ANAIS GINORI::: Daniel Buren, l’artista senza atelier — REPUBBLICA.IT — ROBINSON –26 GIUGNO 2020

 

 

REPUBBLICA.IT — ROBINSON –26 GIUGNO 2020

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Daniel Buren, 82 anni

 

 

Daniel Buren, l’artista senza atelier

 

26 GIUGNO 2020

Incontro ravvicinato con il più anticonformista dei maestri francesi che il 9 luglio inaugura la prima mostra a Bergamo dopo il lockdown. “Sono felice di portare il mio lavoro in una città che ha sofferto tanto”

DI ANAIS GINORI

 

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«Il mio atelier? Non esiste, mi spiace deluderla». Daniel Buren avanza nel parco di alberi secolari dove spunta una delle sue inconfondibili mezze colonne a strisce bianco e nero, quelle della corte d’onore del Palais Royal. Quell’intervento artistico di Buren, che per alcuni deturpava la purezza del monumento, provocò un’aspra polemica. Appelli al governo, petizioni. All’epoca – erano gli anni Ottanta – il Front National minacciava di distruggere le colonne a righe.«Altri tempi. Oggi non si scandalizza più nessuno» commenta Buren, espressione bonaria e sguardo veloce. Da trent’anni si è trasferito in un’antica abbazia a 40 chilometri da Parigi ridipinta in verde, rosa, azzurro, giallo. L’artista francese è stato uno dei primi ad immaginare interventi in spazi pubblici. E anche se i suoi detrattori dicono che si è normalizzato, lui continua a sentirsi fuori dall’establishment. In questi giorni sta lavorando per ultimare Illuminare lo spazio, la mostra che dal 9 luglio s’inaugura nel Palazzo della Ragione a Bergamo Alta.

 

Un artista senza atelier. È possibile?

 

«Nel 1967 lavoravo in una cantina di Parigi. Avrei voluto uno spazio più grande ma gli artisti non venivano aiutati. Avevo già cominciato a rimettere in discussione alcune abitudini. Per esempio: un artista deve essere esposto in una galleria? È davvero necessario lavorare in un atelier? Il mio lavoro si è pian piano formato così. Ho portato via le mie cose dalla cantina. E ho deciso che il mio atelier sarebbe diventato Parigi. Ho smesso di fare dipinti o comunque opere che assomigliavano a dipinti. E ho preso fogli a strisce che ho affisso nelle strade».

 

Erano i suoi famosi “Affichages sauvages”, affissioni selvagge.

«Ne ho fatti centinaia, migliaia, anche in Italia. Quando le gallerie hanno cominciato a invitarmi ho giocato sempre sull’idea dell’interno e dell’esterno. E sono andato avanti così. Non saprei neanche spiegare bene come. Eccomi, cinquant’anni dopo. Ancora senza un atelier. Imparo a misurarmi ogni volta con un diverso spazio. Nel parco qui c’è un’altra casa dove avrei potuto organizzare un atelier. Funziona da deposito per dei lavori che mi sono tornati indietro. Non so neanche perché li conservo».

 

 

Gran parte delle sue opere è distrutta?

 

«Il novanta per cento del mio lavoro non esiste più. Non sono un nostalgico. È la logica che mi ha sempre guidato. Se cominciassi a trasferire il mio lavoro altrove o smontarlo a pezzi riadattandolo sarebbe una forma di tradimento. A meno di non fare come tanti artisti che parlano di opere in situ mentre fanno solo installazioni».

 

 

Lei è allergico alla moda delle “installazioni”.

 

«Sono stato uno dei primi, nel 1969, a usare il termine in situ. È diventata una moda e vedo che oggi la maggior parte degli artisti, come Donald Judd, non sa cosa significhi. Quando parlo di lavoro in situ significa che non è replicabile altrove».

 

 

Il suo rapporto con musei e gallerie è sempre stato burrascoso?

 

«La mia prima mostra personale è avvenuta in Italia nel 1967. Era alla galleria Apollinaire a Milano. Il vostro Paese ha avuto i migliori artisti e collezionisti del dopoguerra. Ho amato molto lavorare in Italia, ed è a Roma che ho venduto uno dei primi lavori a un museo».

 

Criticava i musei, alla fine ci è finito dentro.

 

«Quando le persone ironizzano sul fatto che mi sono allineato, li lascio parlare. Non è perché lavoro in un museo che mi contraddico. Prima il museo dettava legge. Ora non è più così, fatta eccezione per il MoMA, Beaubourg e pochi altri. Un collezionista ha più impatto di un conservatore di museo».

 

 

Ne sarà felice?

 

«Sì, visto che criticavo questo monopolio. Il problema è che il declino dei musei è accompagnato dalla scomparsa di punti di riferimento. L’arte è diventata un pappone indigesto tra generi e stili. E difatti non c’è più dibattito. Forse la crisi del Covid farà un po’ di pulizia in questa tragica confusione, ma ci credo poco».

 

 

Rispetto a certi eccessi?

 

«La proliferazione delle fiere d’arte, dove si incontrano sempre le stesse persone, è una catastrofe. Partecipo di rado, e ogni volta mi sono vergognato. Le critiche sulle riviste specializzate rispecchiano l’assenza di interesse delle fiere. Una volta i critici avevano gusti pronunciati. Amavano o detestavano. E così si apriva il dibattito».

 

Anche lei è stato amato e odiato?

 

«Ho attraversato tante polemiche. Oggi quello che accade in un museo non interessa più a nessuno. Resta un posto dove può sorgere dibattito intorno all’arte: lo spazio pubblico. Anche se gli artisti vengono sottoposti alla selezione di comitati, alla fine c’è sempre qualche sorpresa, una protesta che non ti aspetti».

 

 

Qualche mese fa una sua opera è stata attaccata a Beaubourg da uno squilibrato.

 

«È quello che si dice sempre in questi casi. Sono arrabbiato con il Beaubourg perché sono certo che non era uno squilibrato. Non ho potuto leggere i verbali della polizia ma ho saputo che si tratta di un cinquantenne che si presenta come artista. Il mio lavoro sembra fatto apposta per innervosire gente così. Per il pittore della domenica sono il simbolo di un’arte fatta di nulla. E c’è chi impazzisce. Se Hitler avesse avuto successo nella pittura, forse la Storia sarebbe andata diversamente».

 

 

Dopo la tragedia del Covid, Bergamo riapre con la sua mostra.

 

«Non potrò esserci perché faccio parte della popolazione a rischio, ma sono felice di portare il mio lavoro in una città che ha sofferto tanto. La mostra è un’unicum scultoreo in tela di fibra luminosa, nell’ambito di una nuova ricerca artistica, mai esposta finora in Italia, che ho cominciato già da una decina di anni».

 

Come sta organizzando il progetto dal suo non-atelier?

 

«Di solito ho bisogno di lavorare nello spazio e per lo spazio. Quando Lorenzo Giusti (direttore di GAMeC, ndr) mi ha chiamato durante il lockdown ho provato a chiedergli di spostare la mostra. Lui ha insistito per confermare. È la prima volta che lavoro a distanza attraverso foto, video e telefono. È un esperimento, se sarà riuscito forse potrò replicare, data la mia età sarebbe forse ragionevole».

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