuz-grecia-sudan-cina-hong-kong-turchia/113560

 

 

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni.

con commenti di Dimitri Deliolanes, Daniele SantoroGiorgio CuscitoLorenzo Di MuroRino Tavarelli

 

 

Colonna sonora consigliata per questo articoloBurak Yeter – Tuesday (feat. Danelle Sandoval)

 

 

TURCHIA FRA RUSSIA E STATI UNITI 

di Daniele Santoro

 

 

L’arrivo in Turchia del sistema missilistico S-400 dalla Russia – le cui prime componenti sono state scaricate in settimana – rappresenta una svolta potenzialmente decisiva nel braccio di ferro tattico tra Ankara e Washington, un tornante che rivela la paradossale debolezza Usa. Che il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha percepito meglio di chiunque altro.

Se gli Stati Uniti sanzionassero la Turchia come minacciato con inusitata violenza dal segretario di Stato Mike Pompeo, legittimerebbero l’ulteriore slittamento di Ankara verso Mosca. Conferendo a tale moto carattere perpetuo. In tal senso, occorre tenere a mente che oltre l’80% della popolazione turca considera gli Stati Uniti la principale minaccia alla propria sicurezza e solo il 5% guarda a Washington come a un alleato.

Un quarto dei turchi vede invece nella Russia un “paese amico”. E con gli S-400 posizionati nella base Akıncı – quartier generale dei golpisti del 15 luglio 2016 – i “nostri ragazzi” non potrebbero più bombardare la nazione turca come nella “notte durata un secolo”. D’altra parte, se Erdoğan riuscisse a installare gli S-400 senza pagare dazio emergerebbe come vincitore assoluto della partita con il più alto coefficiente di difficoltà tra quelle giocate negli ultimi decenni in Anatolia. Per gli americani il problema è che le conseguenze sarebbero simili. Erdoğan userebbe la sua forza per irrobustire l’asse con Mosca.

 

 

 

 


Le motivazioni strategiche di questa scelta tattica traspaiono nitidamente dalle acque mediterranee, infilzate dalle trivelle delle navi turche che perforano il bacino cipriota. Attività pretestuose volte a consolidare la presenza militare turca intorno all’isola e in quanto tali condannate dagli Usa. I quali hanno aumentato esponenzialmente la pressione sugli spazi marittimi vitali della Turchia, premendo sull’Egeo dalla Tracia, dalla Tessaglia, da Creta. E con sempre maggiore intensità dal Dodecaneso – arcipelago strategico per Ankara, che Ahmet Davutoğlu considera il vero “stretto” turco. Chiudendolo, si può infatti imbottigliare la Marina turca nell’Egeo, frustrando le sue ambizioni di proiezione oceanica e soprattutto rendendo impossibile la difesa di Cipro, fulcro della geopolitica marittima della Turchia.

Washington giustifica la crescente pressione greco-americana sulla “patria blu” e il proposito di assegnare ad Atene il ruolo di gendarme dell’Egeo con l’esigenza di “combattere l’influenza maligna della Russia”. Obiettivo che conferma ad Ankara come il contenimento della Russia implichi inevitabilmente il proprio. Intenzione le cui conseguenze geopolitiche – per quanto inintenzionali – uniscono inevitabilmente i due paesi rivali contro la percepita minaccia comune.

 

 


TRIANGOLO USA-IRAN-UK 

 

 

di Lorenzo Di Muro

La settimana si è aperta con l’invettiva di Donald Trump contro l’ambasciatore britannico negli Usa, poi dimissionario, reo di aver bollato come “inetta” e “disfunzionale” l’attuale amministrazione americana in un dispaccio confidenziale. Mentre Theresa May ha difeso il proprio diplomatico pur precisando di non condividere le sue opinioni, Londra si vedeva minacciare dall’Iran rappresaglie nel caso di mancato rilascio dell’imbarcazione di Teheran (accusata di trasportare greggio verso la Siria di Assad, contravvenendo alle sanzioni) “sequestrata” dalla Marina di Sua Maestà a Gibilterra il 4 luglio.

