DARON ACEMOGLU, JAMES ROBINSON, PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, IL SAGGIATORE–2013 —RECENSIONE, IL POST 2 NOVEMBRE 2013 + ” classe dirigente estrattiva ” + altre fonti di informazione / recensione

 

 

Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà - Daron Acemoglu,James A. Robinson - copertina

Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità, e povertà

Il Saggiatore, 2013

pagine: 527

€ 22,00

 

Per la scienza sociale è la madre di tutte le domande: perché ci sono paesi che diventano ricchi e paesi che restano poveri? Per quale ragione nel mondo convivono prosperità e indigenza? Alcuni si soffermano sul clima e sulla geografia. Ma il caso del Botswana, che cresce a ritmi vertiginosi mentre paesi africani vicini, come Zimbabwe, Congo e Sierra Leone, subiscono miserie e violenze, smentisce questa interpretazione. Altri chiamano in causa la cultura. Ma allora come si spiegano le enormi differenze tra il Nord e il Sud della Corea? E che dire di Nogales, Arizona, che ha un reddito pro capite tre volte più alto di Nogales, Sonora, città gemella messicana? Le origini di prosperità e povertà risiedono nelle istituzioni politiche ed economiche che le nazioni si danno. Ce lo dimostrano Daron Acemoglu e James A. Robinson, accompagnandoci in un emozionante viaggio nella storia universale, di civiltà in civiltà, di rivoluzione in rivoluzione. Dall’Impero romano alla Venezia medievale, dagli inca e i maya, distrutti dal colonialismo spagnolo, al devastante impatto della tratta degli schiavi sull’Africa tribale, dalla Cina assolutista delle dinastie Ming e Qing al nuovo assolutismo di Mao Zedong, dall’Impero ottomano alle autocrazie mediorientali, le élite dominanti preferiscono difendere i propri privilegi ed estrarre risorse dalla società che avviare un percorso di benessere per tutti.

Ma alcuni paesi sanno cogliere le opportunità della storia: la nascita di sistemi politici inclusivi e pluralisti diffonde la crescita economica a ogni latitudine. L’Inghilterra della rivoluzione industriale, la Francia rivoluzionaria e napoleonica, la nascita della democrazia negli Stati Uniti e, in tempi più recenti, il Brasile di Lula, dimostrano che si può prendere la strada dell’emancipazione politica e sociale.

Nell’epoca in cui si assiste al tracollo di molti paesi e alla travolgente ascesa di altri. Perché le nazioni falliscono propone una teoria brillante, di rara profondità storica, che cambia il nostro modo di vedere il mondo. E, rifuggendo ogni conformismo, mette in discussione le certezze superficiali: siamo sicuri che la crescita della Cina sia inarrestabile?

 

 

Daron Acemoglu è professore di Economia al MIT di Boston. Nel 2005 ha ricevuto la John Bates Clark Medal, il più importante riconoscimento riservato agli economisti under 40.

James A. Robinson, scienziato politico a Harvard, è uno dei più quotati studiosi delle istituzioni africane e latinoamericane.

 

 

 

IL POST DI SABATO 2 NOVEMBRE 2013

https://www.ilpost.it/2013/11/02/perche-falliscono-le-nazioni-falliscono-acemoglu-robinson/2/

 

 

Perché le nazioni falliscono

 

 

E perché altre prosperano: l’importante è che siano democratiche e che i mercati siano liberi, scrivono due professori americani in un saggio di grande successo

 

 

Il conflitto tra i vari interessi di questi rappresentanti fa sì che sia conveniente per tutti stabilire una legge chiara, univoca e che possa essere applicata in tutti i casi, invece dell’arbitrio di un monarca o di un dittatore che potrebbe appoggiare ora gli uni ora gli altri. Istituzioni economiche inclusive aiutano questo processo. Le istituzioni pluraliste funzionano meglio se la ricchezza non è appannaggio soltanto di una ristretta élite, ma è distribuita tra i vari ceti e i vari gruppi. A loro volta queste ampie coalizioni possono portare avanti i loro particolari interessi perché le istituzioni politiche sono inclusive.

