GIULIANO ALUFFI:: Perché ne facciamo di tutti i colori — REPUBBLICA. IL VENERDI’ – DEL 23 SETTEMBRE 2020

 

 

REPUBBLICA DEL 23 SETTEMBRE 2020

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il venerdì

Psicologia

Perché ne facciamo di tutti i colori

Tra tutti i mammiferi, soltanto l’uomo e i primati sanno distinguere, oltre al blu, il rosso e il verde: una conquista che ci è servita a trovare cibo, partner e coesione sociale

 

DI GIULIANO ALUFFI

Ognuno di noi è un pittore esperto, anche chi non ha mai preso un pennello in vita sua. Ogni giorno, grazie agli occhi e alla mente, coloriamo il nostro mondo: dall’azzurro del cielo, al giallo delle foglie d’autunno, al caleidoscopio dei frutti sulle bancarelle. Perché, anche se non ci pensiamo mai, il colore resta un fenomeno soggettivo. O, per dirla col filosofo David Hume: “I colori non sono qualità degli oggetti, ma percezioni nella mente”.

“Se entrambi guardiamo un pomodoro, il rosso che vedo io non è esattamente lo stesso che vede lei” spiega Rob DeSalle, curatore del dipartimento di genomica comparativa presso l’American museum of Natural History di New York e autore del saggio A Natural History of Color (Pegasus Books, pp. 254, euro 22,57).

“La luce che il pomodoro riflette verso i nostri occhi viene convertita in segnali elettrochimici dai fotorecettori nella nostra retina, che dipendono dal nostro corredo genetico individuale, e poi quei segnali, prima di diventare ‘colori’ nella nostra mente, sono processati dai nostri cervelli in modo diverso, perché diverse sono le esperienze e i ricordi che associamo a un certo colore.”

Le differenze tra le persone di fronte al colore non dipendono soltanto dai geni ma anche dalle culture. Come è rivelato dalle lingue: “Prendiamo il blu e il verde: in Occidente li consideriamo colori ben distinti. Ma in alcune lingue, sia antiche che moderne, esiste una sola parola che comprende entrambi” spiega DeSalle.

“In coreano il termine pureu-da può significare “blu”, “verde” o “verde bluastro”, in vietnamita il termine xanh significa sia verde che blu”. Il popolo Himba (in Namibia) raggruppa i colori in categorie particolari, che rispecchiano le condizioni di luce utili per la caccia. Hanno solo quattro parole: vapa (bianco e giallo), zoozu (i verdi, i blu, i rossi), borou (altre tonalità di verde) e dumbu (altre tonalità di verde, rosso e marrone). Non riescono a distinguere, su una tavolozza, tra verde e celeste, però sanno identificare le sfumature del verde con più accuratezza degli occidentali”.

Eppure tutti i colori derivano da un’unica causa, il Sole: il nostro pianeta è bombardato senza sosta da fotoni, le particelle prive di massa che formano la luce e quindi la nostra tavolozza quotidiana. “Una mela ci appare verde perché la sua buccia assorbe, imprigionando fotoni, quasi tutte le lunghezze d’onda della luce, tranne quella caratteristica della luce verde, che così viene riflessa e colpisce i nostri occhi dandoci la percezione del verde” spiega DeSalle.

Certi colori, invece, nascono da altri fenomeni fisici. Il cielo, per esempio: “Ci appare azzurro perché la luce blu, avendo una lunghezza d’onda più breve rispetto agli altri tipi di luce, nel viaggio dal Sole alla Terra è quella che più si fa deviare dalle molecole di azoto e ossigeno che incontra nell’atmosfera. E viene sparpagliata ovunque. Quando guardiamo il cielo, i fotoni della luce azzurra sono gli unici che ci colpiscono da tutte le direzioni: ecco perché il cielo ci appare di un azzurro uniforme” spiega DeSalle.

“Il tramonto, invece, ci sembra rosso per un altro motivo: a quell’ora, la distanza che la luce solare attraversa per raggiungere i nostri occhi è maggiore rispetto al mattino, perché il Sole è più lontano dalla nostra posizione, e durante questo percorso più lungo la luce blu si sparpaglia ancora di più nell’atmosfera, finendo per lasciare il campo alla luce rossa”.