Sulla scia dei “sabotaggi” delle petroliere avvenuti nelle scorse settimane nel Golfo, dei quali accusa l’Iran, Washington ha poi proposto la creazione di una coalizione internazionale marittima per difendere la libertà di navigazione nell’area. Gli Usa fornirebbero intelligence, mentre la scorta dovrebbe essere assicurata dagli Stati delle stesse imbarcazioni in transito. Nelle ore successive, Londra ha denunciato il tentativo da parte di navi militari iraniane di bloccare una petroliera britannica (la British Heritage) nello Stretto di Hormuz. Il tentativo, che sarebbe stato sventato dall’arrivo della Marina di Sua Maestà, è stato smentito dai pasdaran.
Se per gli Usa tali sviluppi sono funzione dell’assalto all’influenza regionale della Repubblica Islamica e del parziale disimpegno dal Medio Oriente, sul fronte transatlantico attestano quanto l’asse con Washington sia nodale per il Regno Unito, soprattutto nel caso di uno hard Brexit. Il riordino della proiezione geopolitica britannica, compreso il suo rinnovato attivismo navale, passa per il rafforzamento della relazione speciale con gli States. Non è un caso che i fautori dell’uscita dall’Ue anche senza un accordo con Bruxelles, come Boris Johnson e Nigel Farage, abbiano preso nettamente le distanze dal proprio ambasciatore. Consapevole di tenere il coltello dalla parte del manico, Washington cerca di spingere il Regno Unito a un più ferreo allineamento nei dossier che vedono attualmente impegnata la Casa Bianca. Su tutti le offensive anti-Pechino e anti-Teheran. Il “sequestro” della petroliera iraniana, la risposta all’appello Usa e la più recente querelle con l’Iran – che corrobora la richiesta statunitense di costituire una coalizione marittima – puntano in questa direzione.

E giungono difatti mentre la repubblica degli ayatollah (messa all’angolo dall’offensiva economico-diplomatica Usa) ha deciso di alzare la posta in gioco, con lo scenografico annuncio della ripresa del programma atomico. Manovre che Trump ha definito “estorsione nucleare”, promettendo un inasprimento delle sanzioni che incrementerebbe ulteriormente la pressione su Teheran. Passata al contrattacco con mosse sinora simboliche e dimostrative, che si alternano a gesti concilianti quali il rilascio di un libanese con residenza negli Usa e le esternazioni sulla volontà di non arrivare a un conflitto aperto. In quest’ottica, la smentita iraniana e le modalità con cui si è risolto l’episodio della British Heritage sembrano confermare come una guerra non sia nell’interesse degli attori coinvolti.

 


HONG KONG E LA STABILITÀ DELLA CINA

di Giorgio Cuscito, dal Bollettino Imperiale

 

 

Le manifestazioni in corso a Hong Kong contro la proposta di legge sull’estradizione non sono l’unico problema domestico che Pechino deve gestire quest’estate. A Wuhan, capoluogo dello Hubei (Cina centro-meridionale), si sta svolgendo un’altra protesta altrettanto importante. Nei primi giorni di luglio, migliaia di persone si sono opposte alla futura costruzione del termovalorizzatore vicino all’area residenziale di Yangluo, nel distretto di Xinzhou.
Mostrando cartelli con la frase “prima a Wuhan, poi a Hong Kong”, alcuni manifestanti dell’ex colonia britannica si sono diretti verso il terminal ferroviario di Kowloon ovest per spiegare le loro proteste e combinarle con i malumori nello Hubei.
Il capo dell’esecutivo hongkonghese Carrie Lam ha dichiarato “morto” il progetto di legge sull’estradizione, che permetterebbe di prelevare chi protesta per processarlo secondo il diritto della Cina continentale. Tuttavia il provvedimento non è stato ancora ufficialmente cancellato. È improbabile che Pechino consenta a Lam di prendere una simile decisione, poiché stimolerebbe indirettamente gli hongkonghesi a chiedere con maggior vigore l’agognato suffragio universale per l’elezione dell’esecutivo.

