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Italo Calvino, “Il segreto di Albe Steiner”, L’unità, agosto 1974
Il segreto di Albe era nella contentezza che metteva nel suo lavoro, divertendosi come se giocasse. Nella contentezza che cercava continuamente di trasmettere agli altri attraverso tutto ciò che faceva e diceva e con la sola sua presenza. Un divertimento che non implicava affatto un atteggiamento di distacco, anzi egli credeva nel suo lavoro con una serietà e una passione assolute, in tutta la sua visione del mondo; la sua morale attiva, la sua passione pedagogica, il suo entusiasmo li esprimeva nel suo lavoro.
Una delle fondamentali idee estetiche del nostro secolo, che la forma delle cose che ci circondano, degli oggetti della nostra vita quotidiana, delle scritte, di tutto ciò che serve per comunicare, questa forma esprima qualcosa, una mentalità e una intenzione, cioè il senso che si vuol dare alla società nell’era della civiltà industriale, quest’idea aveva cominciato a girare per l’Europa negli anni della sua giovinezza ed era stata decisiva per lui. Direi che in lui questa idea non aveva mai perso la forza di impatto della prima scoperta e non era mai incappata in contraddizioni e in crisi perché per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati. Convergenza di spinte che aveva avuto il suo momento di massimo slancio all’indomani della Liberazione particolarmente qui a Milano e consisteva nella convinzione di star portando avanti contemporaneamente la battaglia per il rinnovamento politico iniziata con la Resistenza e la battaglia per il rinnovamento della propria tecnica, delle ragioni interne del proprio campo di ricerca.
Per Albe questa convinzione era rimasta operante fino ad oggi e si direbbe che proprio a lui fosse stata data la capacità di salvare lo spirito migliore di quell’epoca proprio perché egli era un uomo sempre proiettato nell’oggi e nel domani. Certo in questo egli era sostenuto da una qualità ancora più rara, quella di essere pronto a cogliere gli aspetti positivi prima dei negativi. In un’epoca come questa in cui la diffidenza sistematica verso ciò che esiste, l’arricciare il naso come atteggiamento preliminare di ogni giudizio, sembrano principi metodologici fondamentali d’ogni posizione intellettuale, Albe era la sola persona che si dichiarava in ogni momento felice di vivere nel proprio tempo, la sola persona per cui le cose in cui riconosceva una promessa di felicità erano sempre più forti di quelle che annunciavano l’infelicità, il dramma, la sconfitta. Questo suo atteggiamento aveva certo una sua buona parte di programmaticità dichiarata e ostinata ma si sosteneva su una naturale leggerezza e serenità di spirito che gli permetteva di passare attraverso questo nostro mondo di crisi e di problematiche esasperate senza affondare nelle sabbie mobili e restando miracolosamente uguale a se stesso.
Mi rendo conto che quello che ho detto finora potrebbe dare di Albe, a chi non sapesse nulla di lui, un’immagine lontanissima dal vero, cioè di qualcuno che riesce a distogliere lo sguardo dalla tragicità del mondo contemporaneo. Invece è vero proprio il contrario. Quest’uomo, la cui storia familiare era stata a più riprese segnata dalla tragedia per il ripetuto accanirsi della ferocia fascista, aveva sempre davanti agli occhi la visione di strage che occupa tanta parte della nostra esperienza. Era questo il suo costante punto di riferimento, della sua idea del mondo, della sua tematica espressiva, della sua vita di militante. era appunto questo fermo fronteggiare la tragedia che gli imponeva di tracciare una netta linea di demarcazione tra il proprio mondo di valori e l’esperienza di un male assoluto. Egli era sempre teso ad allontanare tutto il negativo al di là di quella linea perché al di qua l’ottimismo restasse l’elemento decisivo.
Se passiamo in rassegna la sua opera grafica vediamo come forse il suo stile sia stato meno ilare di quanto il carattere dell’uomo potesse far pensare, sia stato l’espressione di una tensione drammatica sempre presente. Dall’impaginazione rossa e nera del settimanale “Il Politecnico” del ‘45-‘46 e poi della rivista omonima, questa veste tipografica che Vittorini diceva avesse il sapore del fumo di Milano, fino a gran parte della sua grafica politica anche degli ultimi anni, il modello fondamentale di Albe Steiner è il manifesto o il giornale murale che esprime tutta la tensione della lotta. Nello stesso tempo non si può dimenticare l’aspetto dell’amore per gli oggetti riprodotti nel lavoro dell’uomo per una produzione ridiventata creazione e ricchezza di vita collettiva, l’annuncio di una utopia che egli cercava di riconoscere anche attraverso la giungla della nostra menzognera civiltà dei consumi per prefigurare un mondo in cui lavoro e gioco, l’eguaglianza e l’abbondanza non saranno più termini antitetici.
