MGP – SOTTO LA PIOGGIA– un racconto originale nella produzione di mgp

 

 

SOTTO LA PIOGGIA

 

undefinedPaul Gaugin, Autoritratto con cappello, 1893- 94, olio su tela – Musée d’Orsay, Parigi

 

 

Usciva all’aperto di soprassalto e restava in piedi sotto la pioggia, con le braccia alzate, quasi a benedire quel diluvio che lo faceva sentire vivo, tutto intero. Un evento benefico, sul viso, sul corpo, con i piedi inzaccherati dentro le scarpe e la giacca inzuppata che gli riempiva le braccia e il torace. Tratteneva il fiato per assaporare pienamente quel momento, mentre l’acqua incessante gli colava giù, fino a gocciolare sul ventre, sulle cosce, tra i peli delle gambe. Aveva un gran piacere nel sentire quei rivoli sottili e veloci correre sul suo corpo come un albero con la corteccia liscia o come un sentiero selvaggio percorso da ruscelli saltellanti tra i sassi.

    • Portatelo dentro! Presto. Portatelo dentro! – urlava Agnès la sorella senza spostarsi dalla sua scrivania posta in alto sopra tutti i macchinari.
    • Ma dove è andato Andrés? Presto, trovatelo! Che lo porti dentro, o si ammalerà un’altra volta! –
      Quasi invocava il mio nome, senza alzarsi, io Andrés ero per lei un riferimento, un aiuto indispensabile, una salvezza. Arrivavo in gran fretta e lo raggiungevo nel cortile interno della casa.
      – Lasciami ancora un po’ qui – mi chiedeva.
      Mi fermavo davanti a lui e non dicevo niente. Aveva il viso sorridente rivolto in alto per riceverla tutta quell’acqua benedetta.
      – Oh, la pioggia! Finalmente la pioggia! –
      Sì, la pioggia lo riempiva di gioia e di energia. Non era un richiamo alla tristezza e alla solitudine, come è per molti, era invece sinonimo di speranza, di vita, la discesa del cielo sulla terra. Una meraviglia del mondo. Forse anche un rito propiziatorio. Gli sembrava che quell’acqua gli colasse addosso per alleviare ogni pena. Era un comportamento imprevedibile e inconsueto, ma quando lo guardavo, mi sembrava molto normale che un uomo gioisse dell’acqua che cade dal cielo e accogliesse quel fenomeno come una sorte di celebrazione magica.

Non era l’unico comportamento strano di Pierre, ne aveva sviluppati diversi da quando era stato ammalato e li custodiva come dei premi, quasi una ricompensa alla cura dimagrante che doveva fare. Aveva già perso 8 chili, ma doveva perderne molti, molti di più. Ancora pesava 124 chili e il suo cuore non poteva reggere quel peso.
Quando io arrivai era veramente grosso e data la sua statura pareva un gigante. Credo che pensasse al cibo in ogni momento della giornata e non aspettasse altro che sedersi a tavola. Mangiava con tale impeto . . . come se un impulso irrefrenabile lo trascinasse e lo costringesse a ingurgitare voracemente ogni portata
. Io mi domandavo da dove venisse tutta quella fame. Forse era solo un abbuffarsi per placare la rabbia, la delusione, un modo per riempire la solitudine o semplicemente la noia. Sì certo, era un grande piacere assaporare il cibo, ma subito dopo, quando si fermava, sembrava già pentito di essersi riempito a quel modo, mi diceva:
– Vado a ripulirmi – come se ci fosse un modo per annientare quelle mangiate e spariva.