In altre parole: istituzioni politiche inclusive significa democrazia rappresentativa, mentre istituzioni economiche inclusive significa un mercato tendenzialmente libero, dove per chiunque sia possibile aprire un’impresa o comunque esercitare il suo talento nella direzione che preferisce – secondo gli autori i nemici delle istituzioni economiche pluraliste sono i monopoli, le corporazioni, le barriere all’ingresso nelle varie professioni e così via.

 

 

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BOTSWANA

 

Manca qualcosa
A questo punto però, la teoria manca di un punto fondamentale. Cosa porta una nazione ad imboccare la strada che conduce ad istituzioni politiche ed economiche inclusive, oppure a quelle estrattive? La risposta dei due autori è abbastanza vaga e difficilmente sarebbe potuta essere diversa. Il punto, secondo gli autori, sono le piccole differenze che dividono le nazioni e che entrano in gioco quando si presenta una congiuntura critica.

L’esempio migliore per spiegare questo concetto è quello che accadde al Botswana. Quando il paese nel 1966 raggiunse l’indipendenza era uno dei più poveri al mondo. Aveva soltanto una dozzina di chilometri di strade asfaltate, appena 22 cittadini laureati e circa un centinaio che avevano terminato le scuole superiore. In più era circondato da diversi stati, molto più grandi e governati da regimi bianchi ostili ai paesi governati da neri.

Nel 1966 nessuno avrebbe scommesso sul futuro del Botswana. Contro tutte le aspettative, cinquant’anni dopo l’indipendenza, il paese ha il reddito pro capite più alto di tutta l’Africa sub-sahariana (al livello di paesi come Estonia, Ungheria o Costa Rica). Ha un tasso di crescita tra i più alti del mondo, tiene libere elezioni e non ha mai attraversato periodi di guerra civile o interventi stranieri.

Come è stato possibile tutto questo? Secondo gli autori perché il paese si diede rapidamente delle istituzioni economiche e politiche inclusive. Questo fu possibile in parte perché tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i capi delle tribù Tswana (il nome del paese significa infatti “terra degli Tswana”) si diedero delle strutture molto moderne e centralizzate per gli standard dell’Africa sub-sahariana. I capi tribù erano limitati nel loro potere dalle assemblee tribali, che potevano opporsi all’imposizione di nuovi tributi o la costruzione di opere pubbliche. Nonostante nelle loro leggi orali i capi avessero diritto alla carica per via ereditaria, di fatto le norme venivano piegate affinché nelle riunioni di tribù venisse eletto l’individuo ritenuto più meritevole. Gli Tswana esprimevano questo concetto con un proverbio che sembra uscito da un manuale di monarchia costituzionale: «Il re è re per grazia del popolo».

Il bene principale di queste tribù era il bestiame, che era considerato a tutti gli effetti una proprietà privata. Per motivi ovvi tutti i vari capi Tswana avevano ogni interesse a far si che la proprietà privata venisse legittimata e che quindi, dopo l’indipendenza, si stabilisse un regime in grado di proteggere i loro diritti. Per fortuna del paese, quando gli inglesi misero quello che oggi si chiama Botswana sotto un protettorato non alterarono queste particolarità, ma lasciarono che gli Tswana continuassero ad autogovernarsi. Tutte queste particolarità emersero quando il paese ottenne l’indipendenza – in occasione di quella che gli autori chiamano una “congiuntura critica”, un grande stravolgimento che può portare enormi cambiamenti.

Il re del Botswana, Seretse Khama, divenne il primo presidente del paese, ma a differenza di quasi tutti gli altri leader africani emersi dopo l’indipendenza non mise in piedi un regime estrattivo per sé e il suo entourage. Tenne regolarmente libere elezioni (fu eletto tre volte e morì di cancro nel 1980) e si assicurò di creare leggi uguali e valide per tutti, di creare un mercato libero, in modo che ogni cittadino potesse esercitare i suoi talenti nella direzione che riteneva più opportuna, oltre a costruire le infrastrutture di cui il paese aveva bisogno.

La storia del Botswana, secondo gli autori, dimostra come le piccole particolarità di uno stato possono avere un grandissimo effetto in occasione di una congiuntura critica. La mancanza di un intenso sfruttamento coloniale, la presenza di strutture politiche abbastanza centralizzata e la presenza di meccanismi che limitavano il poteri dei capi ha permesso al Botswana di creare istituzioni inclusive e quindi di avviarsi su un percorso di crescita che dura da 50 anni.

