QUATTROCENTO DENTIERE AL POTERE DI ETA’ MEDIA 67 ANNI—GOVERNANO TUTTA LA NOSTRA VITA CHE OGGI E’ PER I GIOVANI “CULTURALMENTE ED ECONOMICAMENTE” MEZZO SECOLO DOPO….

sandro catani, cagliaritano, 67–  GERONTOCRAZIA  GARZANTI 2014

L’autore è manager e consulente, esperto di retribuzioni e capitale umano….ha un blog su “Il fatto quotidiano”

 

 

la canzone dei Jam : una bomba in warfurt strett

 

 

voi alludereste? chiara alluderebbe? chi non alluderebbe?

costui non alluderebbe!

[audio:https://www.neldeliriononeromaisola.it/wp-content/uploads/2014/07/A-Bomb-In-Wardour-Street-From-The-Jam-Official-Video.mp3|titles=A’ Bomb In Wardour Street – From The Jam (Official Video)]

 

 

 

 

 

 

Gerontocrazia  di  Sandro Catani–Garzanti-2014 (suppongo)

 

chiara: pubblico tutti e quattro capitoli fotocopiati insieme, poi-canguro a parte- ve la girate voi : gli errori sono rivisti, ma avrete pazienza—se il tema vi interessa—-e soprattutto un po’ di indulgenza per me—“per bisogno”, nient’altro!

 

 

INTRODUZIONE «I problemi non possono essere risolti nello stesso contesto in cui sono nati». Albert Einstein

 

 

400 persone influenzano l’economia italiana: 1’80 per cento dell’occupazione; il 95 per cento della Borsa di Milano; il modesto valore annuo degli investimenti privati in Ricerca e Sviluppo, lo 0,7 per cento sul PIL; la quasi totalità dei giornali e delle televisioni. Sono imprenditori, manager, banchieri, professori, consulenti, avvocati, sindacalisti, regolatori del mercato. Sono anziani: la loro età media è superiore ai 66 anni. L’élite economica continua a invecchiare mentre la XVII legislatura del parlamento eletto nel 2013 ha ringiovanito la politica: l’età media dei deputati è 45 anni (nove anni in meno della precedente legislatura), quella dei senatori 54 (quattro anni in meno). Sono maschi: mentre la percentuale di donne elette in parlamento è salita al 31 per cento, un dato storico, il 98 per cento dell’élite economica è di sesso maschile nonostante i primi effetti positivi della legge sulle quote rosa.

I loro guadagni continuano a essere elevati mentre la gran parte degli italiani si impoverisce. Nel triennio 20102012, il vertice delle trentacinque maggiori aziende quotate italiane ha percepito una media di 2,4 milioni di euro annui. In quelle aziende, nel 50 per cento dei casi, per ogni euro pagato ai manager gli azionisti hanno perso da un minimo di 43 a un massimo di 2715 euro. I cento executives più pagati della Borsa di Milano hanno ricevuto un totale di 402 milioni di euro con un incremento di 50 milioni rispetto al 2011.

Nei dibattiti pubblici, esponenti di questa élite sostengono che il posto fisso è un valore negativo: tuttavia molti amministratori delegati godono di un contratto da dirigente a tempo indeterminato, mentre l’assunzione dei giovani prevede incerti percorsi a ostacoli basati su contratti flessibili anche nel caso di laureati con curricula brillanti. Per fortuna le eccezioni non mancano, e la vitalità del paese è illustrata da un lungo elenco di nuove star oltre al mito Ferrero e al fenomeno ormai consolidato della Luxottica: la Prysmian, unico esempio di azienda ad azionariato diffuso, guidata da Valerio Battista, 57 anni; la Moncler, il cui leader è Remo Ruffìni, 47 anni, raro esempio di acquisizione italiana di un’impresa francese; lo Spumante Ferrari, un’eccellenza italiana studiata persino ad Harvard e guidata da un esponente della terza generazione, Matteo Lunelli, 40 anni; la Salini Impregilo, con l’artefice della integrazione Pietro Salini, 56 anni, il nuovo campione nazionale delle opere pubbliche.

E una serie numerosa di aziende piccole e medie in molti settori. L’ENI viene valutata a livello internazionale come un’azienda eccellente e guida la nostra sparuta pattuglia nella Fortune Global 500, la classifica delle più grandi aziende mondiali. Ma nonostante queste indubbie eccellenze il panorama complessivo resta imbarazzante, e soprattutto immobile.

Il gruppo dei 400 occupa in modo stabile le poltrone del potere economico italiano: le principali banche e assicurazioni, le imprese a maggiore capitalizzazione nella Borsa di Milano, le grandi aziende a proprietà famigliare, le istituzioni regolatrici del mercato, le rnunicipalizzate, i vertici del sistema cooperativo e delle confederazioni sindacali, gli studi legali e le società di consulenza più influenti, le università più prestigiose. Molti ricoprono la carica nella stessa organizzazione da quindici-venti anni, e hanno rapporti di consuetudine se non di amicizia. I curricula personali raccolgono un lungo elenco di incarichi passati e presenti, in taluni casi stupefacente per eterogeneità. I più influenti sono nati negli anni Venti e Trenta, quando l’Italia aveva ancora una vocazione agricola. La seconda generazione è entrata nella stanza dei bottoni, negli anni Settanta. Pochi appartengono alla generazione X nata dopo il 1965. La generazione Y, i figli del digitale, non ha rappresentanza, eccetto qualche giovane erede che siede nel consiglio d’amministrazione dell’azienda di famiglia.

E facile ipotizzare che il declino italiano derivi anche dalla persistenza di un gruppo dirigente economico con scarsi ricambi, caratterizzato da una visione miope del futuro.

Eppure le voci prevalenti sui media e nelle sedi accademiche addebitano la responsabilità dei .nostri mali alle altre élite, da quella politica a quella burocratico-amministrativa: pochi ricordano che alloro fianco siedono i potenti dell’economia. La Corporate Italia, come chiamo la comunità degli affari del nostro paese, specchio della società che dovrebbe guidare, sembra aver perso l’energia dell’intraprendere: vende le attività, le aziende e i marchi costruiti con fatìca, e si ritira a fare l’immobiliarista o a occuparsi di finanza. E già accaduto a Venezia nel corso del XVI secolo: i patrizi veneziani, sazi di guadagni e forse stanchi di rischiare, si «rifugiarono» sulla terraferma e lì concentrarono il centro degli interessi. Si era verificato un cambiamento epocale: lo spostamento dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico, una svolta di portata pari a quanto sta accadendo oggi. Mentre però i maggiorenti veneziani, con un ultimo gesto di innovazione, hanno lasciato alle generazioni successive le ville palladiane, i nostri, salvo poche eccezioni, non sentono l’interesse di contribuire alla difesa di Pompei, della Certosa di Pavia, di Villa Raffo a Palermo, di Villa Giustiniani-Odescalchi a Bassano Romano, per citare alcuni dei nostri palazzi e siti artistici che cadono letteralmente a pezzi.

Questo libro cerca di svelare il funzionamento della comunità degli affari, illuminando i suoi meccanismi di nomina, le remunerazioni, il tempo lungo degli incarichi. Sono infatti convinto, e mi sembra di essere in buona compagnia, che il bandolo dei nostri problemi risieda in un blocco generazionale. Questo è il cuore della riflessione. Non si tratta di un’infatuazione per la giovinezza, né di accentuare la contrapposizione tra giovani e anziani.

Oggi la Corporate Italia appare saldamente in mano alla generazione nata negli anni Venti e Trenta (Generazione dei Fondatori) e in misura inferiore a quella post-seconda guerra mondiale (Generazione Baby Boom); con una scarsa rappresentanza o totale assenza dalla scena delle generazioni più giovani. Ed esistono numerose evidenze che i 400 siano il campione dell’universo economico più ampio formato da attori con caratteristiche generazionali analoghe.