Con la dieta tutto era cambiato. Pierre era diventato inquieto e un po’ troppo ansioso.
– Dammi qualcosa che mi calmi – mi chiedeva ogni tanto. Certo la dieta lo disturbava molto, ma anche altro, direi il lavoro frenetico della tipografia, che per la verità era anche una salvezza, e più di ogni altra cosa le difficoltà con la sorella. E’ strano come con le persone familiari spesso non si riescano ad avere rapporti facili, ma sempre, in qualche modo complicati e faticosi. Con la sorella Pierre doveva mostrarsi ”un uomo forte” “tutto d’un pezzo”, non poteva permettersi cedimenti. Con lei si sforzava
di essere un uomo capace di organizzarsi e cercava di nascondere ogni cedimento dietro una maschera di efficienza. Con me poteva essere com’era, senza divieti o finzioni, in qualche modo io accoglievo la sua parte morbida e bisognosa di affetto.
Avevamo inventato un gioco per accettare il grande sforzo per dimagrire. Si chiamava ”il gioco della fame” consisteva nell’ironizzare sulle domande della dietologa. Partiva sempre lui con tono risoluto.

    • Allora Andrés qual è il tuo obiettivo principale?
    • Perdere peso. – rispondevo
    • No, non basta. Dimmi di più. –
    • Sì certo, mettermi in forma, un corpo forte, tonico e sano.- aggiungevo
    • E poi? Come, come? Dimmi di più. – insisteva con accento deciso.
    • – Ma certo, sviluppare abitudini sane che vuol dire rinunciare alle scorpacciate, abituarsi a piccoli pasti 5 volte al giorno. Eliminare le golosità. –
    • – E come fare con gli attacchi di fame? – insisteva torcendo la bocca.
    • – Quanti ne vuoi? Di consigli per placare la fame . . . quanti ne vuoi? –
    • Tanti, tutti quelli che hai.
      – Allora . . . bevi acqua, lavati i denti, apri un gioco sul telefonino, vai a fare una passeggiata con Rouge, riprendi il lavoro, bevi caffè, bevi il succo di arancia amara . . .
      – Oggi va per il caffè. – concludeva Pierre convinto e andavamo al distributore ridendo. Era così che aveva perso 8 kg in 4 mesi. Uno sforzo esagerato e non volevamo pensare a come avremmo fatto nel futuro. Parlo al plurale perché lo sforzo era comune. Pierre sapeva che poteva contare su di me. Eravamo diventati complici, ma di più . . . amici veri

Mi chiamava “Andrés l’Indio” (con l’accento sulla o finale), per via delle mie origini dall’America meridionale e la mia pelle un po’ abbronzata. Ero ormai in Europa da più di 20 anni e in Francia da 6, parlavo perfettamente la sua lingua: il francese della costa sud.
Nostalgie? Solo una, molto forte: la musica. Una musica che mi ruba l’anima da sempre, da quando ero bambino. Suonavo in un gruppo prima di lasciare la mia terra, una musica tradizionale arrangiata con sonorità basate sull’arpa paraguayana. Suonavamo alle feste, tante feste, ma la più importante era quella del 15 maggio la grande festa nazionale, il giorno dell’indipendenza dalla Spagna. Due giorni di grande allegria, un susseguirsi di sfilate, concerti e fuochi artificiali e musica, sempre tanta musica. Avevo molti CD di vari gruppi e durante i pasti poco felici di Pierre li ascoltavamo . . . le chitarre, i bongo e la meravigliosa arpa . . . era come spostare l’attenzione dal palato alle orecchie. Funzionava a meraviglia. Sì, la musica vince sempre.

