LIMES ONLINE DEL 14 OTTOBRE 2019 :: TURCHIA IN SIRIA ( DANIELE SANTORO ); MIGRANTI ( FABRIZIO MARONTA ); CATALOGNA ( STEVEN FORTI ); INDIA-CINA ( FRANCESCA MARINO ); BUDAPEST DI STEFANO BOTTONI

 

 

LIMES ONLINE DEL 14 OTTOBRE 2019

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La rassegna geopolitica del 14 ottobre.

con commenti di Daniele SantoroFabrizio MarontaFrancesca MarinoStefano BottoniSteven Forti

 

Carta di Laura Canali - luglio 2017

Carta di Laura Canali – luglio 2017.–limes online-

GEOPOLITICA DEL ROJAVA:: http://www.limesonline.com/cartaceo/geopolitica-del-rojava

TURCHIA IN SIRIA [di Daniele Santoro]

C’è un’altra Siria rispetto a quella immaginata dai media occidentali.

La presa di Ra’s al ‘Ayn e Tel Abyad da parte delle Forze armate turche e dell’Esercito nazionale siriano è stata infatti accolta con giubilo dalla popolazione locale. A dimostrazione di come la percezione dell’operazione turca – “invasione” o “liberazione” – cambi a seconda del soggetto. Gli arabi della Siria settentrionale – a ovest e a est dell’Eufrate – sono tutt’altro che ostili alla presenza turca, tanto sotto il profilo militare quanto sotto quello civile. È questo che permette ad Ankara di caratterizzare “Fonte di pace” come un’operazione di polizia domestica. L’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu avrebbe legittimato la presenza turca in Siria spiegando che “questa è casa nostra”.

A complicare il piano turco volto a occupare l’area estesa da Manbij al confine siro-iracheno sono soprattutto le contromosse degli Stati Uniti e del regime siriano, discretamente incentivato dalla Russia.

Erdoğan ha rischiosamente avvertito i primi della propria determinazione attaccando degli obiettivi delle Ypg ad Ayn al-Arab contigui a un’installazione militare dove erano presenti soldati americani. Messaggio inequivocabile che ha indotto Washington a decretare l’ennesimo ritiro dei propri soldati dalle zone interessate dalle operazioni turche. Due giorni fa, tuttavia, gli statunitensi hanno ripreso pattugliamenti a Qamishli, mentre continuano a minacciare di colpire letalmente l’economia turca.

Il regime di Asad, dal canto suo, sta muovendo verso Manbij e Ayn al-Arab, entrambe comprese all’interno dei confini della zona di sicurezza e dunque obiettivi delle Forze armate turche. Obiettivo: riaprire il fronte di Afrin.

Le mosse degli avversari non cambiano il calcolo strategico di Ankara, anche perché le sanzioni americane e la reazione di Asad erano entrambi sviluppi più che prevedibili. Erdoğan ha messo in chiaro che la Turchia non farà alcun passo indietro. La colonna sonora dell’operazione militare è stata la sūra della Conquistarecitata all’unisono in tutte le moschee del paese. La nazione turca è perfettamente consapevole della portata storica del momento. “Fonte di pace” è solo il primo passo.

La marcia turca è iniziata. Il traguardo è molto al di là dell’autostrada M4.

 

Per approfondire:Pax ottomana o marcia turca?


MIGRANTI [di Fabrizio Maronta]

Il 18 marzo 2016, all’apice della “crisi dei migranti” che porta centinaia di migliaia di rifugiati – soprattutto siriani – verso l’Europa centro-settentrionale attraverso la cosiddetta rotta balcanica, l’Unione Europea – su forte impulso tedesco – firma dopo un lungo negoziato un patto con la Turchia.

In base all’accordo, i migranti fermati sulla via dell’Ue sono riportati in Turchia e per ognuno di essi un altro, precedentemente individuato in base a criteri umanitari, dovrebbe poter essere trasferito in Europa. Il meccanismo ha consentito sinora di trasferire poco più di 12 mila persone sulle quasi 3,7 milioni presenti in Turchia. Di queste, la quasi totalità è stata collocata in Germania, Olanda, Francia e Finlandia.

In cambio, alla Turchia sono stati promessi 6 miliardi di euro in due tranche (la prima delle quali già erogata), l’abolizione del visto per i cittadini turchi che si recano nell’Ue e la ripresa del processo d’integrazione della Turchia nell’Unione. Questi ultimi due punti sono rimasti lettera morta, come pure tarda a essere versata la seconda tranche dei fondi promessi. Tra 2018 e 2019 Ankara sostiene di aver bloccato circa 400 mila migranti diretti in Europa; inoltre, afferma – senza tuttavia riscontri oggettivi – di aver sostenuto per l’accoglienza un onere finanziario che sfiora i 40 miliardi di dollari. Pur essendo questa cifra verosimilmente molto sovrastimata, difficilmente i danari promessi e solo in parte erogati dalla Ue coprono i costi connessi alla presenza sul suolo turco di quasi 4 milioni di rifugiati, seppure in condizioni sovente critiche.