Le generazioni costituiscono una categoria ideale per leggere i fenomeni sociali: esse esprimono infatti i tratti di identità collettiva delle persone che, nate in un comune arco temporale (circa venticinque anni), hanno vissuto gli stessi eventi storici e manifestano un sentimento di appartenenza grazie alle loro relazioni. Dobbiamo tuttavia aggiungere per evitare confusione che conservatore e progressista non corrispondono necessariamente ad anziano e giovane. «Si deve mettere il rilievo che “il poter ricominciare” [di generazione in generazione] non ha nulla a che fare con “conservatore” o “progressista”. Non vi è nulla di più inesatto del pensare [ … ] che la giovinezza sia progressista e la vecchiaia ipso facto conservatrice», spiega Karl Mannheim in Le generazioni.

È importante chiarire, in secondo luogo, che le persone citate o di cui traccerò brevi ritratti offrono una migliore comprensione delle tesi, ma sono irrilevanti nella loro individualità: questo libro ha l’ambizione di descrivere un sistema. I singoli membri possono entrare e uscire di scena (come è accaduto e accade) senza modificare i comportamenti collettivi tipici. Da parte mia, per la professione che svolgo da molti anni, ho potuto riflettere sulle regole non scritte di questo mondo e sulla sua cultura contraddittoria: individualista e al con tempo capace di pensare al collettivo, generosa e sparagnina, fatta di piccoli passi prudenti e di squarci di visione sul futuro. Alcuni dei protagonisti di cui si parla li ho conosciuti personalmente, altri li ho appena incontrati nei convegni o in situazioni sociali, della maggior parte ho letto o ho sentito parlare attraverso comuni relazioni. Ho utilizzato la copiosa mole di informazioni resa disponibile dai siti aziendali, dai curricula dei personaggi, e i riflessi della loro partecipazione a eventi o interviste ai mass media. Come diremo più avanti la Corporate Italia è infatti diventata pubblica e si è offerta ai riflettori in cambio di visibilità: biografie e comportamenti sono ormai sotto gli occhi degli investitori e della gente comune, i suoi protagonisti compaiono in televisione e sui media tradizionali e si .affacciano  su Twitter o su Facebook. Molti di loro onorano I la generazione che ha contribuito allo sviluppo del paese. Ora potrebbero con generosità creare le condizioni di una successione. Credo peraltro che estendere lo slogan popolare della rottamazione al contesto economico sarebbe poco salutare; è cruciale, al contrario, favorire una conciliazione Ira le generazioni. È insomma il momento di mettere insieme le competenze e non di disperderle, per offrire a coloro che lo desiderano e lo meritano un ruolo adatto alla propria stagione di vita. Se una persona ricca di esperienza aiuterà una più giovane animata da energia positiva verso il futuro, riuscirà a passare il testimone tracciando un percorso ideale. Certo se questo non accadrà il conflitto tra le generazioni assumerà intensità e forme preoccupanti.

Infine, vorrei esplicitare le motivazioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro: l’amore per il nostro Paese la passione per il benessere delle persone che lavorano, (e confesso la principale – il sentimento di frustrazione per la rassegnazione con cui guardiamo al nostro presente e per I la caduta di fiducia nel futuro. Ci siamo abituati a un lento procedere verso il basso, in un territorio grigio dove a furia di sostenere che l’economia è separata dall’etica, non si ravvisa più ciò che è bene. Ringrazio gli esperti e gli autorevoli esponenti della Corporate Italia con cui ho avuto la fortuna di ragionare sul tema. Trovo opportuno non citarne i nomi, per mantenere la responsabilità personale di queste conclusioni. Mi auguro che accettino comunque la mia, riconoscenza, sia coloro che mi hanno confortato sia coloro che hanno manifestato sorpresa e dissenso nello scoprire le tre ipotesi di fondo del libro: il declino del paese, la responsabilità dell’élite economica, il potere degli anziani. Ogni conversazione ha aggiunto spunti preziosi per capire un fenomeno complicato e difficile da esplorare. A maggior ragione per chi come me nutre simpatia verso la comunità che indaga a causa della professione che svolgo e dell’età che ho. Ne ho tratto la conclusione che sull’opportunità di chiamare la crisi con il suo vero nome di declino siamo d’accordo in molti, così come in molti pensiamo che un intervento di salvataggio richieda attori, terapie e impegno diversi. U ricambio generazionale e culturale è l’atto di discontinuità capace di mobilitare e indirizzare le energie verso nuove mete. La politica ha iniziato a farlo, in modo talvolta ingenuo e dopo un lungo dibattito. Le imprese e coloro che vi lavorano intorno non possono rimanere intrappolati in un rituale di lamenti, manifesti, richieste. I buoni esempi non mancano: chi ha preso l’iniziativa ha trovato opportunità sorprendenti nel mondo, sull’esempio della generazione passata che si espandeva all’estero con minori mezzi e più modeste competenze.

Salvatore Bragantini, classe 1943, già commissario CONSOB e autorevole analista del mondo delle imprese, scrive sul «Corriere della Sera». il 13 giugno 2013: «Tutti scrutiamo i movimenti dei frusti tendaggi del salotto buono, come fossero foglie di tè in cui leggere il nostro futuro. Per fortuna esso è piuttosto affidato alle medie imprese esportatrici, ignorate dallo star system; dovremmo occuparcene di più, a meno che non sia proprio questa disattenzione la loro, e nostra, fortuna».

Se pensiamo di rimanere chiusi nei nostri confini, sperando di difendere i vecchi sussidi o le vecchie produzioni non troveremo salvezza. L’innovazione, l’investimento, il coraggio, l’apertura al mondò sono le doti che hanno sempre premiato, e oggi più che mai sono necessarie. Forse sono competenze possedute in misura maggiore da persone che oggi non occupano ancora la scena.

l. IL DECLINO ITALIANO

«Guarda con tutti i tuoi occhi. Guarda.» Jules Verne, Michele,Strogoff Se confrontiamo la fotografia della Corporate Italia del 2008, anno di inizio della crisi, con un’immagine scattata oggi, sono poche le differenze nei volti dei protagonisti, frutto di casualità più che di una strategia di rinnovamento: alcune tristi scomparse, l’uscita per assunzione di cariche istituzionali, qualche rotazione, a volte l’azione della magistratura. I vertici di Finmeccanica, FonSai, BPM, Monte dei Paschi di Siena, Uva, sono stati arrestati o messi ai domiciliari. L’Uva, un’impresa ai vertici della siderurgia mondiale appartenente alla famiglia di Emilio Riva (1926) è commissariata. Numerose aziende dell’indice FTSE MIB della Borsa Valori di Milano sono indagate per motivi diversi dalla magistratura (Camilla Conti e Maurizio Maggi, Più del mercato poté la procura, «L’Espresso», 5 settembre 2013). Ci sono poi le aziende vendute, centinaia negli ultimi anni, i cui vertici sono stati o saranno sostituiti da dirigenti della nuova proprietà. Un bollettino di guerra, non certo un invito capace di attirare i capitali stranieri: o meglio, come qualcuno dice, un invito a comprare in saldo le nostre aziende migliori.

La copertina di «Times del novembre 2011 riportava l’eloquente titolo The Man Behind the World’s Most Dangerous .

Economy (L’uomo dietro la Più pericolosa economia del mondo), con l’immagine di Silvio BerIusconi. Allora i più discussero del magnate di Arcore: ma dietro il suo volto l’autorevole settimanale americano dipingeva a tinte fosche tutto l’establishment economico italiano. Ci sarebbe da preoccuparsi, e infatti i più responsabili preoccupati lo sono. Il dibattito però è solo sussurrato nelle cene private o negli sfoghi sconsolati tra amici. La tesi preferita dei mass media è che la classe politica, con un comportamento solitario ed egoista, ha sprecato le nostre risorse e sottopone l’economia a una pressione fiscale insostenibile; l’élite burocratica è arretrata, fa fare la fila per gli adempimenti amministrativi agli imprenditori e ai professionisti che appena possono lasciano il paese o vendono il business. Si tratta però di una diagnosi semplicistica. «C’è … una responsabilità che deve assumersi la politica, ma cui non può sottrarsi neppure il settore privato. Continuare a frammentare le proprie imprese per ottenere vantaggi fiscali, per respingere l’apporto di ris.orse manageriali allo scopo di mantenere in famiglia il controllo dell’azienda, per chiudersi in settori protetti è forse un modo per sopravvivere qualche anno, ma alla lunga significa imboccare una strada senza futuro», dice in Mettersi in gioco Carlo De Benedetti (80 anni), uno dei nostri più influenti imprenditori, presidente onorario del Gruppo CIR.