Agnès non poteva sentire quelle canzoni, anzi le odiava proprio, le considerava primitive e volgari, una delle tante cose che detestava e che avrebbe voluto eliminare, subito, all’istante. Era una lunga storia di incompatibilità tra fratelli che aveva radici lontane. Dopo la morte della madre era stata Agnès a prendersi cura del fratello più giovane di lei di 13 anni e questo compito l’aveva resa ancora più aspra e direi incattivita . Non c’ero a quel tempo, ma le conseguenze di quell’educazione forzata avevano lasciato una ferita aperta nell’anima di Pierre, una piaga profonda che poteva essere riempita solo di cibo. Mi pare di vederlo adolescente che cerca di salvarsi in ogni modo dalle persecuzioni della sorella, nascondendosi nella sua camera e raccontando le bugie più incredibili pur di difendersi dalle pretese, dai rimproveri continui e fuggire dagli sguardi umilianti che sembravano dire “non vali proprio niente” “sei sempre qui a darmi fastidio” “sei sempre qui a importunarmi, quando sparirai . . .”
– Parlo per il tuo bene. – gli diceva come a esortarlo. – Devi imparare a comportarti bene e fare quello che ti dico. Non posso sentire le tue scuse: “ lo faccio dopo” “non sono capace, non ce la faccio” “ sono stanco”. Non puoi andare avanti così . Di che cosa sei stanco, non fai niente tutto il giorno. . . sei sempre sdraiato a letto –
Dentro di lui era rimasta una grande amarezza, credo che si sentisse sempre inadeguato, come se fosse colpevole e non sapeva di che cosa. Aveva un peso sulle spalle, in effetti più che un peso, era un pensiero cupo, che lo perseguitava
e lo faceva vivere in pieno smarrimento. Mi pareva di sentirlo quel cuore solitario che picchiava forte nell’incavo segreto del suo petto.
Ho sempre pensato che si nasce due volte: la prima è casuale, quando vieni al mondo, la seconda è quando scopri ciò di cui hai bisogno e senza paura lo cerchi. Pierre non era ancora nato la seconda volta.

Agnès aveva rinunciato a sposarsi e questa era una ragione per accusare e forse odiare il fratello. Durante un bisticcio gli urlò una frase che lo fece impallidire improvvisamente.
– Mi hai rubato la giovinezza! – parole piene di rabbia che raccontavano la sua storia. Era colpa di Pierre se non si era sposata, credo che lo pensasse veramente e forse c’era stata una ragione più che valida. Avere Pierre vicino e occuparsi di lui fin da quando aveva 9 anni era stato non solo un grande impegno, ma credo un vero calvario . Quando il secondo fidanzato se ne andò, Pierre le regalò un cane, un cucciolo maschio di Labrador con il pelo rossastro. Agnès non amava i cani e subito gli disse:

  • Questo non è per me, sarà il tuo cane, non il mio. Puoi tenerlo, va bene, puoi tenerlo, ma dovrai curarlo da solo. Io non c’entro con il tuo cane. –
    Rouge era un cane particolarmente sensibile, docile e protettivo allo stesso tempo. Era l’ombra di Pierre, lo seguiva ovunque.
    – Mon petit frère – gli diceva – tu est mon petit frère. –
    Pierre lo amava molto, non poteva più stare senza di lui. Erano inseparabili. Molte volte lo avevo trovato addormentato nella cuccia di Rouge con la testa dentro la casetta e il corpo raccolto attorno al suo cane.

Agnès aveva ripiegato sul lavoro, investì tutte le sue energie e i suoi soldi nella tipografia già iniziata dal padre, molti anni prima di morire, e pretese di avere Pierre al suo fianco. Tutto il piano terra della loro casa, una bella villa costruita nell’immediato dopo guerra da un americano innamorato della costa, diventò un grande laboratorio con nuovi macchinari e attrezzature all’avanguardia. Agnès da subito si occupò dell’amministrazione mentre Pierre seguì un corso di progettazione grafica e cominciò a dedicarsi agli aspetti tecnici e progettuali. Era diventato abilissimo nella scelta dei vari tipi di carta e materiali nuovi, molto ingegnoso nel trovare grandezze, spessori, quantità di inchiostro, vari strati di colore e tonalità sfumate. Era per lui un lavoro artigianale, una vera passione artistica nella quale trovava le strategie più adatte per capire i desideri del cliente e realizzarli. La tipografia era diventata un’officina tipografica. La sorella commentava aspramente la dedizione di Pierre che secondo lei perdeva troppo tempo .
– Non tiriamo in ballo parole come arte o estetica . . . la tipografia deve essere funzionale e pratica.- Pierre non era d’accordo per niente, ma taceva. Parlava sempre molto poco.