Pe questo resta fondamentale il suo sodalizio con Elio Vittorini, una amicizia che sempre si conservò anche nei momenti di divergenza politica perché nonostante la diversità dei loro temperamenti essi avevano entrambi questa spinta a riconoscere il positivo nel nuovo e il negativo nel vecchio, questo identificarsi visivo direi più che concettuale negli aspetti nuovi del mondo contemporaneo al momento del loro emergere, il cercar gli annunci della possibile realizzazione di un’utopia d’umanità integrale e nello stesso tempo il senso della lotta, della presenza del nemico, del prendere parte contro la mostruosità sempre incombente.
L’amicizia è stata per Albe un modo di espressione e di ricerca, un rintracciare negli altri le linee che convergono in un progetto comune, ma è stata soprattutto qualcosa di insostituibile per tutti i suoi amici perchè la carica di fiducia che quest’uomo sapeva comunicare in noi era senza eguali, fiducia che dalla somma di tante azioni come la sua, animata dalla passione di rinnovamento nel proprio campo di lavoro alla luce di un’idea di rinnovamento totale, possono fondarsi le basi di una diversa convivenza umana.
Per gentile concessione degli eredi
OBLIQUE.IT
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ALBE STEINER
Albe Steiner nasce a Milano nel 1913. L’infanzia e l’adolescenza sono profondamente segnate dalla violenza fascista che colpisce la sua famiglia – ha undici anni quando viene assassinato lo zio Giacomo Matteotti. Da qui la coscienza antifascista che l’avrebbe sostenuto nella lotta per la “libertà che è cultura”.
Morto il padre nel 1928, dopo essersi diplomato in ragioneria, abbandona gli studi e si dedica invece ad una professione a quei tempi praticamente sconosciuta in Italia, quella del grafico. Ai primi anni trenta risale la sua conoscenza delle esperienze grafiche del costruttivismo sovietico e del Bauhaus, la scuola razionalista di progettazione industriale, di artigianato e di architettura sorta in Germania nel 1919 che fu centro di confluenza e di raccolta delle esperienze più moderne dell’arte europea.
Inizia la sua attività professionale nel 1933, divenendone un vero e proprio pioniere e antesignano: Albe Steiner è stato il fondatore di quella grafica ideologica non asservita alla confezione di prodotti di consumo, ma partecipe del processo educativo e consapevole della propria responsabilità culturale. Steiner intende la comunicazione visiva come strettamente legata allo sviluppo della civiltà industriale: una comunicazione al servizio di una civiltà. Il grafico, secondo Steiner, ha una responsabilità sociale altissima, perché il suo segno è comunicativo e può influenzare lo sviluppo culturale delle masse.
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Il mio primo compito è capire i pregi, le qualità del prodotto, conoscere l’impegno di chi lo produce, del tecnico che lo concepisce e lo elabora, dell’operaio che lo lavora. La mia opera va nel senso stesso della produzione, non verso la speculazione ma verso la fruizione, l’uso corrente di quello che è un nostro diritto nella civiltà industriale… Se il prodotto non corrisponde a certe regole o a certe intenzioni, il disegnatore deve rifiutarsi di collaborare, per non essere correo di una truffa nei confronti della società e dei consumatori…
Il consumatore viene prima del prodotto, quindi la grafica deve essere al servizio del pubblico e spingere solo quei prodotti che sono utili anche al consumatore.
Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino, 1978
Nel 1938 sposa Lica, che sarà la sua inseparabile compagna di vita e di lavoro. Con lei apre a Milano lo studio Las (Lica Albe Steiner). Sono gli anni dei progetti di grafica e di design per Bemberg (di cui diviene consulente fisso), Savoma medicinali, Vitafos, Tavennes, Palazzo del ghiaccio, della prima mostra di grafica alla VII Triennale di Milano e della collaborazione con lo Studio Boggeri.