E Severino Salvemini (63 anni), professore dell’Università Bocconi che conosce bene le imprese per i suoi incarichi in vari CDA, in un articolo sul «Corriere della Sera» del 17 ottobre 2013 contesta la tesi deterministica dei (macro) economisti basata sul peso determinante del business environment che circonda l’impresa: «Aziende senza visione, imprenditori e manager smarriti, la non crescita è anche colpa loro». E ancora, Ernesto Galli della Loggia (71 anni), in un editoriale di pochi giorni dopo sempre sul «Corriere della Sera», titola in modo non equivoco: Potere vuoto in un paese fermo: «Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano.

Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese.’ Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti hanno in complesso mostrato di possedere?».

La responsabilità della crisi viene comunemente addebitata alle élite politica e amministrativa, colpevoli di non aver realizzato le riforme. In realtà una serie di riforme economiche sono state realizzate dai governi che si sono succeduti recentemente: le riforme delle pensioni (capro espiatorio dei problemi italiani) Prodi, Dini, Maroni, Fornero; la privatizzazione delle grandi imprese pubbliche e la loro cessione al capitale privato: le autostrade ai Benetton e ai Gavio, i supermercati GS ai Benetton e a Leonardo Del Vecchio, la siderurgia ai Riva, il collocamento in Borsa di ENI, ENEL, Terna e di banche come il Credito italiano e la Banca Commerciale. Il problema economico di Telecom Italia proviene dai tempi della privatizzazione e dall’incapacità dei «capitani coraggiosi» nel gestire al tempo uno dei primi operatori di telecomunicazioni a livello mondiale. Si è poi compiuta la liberalizzazione almeno parziale nei settori trainanti: l’energia, i trasporti ferroviari e marittimi, le telecomunicazioni; la riforma societaria, la scuola (in questo caso forse troppe riforme). La riforma delle riforme è stata la (eccessiva) flessibilizazione del mercato del lavoro, soprattutto quella dei giovani al primo impiego: un tema che appare timidamente nei dibattiti istituzionali e in quelli televisivi, ed è al contrario molto popolare nella pubblica opinione. Il dibattito pubblico è occupato dalle discussioni tra gli economisti (e presunti tali), divisi tra due partiti: quello dell’austerity (o dell’austerity espansiva di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina) e la posizione opposta, sostenuta dal prestigio di Paul Krugman, per un’inversione della politica economica europea e un allentamento dei vincoli del bilancio statale. La tesi che una parte della responsabilità appartiene al ceto economico è considerata poco patriottica, un attacco al morale delle nostre imprese che al contrario hanno bisogno di essere incoraggiate. Evitiamo così la realtà nascondendoci dietro immagini rassicuranti e retoriche: «siamo un paese del talento», «possediamo una cultura innovativa», «proprietari di un patrimonio artistico unico al mondo, altro che petrolio» e via discorrendo, sono le conclusioni stereotipate di ogni articolo o. convegno, ad usum delphini. Purtroppo gli slogan non aiutano le nostre esportazioni, né favoriscono l’innovazione di prodotto o incrementano le dimensioni delle aziende, tantomeno contribuiscono a risolvere il problema della disoccupazione giovanile.

I dati sono indicativi del declino. Tra le Fortune Global 500, le più grandi aziende al mondo per fatturato, le italiane nel 2008 erano dieci e il numero è sceso a otto nel 2013; il mercato dei capitali è asfittico: il.valore totale delle aziende quotate alla Borsa di Milano al 27 dicembre 2013 ammontava a 438 miliardi di euro e le 38 imprese maggiori appartenenti all’indice FfSE MIB contavano per 1’83 per cento del valore totale. Alla stessa data il valore di mercato di Exxon-Mobil e quello di Apple oscillavano rispettivamente intorno a 420 e 490 miliardi di dollari. Dieci anni fa la Borsa milanese era all’undicesimo posto nel mondo con una capitalizzazione di 490 miliardi di euro. Nell’ottobre 2013 la Borsa di Milano era scesa al ventitreesimo posto dopo quelle di Città del Messico, Kuala Lumpur, ]akarta. Dal 2008 a oggi sono uscite dalle quotazioni decine di imprese, tra cui aziende del peso di Benetton e Bulgari. Edison e Parmalat restano formalmente quotate, con una modesta quantità di azioni di flottante. «Il Sole 24 Ore» prevede il delisting di Poltrona Frau dopo l’acquisto da parte degli americani di Haworth. Negli ultimi due anni le matricole a Piazza Affari sono state 19 ma di modeste dimensioni all’Anr, il mercato creato apposta per le piccole aziende. Solo aziende del fashion come Cucinelli, Ferragamo e Moncler sono entrate in Borsa; tuttavia Prada, guidata dalla coppia geniale Miuccia Prada (1948) e Patrizio Bertelli (1946), si è quotata a Hong Kong, imitata da Mossi & Ghisolfi, presidente Vittorio Ghisolfi (1930), un gigante nel campo del PET per il packaging di prodotti alimentari: e quest’ultima quotazione è a oggi congelata in attesa di momenti più favorevoli. Gli investimenti in Ricerca e Sviluppo ci pongono in coda alla classifica dei paesi OCSE. Il sistema bancario è in affanno e numerose banche procedono a operazioni straordinarie perché invitate da Bankitalia a rafforzare il patrimonio; la disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 34 anni è arrivata al 34 per cento! Ci stiamo vendendo perfino la gloria nazionale: le squadre di calcio. Alcuni dei nostri marchi migliori sono acquistati da aziende straniere aggressive, francesi, americane, tedesche: qualche anno fa un magnate russo ha comperato il 95 per cento della Fratelli Gancia, che vanta cinque generazioni di viticoltori; e la AR Industrie Alimentari, primo produttore italiano di pomodori pelati, è stata acquistata dal gruppo Mitsubishi. Ma sono state le acquisizioni nel settore moda e lusso da parte dei gruppi leader francesi a sollevare timori di svendita della nostra economia. A fine settembre 2011 Bernard Arnault con LVHM (Louis Vuitton Moèt Hennessy), che già possedeva Emilio Pucci e Fendi, si è accordato con la proprietà per rilevare i198 percento della società fondata da Sotirio Bulgari nel 1884. Nel luglio 2013 ancora LVHM ha acquisito 1’80 per cento della Loro Piana, i re del cachemire. L’ultimo acquisto di Arnault è la storica pasticceria Cova in via Montenapoleone, nel cuore della moda milanese.

Allo shopping in terra italiana ha partecipato anche un altro francese, François-Henri Pinault e lasua Kering (ieri chiamata PPR – Pinault-Printemps-La Redoute). Dopo aver iniziato l’avventura nel settore del lusso acquisendo la Gucci nel 1991 (prima operava nel retail e nell’immobiliare), Pinault in successione ha conquistato Bottega Veneta e Sergio Rossi. Inoltre, attraverso Gucci, Pinault si è impadronito della Richard-Ginori in crisi, un pezzo di storia della porcellana italiana del Settecento. L’ultima acquisizione è stata la Pomellato, un famoso marchio di gioielleria. La lista delle vendite è lunga e coinvolge molti nomi: in mani straniere è finita la catena Coin, fondata nel 1916 da Vittorio Coin, ora al fondo di private equity BC Partners. Valentino è stata ceduta prima dagli azionisti al fondo di private equity Permira e da questo al Mayhoola for Investments che farebbe capo al sovrano del Qatar. Non siamo riusciti a mantenere la, proprietà italiana della Rinascente, il nome inventato da Gabriele d’Annunzio per il grande magazzino, acquisita dalla thailandese Central Retail Corporation. Sempre i francesi hanno acquistato invece la Parmalat e la Edison. Sono passati pochi anni da quando Banca Nazionale del Lavoro, al termine di una girandola di goffi tentativi di integrazione con il Banco di Napoli e con il Monte dei Paschi (al tempo una banca prospera) fu venduta alla BNP Paribas. Quale compenso per l’uscita dal capitale di Intesa San Paolo, il Crédit Agricole ha ricevuto un gioiello: Cariparma e la controllata FriulAdria.