Molte notti spariva, tornava al mattino all’alba tutto sporco di fango, gli preparavo la doccia e lo aiutavo a nascondere le tracce del suo “peccato”.
– Ma dove vai per conciarti così?- gli chiesi una volta
– Dans la “maison de campagne”- mi rispose ridendo.

Aveva bisogno del contatto con il terreno, mi diceva che la terra aveva un’energia curativa, lo faceva star bene. Si era creato una specie di capanna di terra, rami e foglie a ridosso di una roccia nella proprietà di Adeline e ogni tanto andava lì a dormire. Anche lei amava “la vita selvaggia” diciamo così, e insieme si rotolavano, giocavano e passavano la notte in quel piccolo rifugio e anche nel fango. Adeline, aveva un podere di ulivi, coltivava carciofi, allevava qualche mucca da latte e molte capre. Una di quelle mattine Pierre arrivò con un furetto nella tasca dello zaino.
– Me lo ha dato Adeline – è già addomesticato e può vivere con me. –
– Uh, ma certo . . . sarà molto utile come primo soccorso. – dissi a mezza voce.

– Primo soccorso . . . di che cosa? – chiese Pierre incuriosito.

Accostò l’animaletto al viso, stringendolo con due mani; aveva il pelo bianco con il musetto macchiato di nero. Gli avevamo preparato una bella gabbia verticale a tre piani con amaca, scivolo e altalena al secondo livello. Un piccolo parco giochi che Furiel usava in piena libertà perché la gabbia rimaneva sempre aperta. Il mio compito era quello di lavarlo e tagliargli le unghie. Era affettuoso e autonomo come un gatto, usava la lettiera, mangiava nella sua scodella e girava per casa in piena disinvoltura e, cosa straordinaria, andava pienamente d’accordo con Rouge.
– Lo vedi come sta bene qui con noi il piccolo Furiel? Anche lui aspettava solo di essere adottato. – commentava Pierre.
– Anche lui? – gli chiesi un po’ sorpreso – E tu? Tu aspetti la stessa cosa? –
– Non so . . . cosa aspetto. – mi rispose in tono serio.

 

 

Fatata te Miti (By the Sea), Al mare– Paul Gaugin, 1892. olio su tela, 68x 92 cm–National Gallery of ArtWashington

 

 

Se lo metteva in grembo e per tutto il tempo del lavoro lo teneva lì come a scaldarsi le gambe e il ventre mentre il piccolo animale dormiva per tutto il giorno. Gli teneva una mano tra le zampe per sentire il battito del cuore mentre con l’altra lavorava.
Era proprio vero, aveva la funzione di un primo soccorso, glielo avevo detto senza che lui capisse, ma così penso e ne sono convinto. Perché c’è una domanda alla quale non sappiamo rispondere: “Come placare il bisogno d’affetto?”
Da questa domanda nasce la mia teoria sui tre tipi di soccorso di cui non possiamo fare a meno:
il primo è il contatto con le mani, il calore dell’abbraccio, il sentire una vicinanza fisica, lo stringere a sé un’altra persona.
Il secondo soccorso sono le parole, l’ascolto . . . dimmi . . . raccontami . . . parlami.
Il terzo soccorso è la condivisione, l’intesa, lo scambio dell’anima . . . , molto raro da trovare, e devo dire che tra me e Pierre era nato un terzo soccorso e io cercavo di alimentarlo il più possibile. Erano momenti fuori dall’ordinario . . . quando ti senti in armonia non solo con una persona, ma con le cose, con il posto, con l’atmosfera che si crea e con l’aria che respiri. Per questo andavamo spesso alla baietta del faro. Lì nasceva immediatamente un clima di rinascita, di libertà, di benessere, quasi un accordo segreto tra noi e quel luogo. Non era solo uno svago, una distrazione dalla vita quotidiana, era un grande piacere, un appuntamento con la spensieratezza. Un tempo lontano dal mondo . . . direi spirituale.
Il luogo era meraviglioso . . . una spiaggia aperta sul mare che diventava una conquista dopo aver attraversato un promontorio irraggiungibile da tutti, tranne che da noi. Un lembo di terra coperto da sassi, detriti, alghe e rami di palme che pareva l’angolo di un’isola deserta. Pierre e Rouge diventavano due animali selvatici: saltavano, gridavano, si rincorrevano da un capo all’altro della riva, parevano due primitivi nel loro abitat naturale. Arrivavano da me, mi spingevano e mi buttavano a terra, Rouge mi leccava fino a farmi rialzare, così da poter ripetere il gioco. Poi si buttavano in mare e andavano lontano senza paura di niente. Rouge controllava il suo padrone, Rouge era un cane molto sicuro e mai si sarebbe allontanato, sapevo che lo avrebbe aiutato in caso di difficoltà, era nel suo istinto. Li aspettavo a riva perché non so nuotare. Erano pomeriggi pieni di gioia, sospesi, lontani da ogni pensiero, posso dire che eravamo felici.