Durante l’evoluzione, gli animali si sono adattati per distinguere queste lunghezze d’onda, visualizzarle mentalmente come colori e usarle per tanti scopi. I colori brillanti dei fiori, ad esempio, segnalano agli insetti impollinatori quando il fiore è più ricco di nettare e polline. Similmente, i colori accesi dei frutti li rendono più evidenti ad animali in grado di mangiarli e poi disperdere i semi, come le scimmie e l’uomo, che hanno una visione tricromatica, ovvero percepiscono i tre colori fondamentali (blu, rosso e verde) e quindi tutti quelli composti a partire da questi tre.

“Il fatto che i primati si foraggino soprattutto con frutti dal colore vivido, invece che di colore neutro come le noci e le ghiande mangiate dai roditori, può irrobustire l’ipotesi che la visione a colori dei primati si sia evoluta come adattamento per trovare frutti maturi (rossi) in mezzo al fogliame verde” osserva DeSalle.

“Oggi gran parte dei mammiferi sono incapaci di distinguere il rosso e il verde, come retaggio di un lontano passato in cui tutti i mammiferi erano animali notturni e non servivano grandi capacità di notare i colori. Solo i primati hanno evoluto la visione tricromatica tramite la duplicazione fortuita di un gene che ha dato luogo a due fotorecettori, quelli capaci di cogliere il rosso e il verde”.

Questa mutazione che ha reso i primati fenomenali raccoglitori di mele e bacche ha dato loro anche grandi vantaggi sociali: “La capacità di distinguere tra le tante sfumature del rosso è utile come fattore di selezione sessuale” spiega DeSalle. “Nei macachi giapponesi, ad esempio, le femmine valutano la qualità del maschio dall’intensità del rosso sul muso”.

Saper cogliere le sfumature di colore del volto è un vantaggio sociale anche per noi, come mostrano gli studi dello psicologo Adam Pazda, secondo cui “il colore facciale ha un ruolo importante nella percezione della bellezza, della salute e di emozioni come l’ira o la vergogna: tutte importanti valutazioni interpersonali che guidano le interazioni sociali e le decisioni”.

Ecco perché la capacità di vedere un mondo colorato ci ha permesso di rinunciare a forme più primitive di percezione: contemporaneamente all’acquisizione della tricromia, infatti, negli umani hanno smesso di funzionare i geni che regolano l’organo vomeronasale, un piccolo organo alla base della nostra cavità nasale, che in tutti i mammiferi permette di rilevare i feromoni, segnali chimici prodotti dall’individuo per stimolare una risposta comportamentale da altri membri della stessa specie.

Ma il regalo più affascinante della visione a colori è senza dubbio l’arte. I primi pigmenti che si ritengono usati dall’Homo sapiens risalgono a 160 mila anni fa, trovati in Sud Africa.

Altri, di 92 mila anni fa, sono stati scoperti in Israele. Ci rivelano l’uso che facevamo dell’ocra, pigmento ottenuto dalla frammentazione di rocce ad alto contenuto di ossido di ferro, argilla e sabbia. “I colori sono entrati nella psiche collettiva dell’umanità come segnali utili per scopi simbolici, rituali e soprattutto per rafforzare l’identità di gruppo” osserva DeSalle.

E dalla preistoria a oggi poco è cambiato: “Lo vediamo ancora oggi nel tifo calcistico o negli schieramenti politici (negli Stati Uniti i democratici sono ‘il partito blu’ e i repubblicani ‘il partito rosso’)”.

Il colore unisce e divide, insomma, ma per fortuna non è più una questione di vita o di morte:

“Come esseri umani abbiamo quasi annullato le conseguenze negative di un’elaborazione erronea, o troppo lenta, della percezione del colore” spiega Lasalle.

“Per gli animali selvatici è imperativo riconoscere rapidamente un predatore o una bacca velenosa, a noi invece basta, per evitare un incidente, distinguere il rosso dal verde”.

Sul Venerdì del 18 settembre 2020

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1 risposta a GIULIANO ALUFFI:: Perché ne facciamo di tutti i colori — REPUBBLICA. IL VENERDI’ – DEL 23 SETTEMBRE 2020

  1. Donatella scrive:

    Evviva evviva il mondo colorato, con tutti i possibili colori e con tutte le loro sfumature.

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