Queste difficoltà non sono iniziate con la crisi del 2008.

Nonostante la legge idraulica per cui «la grande piena solleva tutte le imbarcazioni», l’Italia è riuscita a partecipare da posizione arretrata al periodo di sviluppo di cui ha goduto il mondo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio della crisi. Per questo l’élite economica non può continuare ad attribuire la causa del declino al contesto e ai famosi «lacci e lacciuoli» che Guido Carli, ex presidente della Confindustria, denunciava nel 1977.

La pubblicazione della mappa 2013 delle Regioni più competitive d’Europa ha provocato una forte impressione.

Lo studio della Commissione VE segnala che la dorsale eco. nomica che collegava Londra alla Lombardia, via Benelux e Baviera, ha cambiato forma. Rispetto alla prima edizione del 2010, l’Indice di competitività regionale è capitanato ora da Utrecht, seguita da Londra, Berkshire-BuckingharnshireOxfordshire e Stoccolma. La Lombardia scivola al posto numero 128. Le regioni del meridione d’Italia occupano le ultime posizioni della classifica. Dice un occasional paper della Banca d’Italia, Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi, del luglio 2013: «Nei confronto internazionale le condizioni dell’attività di impresa in Italia appaiono sfavorevoli. Tutti gli indicatori disponibili pongono l’Italia in posizioni piuttosto arretrate, sia che si basino sulle caratteristiche oggettive della regolamentazione e sulla. sua concreta applicazione (World Bank, 2012), sia che derivino dalle percezioni degli operatori (World Economie Forum, 2012)>>. L’analisi aggiunge altri elementi severi sulla debolezza italiana attribuibili all’élite economica. Innanzitutto il finanziamento delle imprese: «La piccola dimensione delle imprese rappresenta un ostacolo alla raccolta diretta di fondi sul mercato: pesano la scarsa trasparenza della gestione, la bassa propensione ad aprire il capitale all’ingresso di nuovi soci, i volumi necessariamente contenuti degli strumenti finanziari collocabili sul mercato dalle sing<>le aziende, poco adeguati alle esigenze degli investitori istituzionali». E poi c’è la scarsa innovazione. Gli imprenditori quando invocano la competitività perduta rispetto ai paesi con.orrenti (in primis la Germania) sottolineano il nostro maggiore costo del lavoro e, al con tempo, la bassa produttività.

Aggiunge sotto questo riguardo il paper della Banca d’Italia: «A fronte di una spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo solo lievemente inferiore rispetto agli altri principali p<lesi europei, in Italia è molto bassa soprattutto quella dei privati, quindi delle imprese, che è pari allo 0,7 per cent’> del PIL, contro 1’1,2 della media della VE».

Lo scarso orientamento all’innovazione nei prorlottie nei processi produttivi è diventata l’altra faccia dell’immobilismo italiano. L’agenda digitale è uno slogan che si continua ad agitare nella politica e nell’impresa. I programmi e i responsabili non mancano: tuttavia, per dirla con uri termine abusato, difetta l’execution. Le imprese, perfino le piccole e medie, hanno introdotto nelle strutture organizzative nuove figure: su tutti il chief financial officer, per presidiare il rapporto con le banche e gli investitori divenuto cruciale dopo la crisi. Le più grandi hanno trasformato la vecchia direzione legale nel general counsel, responsabile di un’area vitale in un’epoca di crescente regolamentazione. Ma è poco curata l’area del prodotto e sono meno pagati rispetto ai ruoli commerciali quelli che si occupano di ricerca e tecnologia. Modesti gli investimenti in IeT sul PIL: si attestano al4,~ per cento a fronte di una media VE al 6,5 per cento; la ~rmania è al 6,8 per cento, la Francia al 7 per cento, il Regno Unito vola al 9,6 per cento. È quanto emerge dal Rapportv 2014 di Assinform, l’Associazione Italiana per l’lnform~tion Technology .. Mancano i chief digital officer, si sono trascurati, tranne poche eccezioni, gli effetti della diffusione dei tablet e degli smartphone. BigData, la capacità di estrarìe e utilizzare la quantità di enorme di informazioni che si genera nella Rete, è diventato un fattore fondamentale p~r competere, ma nelle aziende italiane questa consapevolezza pare appena affiorare. Nel settembre scorso i giornali hanno riferito che Gianroberto Casaleggio, l’ideologo del Movimento 5 Stelle, ha impressionato gli imprenditori e i manager che affollavano il workshop annuale Ambrosetti a Cernobbio, presentando i concetti base di Internet e «avvertendoli- che esisteva la Rete. Se avesse fatto la stessa presentazione a un gruppo di giovani internauti avrebbe destato ironiche reazioni di déjà-vu, mentre le telecamere all’uscita hanno ripreso partecipanti sorpresi. In fondo Casaleggio (1954) è anche lui parte del mondo di ieri. L’età rimane il filo rosso che seguiamo per trovare una migliore comprensione della difficoltà che attraversa il paese e insieme l’ipotesi di soluzione nel cambio generazionale.

La storia di Gian Mario Rossignolo è un’allegoria, a tinte forti, della crisi speculare dell’impresa e del nostro management. La grande azienda, l’ascesa, il denaro, la crisi, I’insuccesso. La prima parte della sua storia è esemplare, il modello di successo che si racconta nelle università e agli studenti di un master MBA. Nato nel 1930 vicino ad Alessandria in Piemonte, negli anni Settanta diventa un importante dirigente FIAT nel settore automobilistico sino a ricoprire la responsabilità della Lancia, a quei tempi un marchio prestigioso, che il manager ammoderna e valorizza. Esce da FIAT ed entra nel Gruppo Wallenberg della omonima famiglia, storicamente in ottimi rapporti con gli Agnelli. La crisi della Zanussi, che dopo la scomparsa nel 1968 di Lino Zanussi in un incidente aereo in Spagna era entrata nell’orbita svedese, gli offre l’opportunità di gestire uno dei maggiori gruppi industriali italiani. Nel frattempo sviluppa un’impresa personale nel campo della robotica ,e dell’automazione. Sino al 1998 quando succede a Guido Rossi all’inizio della privatizzazione di Telecom Italia. Il «nocciolino- dei grandi imprenditori italiani infatti lo nomina presidente della società. È qui che Rossignolo commette un’imprudenza dichiarando in un’intervista al «Financial Times»: «I am a very powerful executive chairman» (<<lo sono un presidente esecutivo molto potente»). Una dichiarazione che lo seguirà negli anni, ingenua due volte: perché le deleghe sono limitate alle relazioni esterne e all’audit, come d’uso, e perché le telecomunicazioni sono un business particolare che bisogna conoscere, come dimostreranno gli avvenimenti successivi. Dopo pochi mesi è finita, Rossignolo esce con una splendida liquidazione che le cronache favoleggiano ammonti a dieci miliardi di lire, per soli dieci mesi di lavoro.

Riemerge agli onori delle cronache nel 2000 comprando la De Tomaso e pezzi della Pininfarina, la Delphi, un’azienda ex General Motors, mentre non riesce a battere la FIAT nella conquista della Bertone. Nel febbraio 2011 il progetto è dar vita a una macchina di lusso italiana come la De Tomaso Deauville, tuttavia sembrano mancare le condizioni e le risorse necessarie. Rossignolo ottiene un finanziamento del ministero del Lavoro, della Regione Piemonte e della Commissione Europea di venti milioni di euro per corsi di formazione degli operai, con una fideiussione di circa sette milioni risultata falsa. I corsi non si svolgeranno e i soci stranieri non si faranno vedere. L’esito sarà pesante: nell’aprile del 2012 la De Tomaso verrà messa in liquidazione con strascichi giudiziari per il manager-imprenditore e suo figlio, e la minaccia per l’occupazione degli stabilimenti di Grugliasco in Piemonte e di Livorno. Delusione per un manager che conclude, in questo modo, una brillante carriera.