Col tempo quelle nuotate diventarono sempre più lunghe, così che quando tornavano a riva erano stremati, Pierre respirava a fatica e rimaneva sdraiato per molto tempo. Io lo asciugavo e lo massaggiavo in attesa che si riprendesse. Il gioco si era fatto pericoloso, ma Pierre non voleva smettere. Le nuotate non erano più un piacere, ma si erano trasformate in una prova di resistenza, una sfida a se stesso, al mare, un riscatto, una redenzione . . . non so.
Era l’ultimo giorno di settembre, il mare era in piena tempesta. Quando tornò a riva era violaceo, senza più respiro. Era successo ciò che temevo, ciò che ogni giorno scongiuravo che non accadesse. Un fatale incidente che quasi pareva inevitabile. Quel gioco rischioso aveva superato il limite. La sorte si era girata dalla parte ostile
e aveva trascinato il mio amico in una condizione di bisogno estremo. Pierre era in fin di vita.

Fu ricoverato d’urgenza e salvato per miracolo. Rimase all’ospedale più di due mesi. Lo seguivo ogni giorno con la grande paura di perderlo. Agnès non mi parlò per tutto quel tempo di assistenza in un continuo andare e venire. Posso dire che solo dopo il primo mese mi sentii più tranquillo, stava un po’ meglio, era uscito dal grande pericolo e mi chiese di vedere Rouge. Glielo portai con la complicità dell’infermiera di turno, fu un incontro straordinario, un guaire senza fine, un esultare di gioia. Rouge non poteva fermarsi dal saltare sul letto e leccare il viso di Pierre che finalmente rideva per la prima volta dopo tanti giorni di pena, aveva le lacrime agli occhi. Passarono ancora molti giorni prima che potesse mettersi in piedi. Quando tornò a casa Agnès mi licenziò senza dire una parola.

Ho girovagato per la Francia un po’ stordito da tutti quegli avvenimenti, accaduti in un tempo breve e con un gran senso di perdita nel cuore. Poi ho deciso di rientrare a casa. Ora sono a Concepciòn la mia città in Paraguay. Ho saputo che al mio posto è arrivato un uomo di 65 anni, un ex guardia giurata che ha creato un clima di grande rigore: orari, controlli continui, nessuna libertà, una vita scandita tra lavoro, cibo e sonno.
– Sono sequestrato in casa – mi scrive Pierre– non posso fare più niente, solo lavorare e mangiare, almeno quello. . . Ti aspetto. –
Ho scritto ad Agnès perché vorrei tornare. Sto aspettando la sua risposta.

 

 

 

 

 

 

 

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12 risposte a MGP – SOTTO LA PIOGGIA– un racconto originale nella produzione di mgp

  1. DONATELLA scrive:

    Bello e delicato questo racconto e belle le “illustrazioni”.