Previsioni

La teoria di Acemoglu e Robinson viene messa alla prova nelle ultime pagine del libro, dove i due autori provano a formulare delle previsioni che, se nei prossimi anni non dovessero avverarsi, falsificherebbero la teoria. La previsione più importante non poteva che riguardare la Cina, il paese che con la sua impetuosa crescita economica e le sue istituzioni sostanzialmente estrattive, sembra essere la più vistosa eccezione a quanto hanno affermato nel loro libro.

La loro risposta è che anche le società più estrattive hanno la possibilità di crescere, anche se per periodi di tempo limitati (come ad esempio accadde all’Unione Sovietica tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta). I due ricordano inoltre che la Cina, dalla fine degli anni Settanta, ha attraversato un periodo in cui le istituzioni economiche – se non quelle politiche – sono state rese considerevolmente più pluraliste e meno estrattive. Quella della Cina, quindi, non sarebbe che una crescita condizionata e limitata dalle istituzioni politiche ancora fortemente estrattive. Se la loro teoria è corretta, la Cina potrà continuare a crescere in modo stabile soltanto quando anche le sue istituzioni politiche saranno rese molto, molto più pluraliste.

 

 

DA WIKIPEDIA SUL LIBRO :  https://it.wikipedia.org/wiki/Perch%C3%A9_le_nazioni_falliscono#:~:text=%C2%ABOggi%20le%20nazioni%20falliscono%20perch%C3%A9,a%20supporto%20di%20queste%20tesi.

 

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Confine fra Nogales statunitense (a sinistra) e Nogales messicana (a destra)
Sgt. 1st Class Gordon Hyde – US-Mexico barrier at Nogales

 

DEFINIZIONI DI CLASSE DOMINANTE ” ESTRATTIVA “

Acemoglu e Robinson sostengono che la prosperità e la povertà dipendono dalla qualità delle istituzioni politiche ed economiche le quali possono essere «inclusive» o «estrattive». Le istituzioni «inclusive» favoriscono il coinvolgimento della maggioranza dei cittadini e pertanto, con la crescita economica, favoriscono anche lo sviluppo umano e civile; le istituzioni «estrattive», al contrario, sono finalizzate a “estrarre” rendite a beneficio di una minoranza di privilegiati, l’élite dominante; quest’ultima tende a frenare l’innovazione soprattutto per frenare le conseguenze della «distruzione creatrice» di Schumpeter. «Oggi le nazioni falliscono perché le loro istituzioni economiche estrattive non creano gli incentivi di cui la popolazione ha bisogno per risparmiare, investire e innovare». Nell’opera vengono riportati numerosi esempi storici a supporto di queste tesi.

 

Si elencano i titoli dei capitoli (in grassetto) e il breve riassunto presente nel Sommario (in caratteri più piccoli nel rigo sottostante)