2. LA CRISI HA MODIFICATO LA FOTO OVUNQUE, TRANNE CHE IN ITALIA

«Prendi un po’ di distanza dal quadro in modo che appaia più piccolo, così puoi coglierne a colpo d’occhio una parte maggiore e vedere rapidamente una mancanza di armonia o di proporzione.»

Leonardo da Vinci

L’immagine dei dipendenti di Lehman Brothers che lasciano i loro uffici si è stampata nell’immaginario collettivo come l’inizio della crisi. Era il settembre 2008, la più potente banca d’investimento del mondo aveva chiesto il Chapter 11, l’equivalente del nostro concordato preventivo. La banca era fallita. Da allora il mondo, sbigottito, è entrato in una crisi lunga e penosa che gli esperti accostano alla Depressione del 1929. Per la prima volta le casalinghe, i lavoratori, i piccoli azionisti in ogni paese seguono le news sulla bolla immobiliare americana e imparano termini che vengono ripetuti come un mantra: subprime, libor, spread. I telegiornali riferiscono quotidianamente le notizie della Borsa e il NYSE, la Borsa di New York, è diventato famigliare al grande pubblico. Enrico Mentana chiude il Tg di La7 con l’andamento del NASDAQ, l’indice dei principali titoli tecnologici della Borsa americana. Gli attori dei mercati finanziari e i manager ‘sono stati messi sotto accusa. ‘È la fine di un’epoca e gli onnipotenti banchieri, sino al giorno prima pagati sontuosamente, lasciano malinconici l’edificio trasportando una scatola di cartone in cui hanno raccolto quanto rimane, cioè niente. Il film Margin Call racconta nell’arco di una notte la fragilità degli individui, tutti maschi salvo una dura Demi Moore, e dei sistemi di controllo delle imprese finanziarie, che solo in apparenza dominano gli algoritmi di investimento. Nel film i banchieri decidono di inondare il mercato dei titoli tossici in portafoglio, ormai privi di valore. Jeremy lrons, nella realtà Richard S. Fuld, chief executive officer di Lehman, rivela la qualità essenziale del dirigente e, al contempo, ammette la propria impotenza: «Sai perché mi pagano tanto?» chiede a un giovane analista. «Per prevedere che cosa accadrà domani. E adesso non vedo niente!» Oggi il ciclo appare cambiato: gli Stati Uniti, svalutando il dollaro e azzerando il costo del denaro, hanno ripreso a crescere. Le banche americane così come quelle inglesi, svizzere, francesi, si sono rinforzate e sono più grandi di prima. La Ceneral Motors è tornata in salute piazzandosi davanti a Toyota, il competitor tradizionale, e uscendo dal controllo del governo americano. Molti dei protagonisti dell’epoca hanno cambiato mestiere, si sono ritirati, magari impiegano il tempo giocando a golf e scrivendo memorie ben remunerate, ma pochi hanno ripreso le redini di un’azienda. Nella maggior parte dei casi sono saliti alla ribalta nuovi manager, le avanguardie di una classe dirigente rinnovata. Certo, la dimensione del mercato del lavoro manageriale non è comparabile: dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall’Australia, le persone sono abituate a spostarsi nel mondo. Sono ben accetti nei paesi emergenti o nella penisola arabica, Dubai, Abu Dhabi, Qatar. Il mercato per gli executives è globale, e gli individui si sono plasmati per competervi. E comunque, un manager inglese o americano può imboccare una strada alternativa: entrare in un consiglio di amministrazione dove può rivendere la propria esperienza. In Italia la situazione è diversa: qui non tutti hanno perduto il posto, anzi. Molti leader della nostra economia sono gli stessi del periodo precrisi. I vertici di Banca Intesa, Mediobanca, Poste, Ferrovie, EN1, ENEL, Cassa depositi e prestiti, Terna, fondazioni bancarie, municipalizzate, organizzazioni datoriali e dei lavoratori, non sono cambiati, così come non sono cambiati i professori che si siedono nei consigli d’amministrazione, e la lista potrebbe continuare. In alcuni casi le poltrone sembrano saltare, ma in realtà vengono soltanto scambiate. Una storia paradigmatica è il movimento dei banchieri bolognesi nelle sale del sistema. La raccontiamo, premettendo che la vicenda è intricata e bisogna munirsi di pazienza nel seguirla. A Bologna, all’inizio del 2013 appaiono sui giornali le prime indiscrezioni i su una manovra relativa alle cariche negli istituti bancari ci ttadini. Indiscrezioni confermate dai fatti: le assemblee dei soci approveranno puntualmente le nomine in primavera. Il risultato non sembra un terremoto. Fabio Roversi Monaco, 75 anni, già rettore dell’Università di Bologna per quindici anni, lascia la presidenza della Fondazione Carisbo, ruolo ricoperto dal 2000, e mantenendo le deleghe museali viene nominato presidente di Banca 1M1 del Cruppo Intesa-San Paolo. A settembre 2013 lascia il suo posto nel CDA di Mediobanca a Giorgio Guazzaloca, ex sindaco bolognese. Alla presidenza della fondazione gli subentra Leone Sibani, 76 anni, già segretario generale della Fondazione Carisbo dal 1991 al 1998 e consigliere di San Paolo IMI. Gianguido Sacchi Morsiani, avvocato già membro del Consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo, 79 anni, viene nominato dallo stesso Consiglio presidente di Banca Carisbo, carica che aveva ricoperto dal 1980 al 2004, e prende il posto di Filippo Sassoli de Bianchi (78 anni), già vicepresidente della Fondazione Carisbo. Una storia più vicina al famoso articolo (un falso) del regolamento della Real Marina delle Due Sicilie che alla corporate governance: «All’ordine facite .ammuina, tutti coloro che stanno a prua vadano a poppa e quelli a poppa vadano a prua; quelli a dritta vadano a sinistra e quelli a sinistra vadano a dritta; tutti quelli sotto coperta salgano sul ponte, e quelli sul ponte scendano sottocoperta, passando tutti per lo stesso boccaporto; chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là».

il mondo occidentale sta invecchiando I paesi occidentali continuano a godere di tre vantaggi straordinari: il costante miglioramento delle condizioni di vita, dell’alimentazione e delle cure mediche. Il risultato sul piano demografico è l’innalzamento delle aspettative di vita. L’1STAT prevede che nel 2030 la popolazione italiana sarà ancora più anziana per effetto della concomitante diminuzione del tasso di natalità: la classe sopra i 65 anni salirà dal 19,5 per cento al 27 per cento della popolazione complessiva. Per questo gli anziani sopra i 65 anni saranno uno ogni quattro individui, e gli over 85 saranno uno ogni venti individui. I trend demografici al 2050 sono ancora più significativi e confermano che il fenomeno continuerà a crescere. La vita media per gli uomini crescerà da 77,4 del 2011 a 83,6 anni mentre le donne passeranno da 83,3 a 85,3 anni. Si spiega così perché la statistica demografica negli ultimi anni sia diventata un tema ossessivo per i governi. L’impatto dell’invecchiamento sui costi del welfare, e di riflesso sui conti della finanza pubblica, è tale da mettere a rischio i benefici che i cittadini europei, e in parte quelli americani, hanno conquistato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il regista Ken Loach ne ha tratto un bel film documentario, The Spirit oJ ’45, in cui si afferma che la passata generazione inglese si è battuta per una maggiore solidarietà e per il Welfare State. In questi anni in Europa è diventata prioritaria l’esigenza di ridurre il peso dei costi pensionistici di una popolazione con una percentuale crescente di over sessantaquattrenni. Minore attenzione è stata dedicata invece a tre ordini di preoccupazioni legate all’altra faccia.

del fenomeno: la disuguaglianza provocata dalla concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di un’élite anziana in grado di assicurarsi buone condizioni di vita e di salute; la marginalizzazione dei giovani causata dalle politiche di austerity, decise «generosamente» per evitare il debito alle generazioni successive, ché accrescono la difficoltà a entrare nel sistema produttivo ora che gli anziani ne escono con un ritmo inferiore al passato e a fronte di un trend di basso sviluppo economico; la stagnazione culturale che rispecchia i valori del gruppo anziano dominante, tendente a privilegiare lo status quo rispetto a investimenti in educazione, in tecnologie e nuovi modelli sociali.