Il marchio dello studio Las (1939)
Tra il 1940 e il 1942 Albe e Lica si avvicinano al Partito Comunista, attraverso l’amicizia con Salvatore Di Benedetto. Con lui e con Elio Vittorini, cui è legato da affetto profondo e amicizia fraterna, si occupa fino alla Liberazione di compilare e stampare nella propria abitazione volantini e fogli clandestini di informazione e propaganda. Nei primi anni della guerra prosegue la sua attività professionale avendo continui contatti con l’avanguardia culturale antifascista milanese; lavora in quegli anni per Agfa, per Rosa e Ballo editori, per riviste di architettura, per Ar Ar (Architetti Riuniti), per Domus editore.
Subito dopo la Liberazione è chiamato da Vittorini a collaborare, nella veste ufficiale di grafico e redattore, al Politecnico, dove fa molto parlare di sé attraverso innovative scelte grafiche e dà anche il suo contributo al dibattito culturale e politico che ruota attorno alla rivista. Al Politecnico infatti Steiner non svolge certo il ruolo del creatore “di facciata”, ma quello di inventore di contenuti e forme per quello che la prima locandina definisce «non un altro settimanale, ma “l’altro” settimanale».
Al Politecnico le riunioni di redazione sono un momento di grande fermento culturale e l’impegno intellettuale è totale, le discussioni vivacissime, ogni argomento sviscerato e riconsiderato. Il progetto del settimanale, nella sua impostazione generale, è assolutamente consono ai contenuti, come anche l’impaginazione: i filetti neri, rossi in alcuni casi, non sono semplicemente formali, ma corrispondono ad un’esigenza di migliore leggibilità per il lettore e ad un’appropriata divisione dei testi. Una delle prime innovazioni che Steiner vuole nell’impostazione grafica della pagina è proprio l’eliminazione del filo di divisione tra colonna e colonna, regola fissa nella tipografia del giornale. È una battaglia anche con gli operai tipografi, che sostengono che con questo cambiamento le colonne di testo appaiono confuse; Steiner dimostra invece che in questo modo la pagina risulta più chiara e pulita, e inserisce dei filetti più pesanti che hanno la reale funzione di stacco; oggi l’eliminazione del filo di divisione tra le colonne di testo è adottata da quasi tutti i giornali.
Per Steiner anche la scelta delle immagini non è mai casuale né puramente estetica, ma, in alcuni casi, di completamento al testo stesso o addirittura parte integrante ma a sé stante come il testo: tutto nasce dalla convinzione che «quello che importa è la comunicazione e non un tentativo di decorazione giornalistica».
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Non c’è niente di nuovo quando si decide a priori una forma. Le forme nascono da nuove situazioni, da nuove combinazioni di materiali e da funzioni dosate correttamente, così si attua la nuova produzione in collaborazione armonica tra autori, distributori e destinatari.
Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino, 1978
Questa esperienza rappresenta nella vita di Steiner l’inizio di un’importante attività nell’editoria che lo vedrà impaginatore e grafico di molte riviste di arte e design, collaboratore di numerose riviste culturali, curatore grafico di collane per Einaudi (cura la Biblioteca Politecnico, I gettoni e Collezione di teatro).
Nel 1946 si trasferisce con la famiglia in Messico, dove conosce Vittorio Vidali, l’eroico comandante Carlos del V reggimento della guerra di Spagna, cui rimarrà sempre legato da profonda amicizia, e collabora alla campagna di alfabetizzazione del Paese e all’officina culturale Taller de grafica popular. Emblematica la sua collaborazione durante il periodo messicano per il manifesto e l’immagine coordinata per l’VIII Triennale in collaborazione con Max Huber, che rappresenta il suo costante ed intenso lavoro anche nell’ambito delle attività culturali dell’orizzonte milanese.
Tornato in Italia, Steiner si impegna in un lavoro fitto e intenso, che ha il suo orizzonte nel dibattito culturale e nello sviluppo sociale italiani: oltre a riprendere le collaborazioni interrotte alla partenza e crearne di nuove (è consulente editoriale e art director dal 1955 al 1965 della Feltrinelli, e dal 1960 al 1974 della Zanichelli), dà impostazione grafica e collabora alla redazione di gran parte delle riviste culturali della sinistra italiana ( L’Emilia, Realismo, Il Contemporaneo, settimanale e poi mensile, Problemi del Socialismo, Tempi Moderni, La Sinistra, Marche Nuove, Modena oggi, Utopia, L’Erba voglio, Rinascita)
e si impegna nell’insegnamento presso la Scuola del Convitto Rinascita, e dal 1959 all’Umanitaria, dove resterà fino alla morte, oltre che come insegnante di progettazione grafica anche come direttore della Scuola del Libro della Società Umanitaria Milano.
