FINESTRA SULL’ARTE — 27 GENNAIO 2024
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David Olère, l’artista deportato che dipinse l’orrore di Auschwitz
Quando l’arte diventa un dovere verso chi non è sopravvissuto alla Shoah: così pensava David Olère, deportato ad Auschwitz, dove lavorò nei Sonderkommando addetti ai forni crematori. Era difficilissimo uscirne vivi: Olère fu uno dei pochi. E con la sua arte ci offre una testimonianza straordinaria.
L’arte, insieme alla letteratura e al cinema, ha raccontato facendosi testimonianza uno dei periodi più terribili della storia, una delle più grandi tragedie di sempre dell’umanità: gli orrori dell’olocausto, le persecuzioni che hanno subito gli ebrei con le leggi razziali emanate dal regime nazista, le deportazioni e i campi di concentramento e di sterminio, la morte nelle camere a gas. Indicibili atrocità compiute nella seconda guerra mondiale in nome dell’idea della superiorità di un’unica razza, quella ariana, per l’eliminazione definitiva di tutti gli ebrei e delle minoranze. Una pagina drammatica della Storia che ha visto donne e uomini, bambini e adulti improvvisamente strappati dalle loro vite quotidiane, dalle loro case, dalle loro abitudini, dai loro affetti, costretti a rifugiarsi e a nascondersi, spesso inutilmente perché poi scoperti o denunciati da impensabili e insospettate spie tra vicini, “amici”, conoscenti, e portati via in massa verso luoghi da cui nella maggior parte dei casi non avrebbero più fatto ritorno. Tra i deportati vi sono state molte persone che hanno raccontato con i loro disegni e dipinti ciò che voleva dire essere ebrei in quel momento storico: immagini con cui illustravano di nascosto quello che loro stessi subivano e vedevano all’interno dei ghetti e dei campi di concentramento e che sono state ritrovate quando i loro autori erano già stati uccisi o memorie incancellabili nella mente e negli occhi di sopravvissuti che una volta liberati hanno trovato nell’arte un mezzo per esprimere i terribili momenti che loro stessi avevano vissuto. In ogni caso l’arte è da considerarsi testimonianza e strumento per tramandarne memoria, per far comprendere alle generazioni future di quanto male sia capace l’umanità, e da questa riflessione far sì che tutto questo odio non si verifichi mai più. Che nulla di tutto ciò che accadde col nazismo e le persecuzioni razziali non si ripeta mai più. L’arte (e non solo) serve quindi a non dimenticare.
In occasione della Giornata della Memoria vi raccontiamo su queste pagine, come ormai facciamo da qualche anno, la storia di un deportato e internato ad Auschwitz che, una volta liberato, e quindi salvatosi, raffigurò nei suoi disegni e dipinti la tragedia che vide e si compì nel campo di concentramento e di sterminio su persone innocenti. Opere che divennero quindi testimonianze di ciò che lui stesso aveva visto e sentito.
È la storia di David Olère, nato il 19 gennaio 1902 a Varsavia, in Polonia, dove frequentò l’Accademia di Belle Arti. Tra il 1921 e il 1922 fu assunto come assistente architetto, pittore e scultore all’Europaïsche Film Allianz. A Berlino lavorò con Ernst Lubitsch, famoso regista e produttore cinematografico, e realizzò varie scenografie. La sua carriera iniziò dunque come scenografo nell’industria cinematografica, lavorando anche per Paramount Pictures, Fox Films e Columbia Pictures. Trasferitosi a Parigi, sposò nel 1930 Juliette Ventura, dalla cui unione nacque il figlio Alexandre. Quando venne dichiarata la guerra in Europa, David fu mobilitato nel 134° reggimento di fanteria a Lons-le-Saunier. Il 20 febbraio 1943 venne arrestato dalla polizia francese nel dipartimento di Seine-et-Oise a causa delle sue origini ebraiche e internato nel campo di Drancy, e il 2 marzo fu poi deportato ad Auschwitz. Nel campo di Auschwitz Olère rimase per quasi due anni, dal 2 marzo 1943 al 19 gennaio 1945, e qui lavorò nel Sonderkommando, un’unità speciale di lavoro costretta dai nazisti a rimuovere i corpi dalle camere a gas e i resti dai forni crematori. Selezionati dalle autorità dei campi fin dall’arrivo dei convogli di deportati, i membri del Sonderkommando vivevano in appositi settori, separati dagli altri per impedire fughe di notizie su ciò che accadeva veramente in questi ultimi luoghi; sono quelli che Primo Levi ne I sommersi e i salvati definisce “miserabili manovali della strage” e sul ruolo dei quali è ricaduta, condivisibile o non condivisibile che sia, l’accusa di non essersi rifiutati, di non aver provato a far nulla per evitare l’uccisione di così tanti innocenti. David Olère non si è rifiutato, probabilmente non si è potuto rifiutare; è stato uno dei pochi deportati a vedere con i suoi occhi tutte le fasi del processo di sterminio uscendone vivo, anche se per la maggior parte del tempo veniva impiegato per realizzare opere d’arte per le SS e per tradurre trasmissioni radiofoniche poiché conosceva molte lingue.
Terribili queste immagini, che ci ricordano a cosa l’uomo possa arrivare.