Anche negli Stati Uniti troviamo esempi di ottuagenari tra gli imprenditori e, in misura minore, fra i manager. Tra i vertici delle aziende nella classifica della rivista «Fortune» compaiono numerosi gli over settantenni: nomi famosi come Warren Buffett, 83 anni, a capo di Berkshire Hathaway, noto come l’oracolo di Omaha dalla sua città di residenza, IIn uomo sulle cui decisioni si orientano i mercati finanziari; Rupert Murdoch, il magnate dei media, chairman di News Corporation e proprietario di Sky, anche lui 83 anni.

David H. Murdock a capo della Dole Food, il più grande produttore mondiale di frutta e verdura fresche, è salito alla ribalta delle cronache finanziarie: all’ età di 90 anni ha riacquistato le azioni della sua creatura sulla Borsa di New York per evitare i vincoli di una società quotata. Nutre il progetto di vivere sino a 125 anni, e per questo sostiene una serie di centri di ricerca sulle biotecnologie e sul modo di prevenire le malattie e allungare la vita.

Tuttavia per raccogliere storie di centenari non c’è bisogno di andare in America: dalle nostre parti lo scomparso Umberto Scapagnini, medico personale di Silvio Berlusconi, prevedeva una vita di almeno 100 anni per l’illustre assistito. In Italia abbiamo molti esempi di over ottuagenari al comandò della loro impresa. Alcuni sono in ottime condizioni fisiche, altri com’è naturale un po’ malconci: qualcuno porta l’apparecchio acustico, alcuni hanno problemi fisici più gravi. Incontrai dopo un lungo periodo un noto cliente, da oltre quarant’anni capo azienda, e dopo aver ricordato le cose che avevamo imparato insieme, mi confessò rassegnato: «Sa, ho fatto il terzo bypass». Gli raccomandai prudenza, ma capii che mi ascoltava distratto. Stava già pensando all’appuntamento successivo. Era in ritardo, doveva correre all’aeroporto e prendere un volo per Roma. E così, la ruota gira veloce, non si può rallentare il ritmo, si può solo decidere di uscire. Gli incarichi si succedono a ondate: l’effetto superstar è parte del problema, se sei noto ti chiedono di partecipare a consigli, convegni, comitati, intraprese. Successo chiama successo. Un gruppo sempre più piccolo di persone ricopre una molteplicità di incarichi il cui numero tende a salire, mentre un numero crescente di persone è disoccupato. Uno scenario minaccioso sembra incombere sulla società italiana (è non solo). Il trend è caratterizzato da una miscela negativa fatta da gerontocrazia, oligarchia e plutocrazia. Un’esagerazione che abbiamo attinto dalla visione di Richard K Morgan, un famoso scrittore di fantascienza. Nel romanzo Business, della saga di Takeshi Kovacs, una ricca élite governa un mondo collocato nel xxv secolo. I suoi esponenti, i Meths (dal Matusalemme della Bibbia), costituiscono una minoranza che possiede una tecnologia che li rende immortali e sono dotati della capacità di acquisire e trasferire le conoscenze possedute dall’umanità. Forse è solo la fantasia di un romanziere, eppure esistono i sintomi preoccupanti di un conflitto generazionale tra i vecchi ricchi e i giovani poveri, di intensità superiore al passato, diverso dai conflitti tradizionali: nord-sud, maschifemmine, città-campagna. In Germania, la fondazione Bertelsmann ha dedicato particolare attenzione al tema dell’ingiustizia generazionale valutandolo cruciale per il futuro della società occidentale. Il Rapporto 2013 della fondazione afferma che «la crescita della popolazione anziana ha rafforzato l’influenza di un elettorato anziano che direttamente o indirettamente mira all’espansione nella domanda di risorse legate alla vecchiaia e possibilmente anche a una minore pressione per una spesa orientata alle generazioni giovani» (Bertelsmann Stiftung, Index de justice Intergénératumelle, classement de 29 pays de L’OECD, 2013). La fondazione ha messo a punto un indice denominato Intergenertuional justice Index (rjr) capace di misurare e confrontare il lasso di giustizia tra le generazioni delle politiche adottate dai ventinove paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Nello studio del 2013 il nostro paese occupa la terzultima posizione e non ci rassi.ura la prossimità con paesi quali il Giappone e gli Stati Uniti, nazioni dove le ineguaglianze sono trend stridenti e da molti denunciati.

 

Un tetto all’età lavorativa? L’età attiva ha confini difficili da stabilire. Dall’enigma della Sfinge in poi la vita degli individui viene divisa in tre stagioni: l’infanzia, la maturità e la terza età. Oggi queste tre fasi hanno perso i loro confini precisi e con l’allungamento della vita, la terza età si fa iniziare per convenzione intorno ai 70 e la soglia vera e propria si è spostata agli 80 anni. Ma l’età anagrafica non coincide con quella fisica e psicologica. Gli stessi geriatri hanno difficoltà a stabilire una netta frontiera: il patrimonio genetico individuale, le condizioni culturali, la professione rendono relative le diagnosi. Tutti concordano che lo sport, per esempio il Calcio, richieda gioventù: i giocatori sono naturalmente giovani e anche tra gli allenatori pochi occupano la scena sino in età anziana. Alex Ferguson, allenatore del Manchester United da:l1986, raggiunti i 71 anni si è ritirato come aveva annunciato al termine della stagione 2013, dopo aver vinto tutto ciò che un allenatore può desiderare. Gli scienziati invece sono longevi, hanno una vita intellettuale prolungata, oltre il limite amministrativo delle nostre università, dove si va o si dovrebbe andare in pensione a 70 anni. Renato Dulbecco è scomparso a 98 anni, Margherita Hack a 91, Rita Levi Montalcini a 103. Sulla vecchiaia troviamo riflessioni simmetriche. Norberto Bobbio, il grande filosofo del diritto scomparso alla veneranda età di 95 anni, scrive nel suo De senectute: «Mentre il mondo del futuro è aperto all’immaginazione, e non ti appartiene più, il mondo del passato è quello in cui attraverso la rimembranza ti rifugi in te stesso, ritorni in te stesso, ricostruisci la tua identità, che si è venuta formando e rivelando nella ininterrotta serie dei tuoi atti di vita, concatenati gli uni con gli altri, ti giudichi, ti assolvi, ti condanni, puoi anche tentare, quando il corso della vita sta per essere consumato, di fare il bilancio finale». Al contrario Rita Levi Montalcini sottolineava che Bobbio, pur grande pensatore, era stato un pessimista sin da giovane (erano nati nello stesso anno, il 1909) e che il cervello umano, se invecchiando perde alcune prerogative, le sostituisce con altre che in parte compensano e superano quelle perdute. La vecchiaia si rivela insomma uno stato psicologico e un costrutto culturale le cui caratteristiche variano nel tempo, nello spazio e nei singoli individui. Senza ripercorrere le concezioni che hanno dominato dall’antichità, basti ricordare che nel medioevo la vecchiaia era apprezzata per le doti di conoscenza e saggezza che garantiva; il rinascimento, cosi come la modernità in Occidente, ha esaltato invece la gioventù associata alla forma fisica. Un esempio di come possono cambiare gli orientamenti sull’età è rappresentato dal mondo della musica. I direttori d’orchestra, la figura che incarna l’immagine del potere, la più vicina al manager, hanno una tradizione di longevità. Herbert von Karajan ha continuato a condurre i Berliner Philharmoniker sino al 1989, anno della morte, a 81 anni; Lorin Maazel è ultraottantenne. Georges Prètre, prossimo ai 90 anni, continua a dirigere brillantemente. Oggi siamo di fronte a una «rivoluzione sul podio». Un giovane di 27 anni, Lionel Bringuier, è diventato il direttore stabile del Ziirich Tonhalle, un’orchestra ricca e famosa. Bringuier è stato assistente di Esa-Pekka Salonen che a soli 34 anni fu chiamato a dirigere la Los Angeles Philharmonic Orchestra. Glyndebourne, l’evento musicale e mondano più famoso del Regno Unito, ha trovato un nuovo riferimento nel ventinovenne Robin Ticciati. E che dire di Franz Welser-Mòst che a 29 anni andò a dirigere la London Syrnphony Orchestra per poi passare a Cleveland e oggi dirige anche la. Wiener Staatsoper? Nel 2011 la Fenice a Venezia nomina Diego Matheuz, giovanissimo conduttore venezuelano, pupillo di Claudio Abbado. A giudicare dalle acquisizioni scientifiche più recenti, le preferenze espresse ultimamente dai teatri d’opera internazionali sono giustificate. La professoressa Archana Singh-Manoux e un’équipe internazionale di scienziati hanno condotto una ricerca per conto dell’University College di Londra dimostrando che il declino della mente iniia a 45 anni. I ricercatori hanno testato per dieci anni, dal 1997 al 2007, le funzioni cognitive di 5198 uomini e 2192 donne, per un totale di settemila persone, tra i 45 e i 70 anni. Analizzando le loro capacità a livello di memoria, ragionamento, lessico e comprensione visiva e uditiva, hanno scoperto che la funzionalità del cervello inizia ad abbassarsi intorno ai 45 anni. Le ricerche precedenti sostenevano che il declino delle abilità cognitive cominciasse dai sessanta. Il maggior deterioramento si è manifestato nelle capacità del ragionamento e della memoria, del 9,6 per cento negli uomini tra i 65 e i 70 anni e del 7,4 per cento nelle donne della stessa età. Il declino invece non si verifica nella competenza comunicazionale, confermando la comune esperienza di anziani che si esprimono con ricchezza di vocabolario e fluidità di eloquio.