    • MGP scrive:

      Cara Donatella,
      avevi fatto un commento meraviglioso. Dove è andato? Ti prego ritrovalo. Era troppo bello! Il miglior complimento che io abbia mai ricevuto. . . .
      Lo aspetto

  2. Giancarlo scrive:

    Un racconto piacevole,triste e sentimentale. Dapprima la pioggia” una meraviglia del mondo,una magia una doccia di gioia” poi al centro due cose mi hanno colpito: un canto
    all’amicizia(uomo,animale) descritta con garbo,che si trova ed emerge continuamente e
    la tristezza della cattiveria, cosa che fa un po’ da contrasto. Questa sorella forse compressibile che pesa come un macigno sulla vita di Pierre sino alla fine. Una realta’
    che troviamo spesso nel nostro vivere. Mi e’ piaciuto! ciao

    • MGP scrive:

      Grazie Giancarlo del tuo commento,
      certo la sorella rimane per Pierre una ragione di disagio e di continuo impedimento a vivere. Non si sa in che misura lei abbia contribuito al disturbo che il protagonista vive. Un po’ di sollievo da questo stato di sofferenza arriva dall’amicizia con Andrés che in effetti diventa un grande aiuto a vivere.
      L’amicizia è un ancora di salvezza, può riempire il vuoto d’affetto, può compensare la mancanza e accompagnare dolcemente le nostre giornate.
      Un caro abbraccio

  3. Ivana R. scrive:

    Il più delle volte è da una persona esterna alla famiglia che si riceve un aiuto, empatia, vicinanza emotiva. Superare un trauma affettivo, la mancanza d’amore non è sempre attuabile , come nel caso di Pierre. Se i tre tipi di soccorso sono assenti la possibilità di salvezza è limitata. Il vuoto dentro non si riempie con nessun tipo di surrogato, non esiste un oggetto che lo possa colmare. La relazione con gli animali è senz’altro una cura, ma non è abbastanza. Il cuore indurito ed incattivito della sorella non è aperto a nessun gesto di compassione. La passione artistica per il suo lavoro artigianale non gli offre una via di uscita.
    Trovo in Pierre una deficienza, quella di non voler uscire dalla sua condizione, almeno di tentare, debole autostima e autocommiserazione. Aver deciso di seguire una dieta potrebbe però essere un inizio. Chissà!?

    • MGP scrive:

      Siamo tutti malati di mancanza d’amore, in una misura o nell’altra, con disturbi profondi che ci impediscono di vivere serenamente o con ansie che cerchiamo di quietare spingendoci fuori da noi stessi, abbracciando accomodamenti di vario tipo, rimedi grandi o piccoli. Pierre ne è l’esempio. Pierre cerca la pioggia, il terreno, il mare, il cane, il furetto, l’impegno nell’attività che svolge, poi trova l’amicizia, forse un possibile rimedio? Rimane dentro di lui una solitudine profonda e un desiderio di spingersi oltre, di rischiare per trovare un appagamento, una risposta, un senso.
      Mi pare che l’inquietudine di Pierre appartenga a tutti noi, così come la ricerca di una quiete che non si trova, ma che dovrà accontentarsi di “surrogati” come dici tu. Surrogati che non riempiono, ma che accompagnano e intiepidiscono.
      Grazie Ivana, i tuoi commenti sono sempre suggerimenti interessanti.

  4. Carlo F. scrive:

    Bel racconto,la pioggia guaritrice e che porta vita, i rapporti tra i vari personaggi che sono complessi, il rapporto col cibo e con gli animali…il tutto condito con sensibilità e voglia di novità sapendo bene da dove veniamo. Ma come dice una conzone che amo e spesso canto….che sarà che sarà che sarà che sarà della mia vita chi lo sa, so fare tutto o forse niente da domani si vedrà sarà quel che sarà…ecco sento un’affinità.

    • MGP scrive:

      Caro Carlo,
      sono molto contenta che il racconto ti sia piaciuto. Il tema sul quale ho scritto è il bisogno d’affetto che è centrale nella vita di tutti e che spesso non trova risposte adatte, ma continua a tormentarci e quindi a richiedere possibili soluzioni. Come possiamo placare questa necessità? La risposta ci spinge avanti in una ricerca continua di noi stessi, del nostro vivere, di cosa fare, di dove essere e con chi . . . perfetto il riferimento alla canzone, che citi che piace tanto anche a me, “che sarà” “che sarà” “so fare tutto o forse niente da domani si vedrà” Una condizione di incertezza, di ansia che spesso non trova appagamento sufficiente e perdura per tutta la vita.
      Grazie del tuo bel commento.