Conscia di possedere una potente arma di ricatto, negli ultimi mesi Ankara ha allentato i controlli, facendo affluire da gennaio a oggi circa 26 mila persone in Grecia attraverso l’Egeo. Il cinico calcolo è che ciò induca l’Ue a rinegoziare l’accordo del 2016 concedendo migliori condizioni o quantomeno applicando appieno quelle a suo tempo concordate. Ma soprattutto che l’Europa finisca per chiudere un occhio di fronte all’invasione turca delle aree curde della Siria, accettando il fatto compiuto.

Per approfondire:Migranti, minor risultato col massimo sforzo


CATALOGNA [di Steven Forti]

Il Tribunale Supremo spagnolo ha emesso una sentenza molto dura contro i dirigenti indipendentisti catalani: ha condannato nove dei dodici accusati, in prigione preventiva da quasi due anni, per sedizione e appropriazione indebita nei fatti del 2017 (referendum e dichiarazione di indipendenza). È stato rigettato invece il reato di ribellione chiesto dalla procura che comportava pene molto più alte. Le condanne vanno dai 9 ai 13 anni.

La sentenza, frutto della delega ai tribunali di una questione politica da parte dell’ex premier conservatore Mariano Rajoy, pone fine a un limbo durato due anni e apre una nuova tappa, carica di incognite.

Innanzitutto, bisognerà capire l’entità delle proteste in Catalogna, la posizione del governo catalano e l’eventuale reazione dell’esecutivo spagnolo. Per ora, il premier Pedro Sánchez ha ribadito la volontà di stabilire un dialogo dentro la Costituzione con l’indipendentismo, ma anche la necessità che venga rispettata la sentenza. In caso contrario, si procederebbe a commissariare nuovamente la Catalogna. Da parte sua, il governo di Barcellona ha tacciato la sentenza di un “atto di vendetta” e ha chiesto l’amnistia per i leader condannati: il presidente Quim Torra ha ribadito che la risposta sarà pacifica e ha chiesto una riunione urgente con lo stesso Sánchez e il re Felipe VI.

In secondo luogo, bisognerà capire che risultati potrà dare il ricorso della difesa presso il Tribunale europeo dei diritti umani e la riattivazione del mandato europeo di cattura per l’ex presidente Carles Puigdemont e gli altri ex assessori rifugiatisi in Belgio.

Infine, si dovrà vedere quali passi farà il governo spagnolo verso una necessaria distensione tra Madrid e Barcellona: in tutto ciò peseranno moltissimo le elezioni politiche che si terranno il prossimo 10 novembre, dopo l’incapacità del Partito socialista e di Unidas Podemos di arrivare a un accordo per la formazione di un governo progressista. I sondaggi confermano i socialisti come primo partito, ma ben lontani dalla maggioranza assoluta: il tipo di alleanze che cercherà Sánchez dopo il voto faranno capire se si andrà verso un possibile indulto oppure, in caso di un sostegno esterno delle destre a un governo monocolore socialista, a una maggiore inflessibilità.

In ogni caso, e al di là della settimana di intense proteste, la Catalogna non si trova in un clima preinsurrezionale e l’indipendenza della regione non è uno scenario possibile né praticabile. Ciò non toglie che la crisi continuerà ancora a lungo: sarà dunque necessario che la politica si impegni per trovare una soluzione di lungo periodo, evitando le derive giustizialiste che non fanno altro che incancrenire la situazione.

Per approfondire:Madrid a Barcellona, il numero di Limes dedicato alla Catalogna


INDIA-CINA [di Francesca Marino]

Si trattava di un incontro informale e informalmente si è concluso, più gita scolastica che vertice tra due leader nemici/amici. Al netto della roboante retorica in cui si è prodotto Xi Jinping, della serie “il dragone e l’elefante dovrebbero danzare assieme” e dei video postati su Twitter in cui Narendra Modi raccoglieva cartacce sulla spiaggia di Mamallapuram durante la sua passeggiata mattutina, nessuno porta a casa più di tanto.