Naturalmente è illusorio pensare che le persone vogliano, rinunciare spontaneamente, spinte da una ricerca scientifica, a visibilità, vantaggi economici e alla possibilità di occupare piacevolmente il loro tempo. Nel nostro paese gli over 60 occupano le posizioni stabili (meglio dire inamovibili) migliori per remunerazione e influenza, in tutti i campi.

Nel mondo anglosassone superati i 60 anni si va in pensione: meglio, i manager mettono la propria esperienza al servizio dei CDA che sulla piazza di Londra abbondano, e sono preferiti rispetto ai professori universitari. Ci si dedica all’insegnamento o alle organizzazioni benefiche, le charity.

Una delle più reputate consulenti nella City di Londra, al termine della carriera è diventata deputy chairman della Royal National Lifeboat Institution, una storica organizzazione la cui missione è salvare le vite lungo le coste delle isole britanniche e vanta il salvataggio di 140.000 persone dal 1824. Conferma la capacità inglese di saper uscire di scena il giornalista Beppe Severgnini, acuto conoscitore della cultura british (e non solo): «L’uscita per essere elegante deve essere spontanea: mai aspettare di essere accompagnati alla porta. Gli inglesi in certe cose sono fissati, dicono: Quit while you’re ahead, lascia quando stai davanti».

Nel mondo economico, gli statuti e le prassi delle aziende, in misura crescente, prevedono che oltre i 70 le persone non dovrebbero ricoprire responsabilità di gestione. Gli elementi a favore di questa soglia prudente sono numerosi.

Una recente evidenza ci viene dallo studio dell’AIDAF (l’Associazione Italiana delle Aziende Familiari), Unicredit e Bocconi, guidato dal professor Guido Corbetta (53 anni). I dati, una conferma di quanto già emerso nelle edizioni precedenti, indicano che: «Analizzando la relazione tra età del leader e risultati conseguiti dall’azienda si assiste a un sensibile peggioramento della performance a partire dai 60 anni, e in modo particolare oltre i 70». Una soglia poco rispettata nella nostra Corporate Italia, non solo tra gli imprenditori e manager, ma anche tra avvocati, consulenti, professori che sostengono le aziende e fanno parte dei consigli di amministrazione.

3. GERONTOCRAZIA, IL GOVERNO DEGLI ANZIANI

«Il mondo dei vecchi, di tutti i vecchi, è, in modo più o meno intenso, il mondo della memoria. [ … ] La dimensione in cui vive il vecchio è il passato. Il tempo del futuro è per lui troppo breve perché si dia pensiero di quello che accadrà.»

Norberto Bobbio

Il primo a utilizzare il termine gerontocrazia in epoca moderna fu un politico ginevrino, JeanJames Fazy, vicino al nostro Giuseppe Mazzini, che nel 1828 scrisse un pamphlet dal titolo emblematico: De la Gerontocratie, ou abus de la sagesse des vieillards dans le gouvernement de la France. Fazy condannava per le sue posizioni conservatrici la classe rivoluzionaria del 1789 salita poi al potere. Scriveva: «Che straordinario istinto di dominazione muove dunque la turbolenta generazione dell’89. Essa ha cominciato con l’interdire i propri padri, e finisce con il diseredare i propri figli. Il risultato è una Francia concentrata e rimpicciolita in sette-ottomila individui “eleggibili”, ma asmatici, gottosi, paralitici, arteriosclerotici».

Recita la Treccani: «Gerontocrazìa. Sistema politico fondato su una forma di governo oligarchica in cui il potere è detenuto da persone anziane». In senso lato, il termine indica una struttura gerarchica che vive con uno scarso ricambio generazionale ai vertici e la perpetuazione dei ruoli, di pertinenza esclusiva dei medesimi soggetti fino all’età avanzata.

Gli antichi greci furono i primi a credere nella bontà della formula, sintetizzata nella Repubblica di Platone: «E proprio dell’uomo anziano governare e del giovane ubbidire». Un esempio lo troviamo a Sparta dove, racconta Plutarco, governava la gerousìa – da (géron), vecchio – i cui membri avevano almeno 60 anni (per l’epoca un’età venerabile) e ricoprivano il ruolo per l’intero corso della vita.

La storia ci offre numerosi esempi di leadership fondata sugli individui ‘più anziani: le società agricole, i modelli dittatoriali (l’URSS, la Cuba di Castro), le strutture religiose.