Prefazione
Perché gli egiziani hanno riempito piazza Tahrir per rovesciare Hosni Mubarak e che cosa significa per la comprensione delle cause di prosperità e povertà
1. Così vicine, eppure così lontane
Nogales (Arizona) e Nogales (Sonora) hanno la stessa gentecultura e geografia: perché una è ricca e l’altra è povera?
2. Teorie che non funzionano
I paesi poveri non sono tali a causa della loro geografia o cultura, o perché i loro leader non sanno quali politiche arricchirebbero i cittadini
3. La costruzione di prosperità e povertà
Come prosperità economica e povertà sono determinate dagli incentivi creati dalle istituzioni e come la politica determina le istituzioni di una nazione
4. Piccole differenze e congiunture critiche: il peso della storia
Come le istituzioni cambiano con il conflitto politico e come il passato plasma il presente
5. “Ho visto il futuro e so che funziona”: la crescita economica sotto regimi estrattivi
Ciò che Stalin, il re Shyaam, la rivoluzione neolitica e le città-stato maya hanno in comune, e come questo spiega perché l’attuale crescita economica cinese non può durare
6. Sentieri divergenti
Come le istituzioni si evolvono nel tempo, spesso differenziandosi a poco a poco
7. Il punto di svolta
Come le riforme politiche del 1688 cambiarono le istituzioni in Inghilterra, portando alla rivoluzione industriale
8. Non a casa nostra: le barriere allo sviluppo
Perché in molte nazioni i potentati politici si opposero alla rivoluzione industriale
9. L’arresto dello sviluppo
Come il colonialismo europeo impoverì vaste aree del mondo
10. La diffusione della prosperità
Come alcune regioni del mondo imboccarono sentieri verso la prosperità diversi da quello della Gran Bretagna
11. Il circolo virtuoso
Come le istituzioni che incoraggiano la prosperità creano circoli virtuosi che le mettono al riparo dalle élite che le minacciano
12. Il circolo vizioso
Come le istituzioni che creano la povertà generano circoli viziosi che consentono loro di perdurare
13. Perché le nazioni falliscono oggi
Istituzioni, istituzioni, istituzioni
14. Infrangere le barriere
Come diversi paesi hanno cambiato traiettoria economica cambiando istituzioni
15. Comprendere prosperità e povertà
Come il mondo avrebbe potuto essere diverso, e come la comprensione di ciò spiega perché gran parte dei tentativi di combattere la povertà sono falliti

 

 

RICERCA.REPUBBLICA — 9 AGOSTO 2012
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/08/09/la-politica-del-successo-il-bestseller-americano.html?ref=search

 

SIMONETTA FIORI

 

LA POLITICA DEL SUCCESSO IL BESTSELLER AMERICANO SULLA FORMULA CHE FA GRANDE UN PAESE

 

Il fantasma del fallimento non opprime solo la vecchia Europa in declino, ma è al centro del dibattito americano, specie nei suoi avamposti intellettuali che sono le grandi università. A Cambridge, tra Harvard e il Mit,è nato Why nations fail, The origins of power, prosperity and poverty (Profile Books, 15 dollari), il libro che si candida a essere tra i più letti e discussi sulle colonne delle principali riviste statunitensi. Oltre che giganteggiare tra i bestseller dei più prestigiosi campus, inaspettatamente accanto alla trilogia sulle cinquanta sfumature di grigio, nero e rosso. Gli autori sono uno scienziato politico di Harvard, James A. Robinson, e un economista del Mit, Daron Acemoglu, i quali s’ erano già distinti per un libro pluripremiato sulle origini economiche della dittatura e della democrazia ( solo in inglese ).

Questa volta Robinson e Acemoglu sono partiti da una domanda complicatissima – perché esistono nazioni ricche e nazioni povere, paesi supercivilizzati e paesi degradati, popoli ben nutriti e in salute e popoli affamati e fiaccati da ogni malattia. E la risposta – lunga 530 pagine e circa dodicimila anni, dalla rivoluzione neolitica alla primavera araba, nello spazio dell’ intero mappamondo, dall’ Africa all’ Europa orientale e dall’ America latina all’ Asia del Sud – sembra andare a parare sempre dalla stessa parte: «istituzioni, istituzioni, istituzioni», come piace dire agli autori con una triplice iterazione. Non sono cause di ordine geografico o motivazioni culturali a determinare la crescita di una comunità rispetto a un’ altra, ma le regole politiche ed economiche di cui quella comunità è stata capace di dotarsi. E questo – sembra di capire – anche a dispetto delle condizioni ambientali e climatiche, tesi che sulla New York Review of Books ha fatto arricciare il naso del pur entusiasta Jared Diamond («un grande libro!»), tra i principali sostenitori della tesi “geografica” nel suo capolavoro Armi, acciaio e malattie.