Entrambe le scuole sono profondamente alternative rispetto all’organizzazione tradizionale dell’insegnamento, ed entrambe inaugurano una cultura modernamente professionale. Dal 1962, per dieci anni, è anche professore di arte del libro e di storia d’arte grafica all’istituto Statale d’Arte di Urbino, nella cui università dal 1967 al 1969 è incaricato del corso di giornalismo.
Durante questi anni Steiner insiste quasi ossessivamente sulla propria vicenda di autodidatta, costretto dalla mancanza di una società che facesse proprio il mestiere che aveva inventato e costruito a crearsi una figura, un ruolo e un’esperienza. È questo che Steiner vuole non accada più, per evitare sprechi di tempo, disseminazioni di energie, perdite di idee. Per questo, oltre a impegnarsi nella didattica, promuove incontri e dibattiti e propone strutture organizzative per un riconoscimento della grafica e del design sul piano tecnico, professionale e politico.
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A questo proposito dovremmo fare di tutto (come abbiamo fatto per i grafici) per istituire delle scuole di art director. Cosa abbiamo fatto noi grafici? Siamo partiti dall’autodidattismo per preparare una didattica efficiente. Dal nostro primitivo slancio scarso di tecnica bisognava offrire agli studenti un corredo di buona tecnica senza far loro perdere il necessario entusiasmo. Questa proposta noi dobbiamo porla anche per gli art director.
Ho svolto un’attività nel settore specifico della grafica editoriale oppure del disegno industriale… Attraverso quest’attività di libero professionista, con interventi diversi, saltuari, molto interessanti e piacevoli, mi sono reso conto che era impossibile che le nuove generazioni si preparassero ad una professione che aveva sempre più settori di intervento in zone che nemmeno si era pensato che potessero esistere. È per questo che ho cominciato a interessarmi di scuola. Quello che a noi è costato dieci o quindici anni di lavoro, a voi deve costarne uno o due. Ma solo a condizione che noi riusciamo a dare a voi un metodo, un sistema, un’esperienza così libera, così aperta a nuove conquiste che vi metta assolutamente a vostro agio.
Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino, 1978
DA : https://picclick.it/Il-Politecnico-Rivista-Dal-Numero-1-Al-28-124263930803.html
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Tra il 1950 e il 1974 Steiner lavora anche con numerosi enti ed istituzioni culturali, come la Rai, il Piccolo Teatro, la Triennale di Milano, Il Teatro Popolare Italiano, Italia ’61, ed estende le sue collaborazioni anche a un gran numero di ditte industriali e commerciali: Olivetti, Lineoleum, Pirelli, Arflex, Lanerossi, Cotonificio Cantoni, Necchi, Aurora, Bethafarm, Pierrel, Coldinava, Lark, Carimate, Geigy farmaceutici, Ilses, B.P. Italiana, Steiner junior, Icsid, Aeropack, Aterni, Termolux, Sicet, Pap, Ratti, Atkinson, Oms, Zambeletti, Keller e altri, occupandosi di immagine coordinatata e progettando di volta in volta marchi, opuscoli, imballaggi, stampati, carte da lettera, pagine pubblicitarie e segnaletica.
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Gli schizzi, i bozzetti, i semilavorati che stanno dietro la realizzazione di un qualsiasi prodotto di Steiner mostrano la complessità del suo lavoro, delle sue motivazioni e al contempo la ricchezza e la qualità della sua elaborazione intellettuale: Steiner raggiunge una sintesi autentica tra funzionalità e tecnica, economia e bisogni, arte e cultura.
Nel 1950 è chiamato come art director per l’allestimento interno ed esterno del grande magazzino la Rinascente, rimanendovi dalla riapertura fino al 1954; in seguito realizza anche la prima mostra Estetica del Prodotto, punto di partenza per il premio Compasso d’Oro che sarà la maggiore manifestazione, non solo italiana, del design di produzione industriale con lo scopo di educare compratori e venditori.