Questa impasse determina il persistente malcontento locale.
Per ora, né le proteste di Hong Kong né quelle di Wuhan hanno danneggiato la stabilità complessiva della Repubblica Popolare. Tuttavia, la loro sincronia e l’uso fatto dai manifestanti dell’ex colonia di quanto accade nello Hubei ricordano al governo cinese la multidimensionalità delle incognite determinate dalle trasformazioni socio-economiche.

 

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ELEZIONI E RESTAURAZIONE IN GRECIA

 

di Dimitri Deliolanes, da Il mondo oggi di lunedì

 

 

Il leader di Syriza Alexis Tsipras, eletto nel 2015 con la promessa di porre fine alle politiche di austerità, è stato sconfitto alle elezioni parlamentari tenutesi domenica 7 luglio. Come primo ministro ha giurato Kyriakos Mitsotakis di Nuova democrazia, partito di centrodestra che ha ottenuto il 39,8% dei voti contro il 31,5% della compagine di governo garantendosi la maggioranza.

Si tratta di una restaurazione da manuale. Il nuovo premier Kyriakos Mitsotakis ha iniziato la campagna elettorale agli inizi del 2016. Da allora non ha mai smesso di bombardare con una potenza di fuoco mai vista, costituita dal 90% del sistema informativo della Grecia, un paese al primo posto in Europa per consumo televisivo. Grandissima proiezione mediatica ma scarse certezze programmatiche. Molto probabilmente, una nuova ondata di austerità sta per abbattersi sul paese. Ma i greci non lo sanno.
Mitsotakis è un estremista neoliberista, un principe della politica, l’ultimo rampollo di una dinastia cretese non particolarmente amata. Nel passato aveva ottenuto la sponsorizzazione di alcuni giganti tedeschi, come Siemens. Tutto andava bene fino a quanto non cavalcò in maniera demagogica il cavallo della “Macedonia una e greca”, minacciando il veto alla marcia di Skopje verso l’adesione all’Ue e alla Nato. Ora deve recuperare i rapporti con Berlino. Al pari di quelli con Washington, visto che l’ambasciatore Usa Geoffrey Pyatt non ha mai nascosto la sua simpatia per Tsipras. E deve farlo in fretta: Erdoğan sta già trivellando nelle acque cipriote. Tsipras aveva insistito moltissimo con gli europei per imporre sanzioni al sultano. Mitsotakis continuerà sulla stessa linea, anche se all’interno del suo partito vi sono ultranazionalisti che spingono per mostrare i muscoli.

 

 


ACCORDO SULLA TRANSIZIONE IN SUDAN

di Rino Tavarelli, da Il mondo oggi di martedì

In Sudan, i militari si sono impegnati con le forze di opposizione e i mediatori internazionali (Unione Africana, Etiopia) a cedere il trentennale controllo sullo “Stato profondo”. L’accordo non è ancora stato ufficialmente siglato, mentre l’esercito ha annunciato di aver sventato un golpe.
Dopo un negoziato durato mesi e scontri costati la vita a circa 150 persone, il Consiglio militare di transizione e l’opposizione civile (Alliance for Freedom and Change, Afc) si sono accordati sulle grandi linee della transizione, dalla durata di tre anni e tre mesi.
Il Consiglio supremo dovrebbe comporsi di 5 rappresentanti militari e 6 civili, di cui uno scelto congiuntamente; il presidente sarà a rotazione, partendo dai militari. Il governo invece dovrà essere presieduto da un premier scelto dall’Afc, con ministri “tecnici” (concetto che andrà chiarito). Si è invece deciso di non decidere sulla composizione dell’organo legislativo, rinviata a data da destinarsi. Altra fonte di potenziale tensione è l’avversità all’accordo da parte degli esclusi, quali i gruppi militari attivi in Darfur.
Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno salutato positivamente l’intesa; l’Unione Africana dovrebbe reintegrare il Sudan non appena sarà nominato un premier civile. Il supporto decisivo dovrà però venire dai paesi del Golfo, dalle cui “donazioni” dipende la sopravvivenza nel breve periodo dell’economia sudanese. Dopo una rivoluzione scatenata dall’aumento del prezzo del pane, il successo della transizione passa anche dai suoi risvolti economici.

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