  5. govanni scrive:

    Un racconto in cui prevalgono le “atmosfere” raccontate e descritte dal narratore che le rivive dal suo esilio nel paese di origine con un minimo di tristezza e nostalgia, trasmettendole al lettore che le vive quasi partecipando.

    I due personaggi principali quasi scompaiono come individui ma emergono come due esempi di approccio alla vita totalmente inconciliabili: neanche la presenza di mediatori quali il volonteroso dipendente e i due animali riescono a creare un minimo di convergenza e di empatia . La donna è chiusa nel suo rimpianto di una famiglia mancata e scarica più o meno inconsciamente la colpa sul fratello che si punisce a la punisce mangiando dismisura: quasi un suicidio.
    Questo contrasto di sentimenti lo si avverte, anche se non è mai esplicitato.

    Il racconto, nella sua brevità, condensa una grande quantità di situazioni di vita che in modo più o meno drammatico riescono a turbare l’esistenza di tanti esseri umani.
    E’ veramente molto triste!
    Un racconto originale, molto diverso dai precedenti di MGP: non solo fotografa una situazione, ma inserisce il lettore nello sviluppo dei sentimenti.

    • MGP scrive:

      Caro Giovanni,
      sì, questa volta ho parlato di sentimenti, di stati d’animo che spesso prevalgono sui fatti della vita e si trasformano in padroni spietati del nostro vivere. Qualche volta succede, anche se non vogliamo, anche se facciamo di tutto per non ascoltare troppo il nostro sentire, per non cadere nel malessere che lo stesso ci può procurare.
      Pierre è caduto malamente in questa condizione che è diventata un disagio insuperabile. Non si sa quando è successo, probabilmente è stato come uno scivolare lento in una malattia cronica. Ormai non può fare diversamente, non può non pensarci, non può contenerlo e non solo perché ha intorno la malevolenza della sorella, ma perché il suo sentire è diventato dominante nella sua vita, è diventato un bisogno insaziabile che non si appaga mai, così come il cibo che ne è chiaramente una metafora.
      E’ triste? Sì è triste, tu dici . . . ma capita a molti, non in una forma esasperata, come quella di Pierre, ma in forme più leggere, ma molto simili.
      Grazie del tuo bel commento, credo che avremo molto di cui discutere.
      A presto

  6. Juliana scrive:

    Cara Gabriella,che bella storia hai scritto!Mi è piaciuta tanto!
    Che belle immagini,”l’acqua che scorre sul suo corpo , come sulla corteccia d’un albero, come rivoli sottili su un sentiero”Andres l’indio,di Paraquay…….Dove trovi l’ispiratione per le tue storie?Le persone sono cosi credibile.Mi dispiace per la sorella,invece di amare il fratello piccolo e trovare soddisfazione nella cura per lui è cosi scontenta e amara.
    Almeno Pierre e Andres hanno trovato affetto e armonia nel loro compania.
    Spero che Andres ritorna presto anche senza permesso della sorella.

  7. MGP scrive:

    Cara Juliana,
    sono molto contenta che il mio racconto ti sia piaciuto, è una storia intorno a una persona che ha tanto bisogno di affetto e non ne trova mai abbastanza. Lo cerca in modo angoscioso come se avesse una necessità che non trova un sufficiente appagamento. Mi pare che sia un po’ di tutti questa attesa, questa ricerca di affetto e di amore che non si placa mai.
    L’unico sollievo per il protagonista è questa amicizia con Andrés che lo aiuta molto e alleggerisce la sua solitudine, ma in ogni caso non risolve il problema di fondo.
    Grazie Juliana, mi ha fatto molto piacere ricevere il tuo commento.

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