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Nel 1962 allestisce il primo magazzino a libero servizio: la coop di Reggio Emilia. L’attenzione per la razionale esposizione dei prodotti nel grande magazzino, come per l’imballaggio e per il design degli oggetti d’uso e di serie è legata al suo interesse per il miglioramento da ogni punto di vista delle condizioni di vita delle masse.
Nel 1972 per la 36ma Biennale di Venezia allestisce, con Carboni e Lionni, la mostra sperimentale della grafica per la stampa.
Da qualsiasi prospettiva la si osservi, la vita di Albe Steiner appare concentrata sull’importanza sociale e culturale dei mezzi comunicativi, soprattutto quelli visivi; l’arte concepita nella sua accezione non esclusivamente estetica, ma sociale, educativa. Sotto questa luce vanno lette tutte le iniziative e le attività di Albe Steiner, un uomo che ha dedicato alla comunicazione visiva (in tutti i suoi aspetti, dalla copertina di un libro al marchio di un’azienda, dalla cura di un manifesto politico all’impaginazione grafica di riviste) tutto il suo impegno, progettando allo stesso modo per la Triennale, per case editrici, case farmaceutiche, partiti politici, negozi o catene di negozi, e mettendo in ognuno di questi lavori la sua filosofia professionale, destinata a fare storia: per dare la forma ideale a qualsiasi oggetto, occorre prima studiarne il significato profondo. Questo è l’obiettivo che Steiner ha perseguito fino alla sua morte, avvenuta improvvisamente il 17 agosto 1974 a Raffadali, vicino Agrigento.
MARZO 1947
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Tutta l’attività di Albe Steiner è stata imperniata sopra un’attenta e costante pratica del suo lavoro professionale, ma d’un lavoro sempre volto a un fine artistico e insieme educativo, politico, morale.
Parlare d’una “moralità dell’arte”, dell’attività artistica, è cosa insolita e apparentemente desueta; i più pretendono che l’arte sia cosa astratta, edonistica, ludica, anche in un’epoca di travaglio sociale ed economico come la nostra. Ma, invece, per Albe Steiner il concetto d’un’“arte per l’arte” di romantica memoria era stato sempre impensabile, sin dagli anni, credo, dell’adolescenza. Certo quando lo conobbi (erano i lontani tempi degli anni 35-40 quando gli antifascisti in Italia si contavano sulle dita) già Albe aveva una concezione del suo futuro lavoro che era impostata sopra una consapevolezza dell’interdipendenza tra attività artistica e attività politico-sociale.
Gillo Dorfles, Albe Steiner. Comunicazione visiva, Firenze, Alinari, 1977.
Albe ci insegnò come fare propaganda visiva. Come si prende una fotografia sciagurata e la si taglia nel modo giusto, come si incolla un pannello, gli si dà un messaggio, come si ingrandiscono le foto, come inviare messaggi chiari, coordinati, significativi. Ci insegnò la semplicità come forma di cultura.
Rossana Rossanda, il manifesto, 20 agosto 1974
Il segreto di Albe era nella contentezza che metteva nel suo lavoro, divertendosi come se giocasse. Nella contentezza che cercava continuamente di trasmettere negli altri attraverso tutto ciò che faceva e diceva e con la sola sua presenza. Un divertimento che non implicava affatto un atteggiamento di distacco, anzi egli credeva nel suo lavoro con una serietà e una passione assolute, in tutta la sua visione del mondo; la sua morale attiva, la sua passione pedagogica, il suo entusiasmo li esprimeva nel suo lavoro.
Italo Calvino, “Il segreto di A. Steiner”, l’Unità, 3 settembre 1974
Ma la sua personalità non era limitata alla professione. Aveva il gusto innato delle cose belle, dell’arte. E il fanatismo della giustizia. Personalità complessa, con un fondo ironico in tutto quanto pensava e diceva, che però era solo un modo di non svelarsi troppo, quasi per un pudore che nascondeva il suo impegno.
Piero Caleffi, Albe Steiner. Comunicazione visiva, Firenze, Alinari, 1977
chiara : le immagini – che abbiamo aggiunto a quelle dei testi — sono quasi tutte de ” Il Politecnico ” per la curiosità di vedere i titoli e aver un’ideina, diciamo, della cultura che diffondeva, nella speranza quasi vana che chi legge condivida la curiosità