Ma se ci fermassimo a una prospettiva ambientale – gli hanno obiettato Robinson e Acemoglu – non ci spiegheremmo perché in Africa il Botswana progredisce mentre il Congo e lo Zimbabwe si sono impantanati nella violenza e nella povertà. Eguale discorso per la Corea del Nord per la Corea del Sud: stessa penisola, identica geografia, due destini diversi. È altrove che va orientata la lente, insistono i due autori. Ciò che fa la differenza tra un paese prospero, destinato a crescere, e un paese debole vocato al fallimento sono le politiche che lo guidano: il primo annovererà un’ organizzazione inclusiva e pluralista, che fornisce a tutta la comunità di cittadini le stesse potenzialità di crescita, che valorizza la formazione scolastica, che investe nella tecnologia, che insegue gli interessi dell’ intera collettivitàe non di una singola parte; il secondo sarà fatalmente segnato da un indirizzo di segno opposto, “estrattivo”, che sfrutta la maggioranza a vantaggio d’ una élite avida e irresponsabile. È così in Africa centro-meridionale. È stato così nell’ Africa del Nord, non a caso scossa prepotentemente da nuove rivoluzioni che avranno successo – dicono gli autori, sorpresi dalla “primavera egiziana” mentre chiudevano il loro quindicennale lavoro – solo se eviteranno di riproporre schemi consolidati. È così in Asia e in America latina. Accolto con toni entusiastici da autorevoli accademici, dal Pulitzer Thomas L. Friedman e da vari premi Nobel – solo qualche critica per la ripetitività della tesi e l’ eccesso di semplificazione – Why nations fail sembra incontrare il favore del pubblico statunitense per ragioni diverse. Intanto la lettura godibile e brillante, che rende accessibili questioni complesse. Poi la vastità del tema trattato – perché gli stati falliscono? come si diventa poveri? – oggi più che mai di drammatica attualità. Ed anche per il principio sotteso a tutta l’ opera: è la libertà che fa il mondo più ricco. In un paese che s’ interroga su come tornare a essere “la rampa di lancio” nel mondo, consapevole del declino nel confronto con il continente asiatico, Robinson e Acemoglu regalano pagine di grande conforto, specie nel confronto con la Cina. L’ esempio cinese, in effetti, sembrerebbe smentire radicalmente le tesi secondo cui c’ è crescita solo là dove c’ è la democrazia. Ma i due autori non dicono esattamente questo: sostengono invece che la crescita prodotta da politiche “estrattive” è condannata ad esaurirsi. E la straordinaria crescita cinese degli ultimi trent’ anni – crescita ricondotta anche a una maggiore “inclusività” delle istituzioni politiche – è destinata ad arenarsi se quel paese non sarà in grado di darsi regole radicalmente nuove. Finora non l’ ha fatto, rilevano i due studiosi, mantenendo l’ economia sotto il tallone del partito comunista. Un esempio illuminante, secondo Robinson e Acemoglu, va cercato pur con le debite differenze nell’ Unione Sovietica: tra gli anni Cinquanta e Sessanta la crescita economica fu indiscutibile, ma condotta su basi molto fragili. E come sia andata a finire è storia nota. Il confronto con la Cina non impedisce uno sguardo preoccupato sull’ America. Secondo gli autori di Why nations fail l’ aumento delle diseguaglianze rischia di minare l’ inclusività delle istituzioni. La disparità economica, in sostanza, rischia di tradursi in disparità politica. «Quando una sola persona può firmare l’ assegno capace di finanziare l’ intera campagna elettorale, una volta eletto quanto sarai libero di ascoltare voci differenti?». Nell’ indice dei nomi-e nella bibliografia – non un italiano viene citato (ad eccezione di Giulio Cesare e di altri imperatori romani, ammesso che si possano considerare tali). Eppure la lettura di questo libro ci riguarda molto da vicino. La diseguaglianza crescente, l’ immobilità, gli scarsi investimenti nella scuola e nella ricerca: anche da noi l’ impoverimento è coinciso con il progressivo sperdimento della guida politica. Il libro di Robinson e Acemoglu si potrebbe leggere anche in questo modo, «ecco la ricetta per evitare il fallimento». Non rimane che augurarci che diventi bibbia anche per le nostre classi dirigenti.

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1 risposta a DARON ACEMOGLU, JAMES ROBINSON, PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, IL SAGGIATORE–2013 —RECENSIONE, IL POST 2 NOVEMBRE 2013 + ” classe dirigente estrattiva ” + altre fonti di informazione / recensione

  1. DONATELLA scrive:

    Molto interessante questa teoria che lega in modo intelligente democrazia e benessere, portando nuovi elementi a testimonianza.

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