Nelle intenzioni, Chennai Connect, come è stato definito lo “spirito dell’incontro”, dovrebbe inaugurare un nuovo corso di collaborazione tra i due paesi. In realtà, somiglia molto, anzi troppo, al precedente vertice informale tra i due leader. La coppia ha discusso per quasi sei ore del deficit commerciale e dello squilibrio nella bilancia dei pagamenti, tutto a favore della Cina, ma si è semplicemente accordata sull’istituzione di un nuovo meccanismo per affrontare il problema. Seguiranno colloqui a livello più basso per definire di che si tratta – ovvero, dal punto di vista indiano, il modo di arginare l’invasione di prodotti cinesi che danneggia le industrie locali.

L’India si è dichiarata pronta a unirsi alla Regional Comprehensive Economic Partnership, una proposta di accordo commerciale privilegiato che include 16 paesi, ma non prima di aver ricevuto garanzie che si mantengano in equilibrio investimenti e commercio di beni e servizi tra paesi. Nessuno, nemmeno gli analisti più ottimisti, crede alla buona fede dei cinesi, i quali non hanno alcun interesse a stringere accordi con Delhi, così come non hanno alcun interesse a risolvere le annose questioni dei confini.

È stato percepito dagli indiani come “vittoria”, quantomeno diplomatica, il fatto che durante il vertice non sia stata mai pronunciata la famosa parola che comincia per K: Kashmir. Avendo Xi Jinping incontrato Imran Khan due giorni prima del vertice indiano, si temeva che il conflitto sulla regione contesa venisse fuori durante i colloqui su richiesta del Pakistan.

Modi e Xi Jinping si sono salutati con promesse di altri incontri informali e inviti reciproci. Starà poi alla diplomazia sul campo cercare di dirimere le questioni più spinose. Che ancora una volta sono rimaste in sospeso.

Per approfondire:Il Kashmir cinese


BUDAPEST [di Stefano Bottoni]

“Fidesz è il primo partito nel paese”, annuncia stamane la stampa governativa ungherese.

L’analisi è statisticamente corretta ma ignora lo scossone politico assestato all’Ungheria dal voto amministrativo di domenica 13 ottobre. Dopo nove anni di dominio entra in crisi lo “spazio politico centrale” costruito da Viktor Orbán dopo il 2010. Un’opposizione unita al di là delle differenze ideologiche e personali ha riconquistato la capitale, strappando inoltre al partito di Orbán 10 capoluoghi di provincia su 23 e altre decine di centri urbani.

In termini sociologici, si è ulteriormente allargata la forbice tra la propensione al voto governativo dell’Ungheria rurale (Fidesz porta a casa la guida di 19 consigli provinciali su 19) e urbana, dove l’opposizione di centro-sinistra, coadiuvata fuori Budapest dalla destra di Jobbik, ha sbaragliato candidati governativi che godevano di ingenti risorse materiali e dell’appoggio incondizionato dei media locali. Mentre a Budapest e nelle città si ritrova nell’inconsueto ruolo di minoranza, Fidesz consolida il proprio dominio politico e sociale nelle campagne (in quasi mille degli oltre tremila comuni ungheresi vi era un solo candidato: un fatto senza precedenti nella vicenda democratica post-1989).

Le cause della sconfitta di Fidesz sono da ricercare nella punizione dell’arroganza del potere sfoggiata dalle forze di governo negli ultimi mesi: dalle continue intimidazioni ai candidati di opposizione all’effetto negativo dello scandalo-Borkai, il sindaco di Győr impallinato da una faida interna. Scoppiato a una settimana dal voto, lo scandalo ha scoperchiato non solo i vizi privati di un sindaco dalla doppia vita ma soprattutto un sistema di corruzione tipico del sistema clientelare costruito da Orbán in tutto il paese.

Sebbene sia presto per parlare di declino di Orbán, il messaggio inviato dall’elettorato è stato ben più chiaro del previsto. Senza il lubrificante identitario offerto dalla campagna antimigranti, emerge il vero punto debole di un governo che non conosce la logica del compromesso sociale: una politica economica ultraliberista – dietro le apparenze sovraniste – sorretta dala corruzione sistemica nel drenaggio dei fondi europei e nazionali.

Se Orbán vuole assicurarsi una comoda vittoria anche alle elezioni politiche del 2022, dovrà mettere mano a un partito in mano a gruppi di interesse e oligarchie locali senza freni nè scrupoli morali. L’opposizione ha scoperto, dopo un decennio di sconfitte e umiliazioni, di poter ancora rappresentare almeno metà dell’elettorato.

Per l’Europa, potrebbe essere giunto il momento di aumentare la pressione su Orbán al fine di prevenire una sua ulteriore radicalizzazione e aiutare nel contempo le forze di opposizione a consolidare la loro presenza non solo a Budapest ma anche nell’Ungheria profonda.

Per approfondire:CARTA: Il mondo di Orbán

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