La vecchiaia ha sempre attirato la riflessione di filosofi, scrittori, religiosi. Galeno, Bacone, Tolstoj ne hanno rappresentato la memoria e la saggezza; filosofi ne hanno elogiato il valore positivo. Dai ricordi liceali emerge Marco Tullio Cicerone che sul tema ha lasciato un’opera esemplare: Cato maior de senectute (Catone il Vecchio, sulla vecchiaia), scritta mentre era sessantenne e con un destino ormai segnato: Antonio non gli perdonerà l’attacco contenuto nelle Filippiche e ne ordinerà l’uccisione. Nel suo abile argomentare, Cicerone fa esprimere a Catone (84 anni, lui sì vecchio per l’epoca!) un’ analogia famosa sul valore e il ruolo dell’anziano. «Non ha alcun senso dire che la vecchiaia esclude dalla vita attiva. È come sostenere che durante la navigazione il timoniere non fa nulla: mentre gli altri corrono sugli alberi, corrono per le corsie, svuotano la sentina lui, con la barra in mano, se ne sta seduto a poppa». Secondo questa classica visione, al declino delle forze fisiche si accompagna la crescita dell’esperienza, la quale permette agli anziani di farei da guida. In realtà, tutto dipende dal contesto. Se ci troviamo nella campagna sarda e vogliamo orientarci, riconoscere un innesto di un pero selvatico o cuocere un maialino sotto la terra, ci conviene cercare l’aiuto di un anziano pastore. Se invece abbiamo l’obiettivo di diffondere un messaggio nell’etere utilizzando le nuove tecnologie, è meglio evitare di darei un’aria giovanile fingendo di cinguettare su Twitter, vantando un improbabile numero di followers, e più realisticamente ci conviene chiedere i servizi di giovani esperti. Ai fini della nostra analisi, assumiamo una regola sommaria: laddove gli ambienti rimangono tendenzialmente stabili,l’esperienza avvantaggia gli individui anziani. Quando i cambiamenti politici, sociali, economici, climatici e il progredire della scienza assumono velocità mai conosciute, l’esperienza diventa un fardello che ostacola il cammino. Addirittura si può tramutare in un fattore impediente, in particolare se il gruppo al comando tende a diventare a-meritocratico e a basso ricambio. E se i nostri imprenditori e dirigenti si svegliassero scoprendo un mondo che non capiscono più? Beninteso, come abbiamo ricordato il concetto di anziano si va spostando per effetto dell’innalzamento della speranza di vita. Ma oltre i 70 anni sarebbe saggio riflettere e considerare l’opportunità di non ricoprire più responsabilità di gestione. Uno dei casi più 1I0ti di longevità direzionale è quello di Enrico Bondi. Una figura autorevole, nato ad Arezzo nel 1934, è identificato con l’immagine del tagliato re di costi; a lui sono stati dati vari appellativi: «l’uomo con la scure», «Mr, Forbici», «il custode della spending review». Bandi si è costruito questa reputazione ricoprendo per larga parte della vita il ruolo di amministratore delegato di aziende in gravi difficoltà economiche o di commissario di aziende in amministrazione ontrollata. La storia, raccontano le cronache, nasce nella SNIA e poi in Gilardini, società del gruppo FIAT portata in dote dall’avventura di Carlo De Benedetti a Torino a metà degli anni Settanta. Cesare Romiti mette Bondi in contatto con un altro Enrico: Cuccia, il patron di Mediobanca, altrettanto schivo e riservato, che gli affida un’azienda in condizioni difficili, la Torviscosa, dove il giovane dirigente ha modo di mettersi in luce e farsi apprezzare come uomo dalle missioni difficili. Perciò nel 1993 il banchiere lo chiama per gestire il disastro Compart Montedison lasciato dal crack Ferruzzi. Il portafoglio del gruppo nei business alimentari era di straordinario valore e vantava una leadership a livello europeo: zucchero, mais, soia, semi oleosi, mangimi, a cui si aggiungevano gioielli di redditività quali Tecnimont (ingegneria), Ausimont (chimica), Edison (elettricità), Fondiaria (assicurazioni). Il gruppo viene in una prima fase salvato dall’opera del manager aretino: poi però è smembrato e venduto in seguito alla scalata della finanza FIAT alleata ai francesi di EDF, il gigante dell’elettricità per la conquista di Edison. In un periodo successivo Bondi fa esperienze brevi in Telecom Italia all’epoca Marco Tronchetti Provera (2001), nella Premafin dei Ligresti (2002), nel Gruppo siderurgico Lucchini, fino a essere nominato, nel 2003, commissario della Parmalat di Calisto Tanzi travolta dallo scandalo. Successivamente alla positiva ristrutturazione del perimetro territoriale, della gamma dei prodotti e al negoziato vincente con le banche, è nominato amministratore delegato dell’azienda riammessa alla Borsa di Milano. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo sa che il manager possiede doti intellettuali superiori, capacità negoziali, carisma nei rapporti interpersonali. Il segreto del Bondi risanatore, un segreto mai rivelato in pubblico, risiede probabilmente nell’esperienza cristallizzata in protocolli di lavoro e nella squadra che lo accompagna. L’avventura in Parmalat dura fino al 28 giugno 2011, quando i francesi di Lactalis vengono allettati dallo splendido marchio, da una PiPeline di ottimi prodotti, uniti a una liquidità ancora più interessante di 1,4 miliardi di euro: è il frutto delle azioni risarcitorie, che giace pigramente nelle casse della società. Lanciano una facile OPA (dove sono i cavalieri bianchi italiani?), acquisiscono l’azienda e cambiano il management! Enrico Bondi era rimasto al vertice per otto anni, fermo sulle scelte attinenti a investimenti per affrontare il futuro, acquisizioni, passaggio di consegne a u~ management più giovane, nonostante il mutamento dell’azienda che aveva risanato. Forse Bondi dice il vero quando si schermisce sostenendo che non è un esperto di questioni economiche: lavora con le persone e le abbina al tema gestionale del singolo business. Terminato il ruolo attivo e ricevuto un rispettabile compenso per i servizi resi (si dice 30 milioni da condividere con la sua squadra per il compito di commissario), un bravo manager si potrebbe avviare a coltivare le proprie passioni: ascoltare musica e gestire la tenuta vicino ad Arezzo dove produce olio e vino. Invece il destino si ripete. Il 30 aprile 2012 Bondi viene nominato commissario alla Revisione della spesa pubblica dello Stato dal governo Monti, carica a cui rinuncia il 7 gennaio 2013 per assumere il ruolo di supervisore delle liste elettorali del movimento di Scelta Civica. Dopo essere stato chiamato al ruolo di amministratore delegato di ILVA dalla famiglia Riva, a giugno 2013 diventa commissario governativo dello stesso gruppo con un decreto del governo Letta. Scadenza dell’incarico: giugno 2016, quando il commissario avrà la rispettabile età di 82 anni.

38 Nessuno mette in dubbio la capacità di Bondi. Ma è impossibile non leggere nella sua storia il ripetersi di una costante molto italiana: la fede nell’uomo del destino. Talvolta ci sarà bisogno di un grande chirurgo, non sempre. Le imprese sono organismi che preferiscono nel lungo termine équipe affiatate, lavoro di gruppo, investimento sul futuro: giochi organizzativi dove noi italiani risultiamo nella media poco forti. Colpisce la pigrizia con cui si torna a proporre ogni volta lo stesso personaggio a prescindere dal variare dei contesti, senza nemmeno immaginare l’apporto di forze più fresche.

l padroni del vapore

Ernesto Rossi, antifascista, dirigente del movimento politico Giustizia e Libertà e pubblicista, fu anche un’importante figura di manager pubblico e giocò un ruolo decisivo insieme ad Altiero Spinelli durante il periodo della ricostruzione, gestendo il Piano Marshall e la vendita dell’ enorme massa di residuati bellici lasciati dagli alleati nel nostro paese. Nel suo libro I padroni del vapore, Rossi ha lasciato una lucida analisi sulla tendenza della borghesia imprenditoriale italiana ad appoggiare il potere politico del momento, in quel caso il fascismo, salvo metterlo tardivamente in discussione e declinare la responsabilità di questa scelta. Così rappresentava la classe dirigente economica: «I nostri baroni hanno almeno una virtù: la modestia. Preferiscono la parte del regista a quella dell’attore. Preferiscono che la gente resti nella convinzione che la macchina dello Stato è veramente guidata dal governo, sotto il controllo del parlamento, e continui a credere che le grandi società siano gestite dai consigli di amministrazione, scelti dagli azionisti».

Oggi quanti sono i «padroni» e quanti «vapori» abbiamo? Non molti, purtroppo, perché il declino in atto sta portando al ridursi delle imprese importanti e allo speculare estinguersi dei ruoli di comando. La riduzione ha un impatto sulla business community che vive intorno all’impresa italiana, e che con essa prospera o si impoverisce. Una delle conseguenze della vendita dei nostri marchi a mani estere, oltre al rischio dello spostamento dei siti produttivi, è l’accentramento delle tecnostrutture e delle funzioni di supporto nel quartier generale degli acquirenti. La concentrazione del settore bancario, i patti di sindacato, il grado di controllo dell’economia pubblica, l’assenza di public companies tra le aziende quotate, un’economia stagnante, sono tutti elementi che hanno favorito la concentrazione del potere in poche mani. In compenso il potere è diventato più visibile.

Il ruolo crescente della finanza nell’economia, il bisogno delle imprese di comunicare con il pubblico, l’esplosione dei social media hanno favorito la trasparenza e reso popolari personaggi e storie che pochi anni fa sarebbero stati protetti dalla riservatezza. Così è possibile analizzare gli esponenti del potere basandoci su dati e fonti ufficiali: i documenti dei siti aziendali, studi e ricerche, la pubblicistica.

Chi comanda nelle prime venti banche italiane? E nelle prime ottanta aziende quotate? Chi è a capo delle grandi aziende famigliari? E chi delle ‘aziende pubbliche? Quali biografie troviamo nelle organizzazioni dei sindacati dei lavoratori, degli imprenditori e dirigenti? Infine, quali figure confortano e indirizzano a livello professionale le scelte e la gestione (avvocati, fiscalisti, consulenti, cacciatori di teste)? Il risultato della disamina è che in Italia ci sono circa 400 persone che hanno il potere per influenzare le questioni economiche e politiche italiane: possono indirizzare le decisioni strategiche. E il perimetro di un’oligarchia in cui è alto il grado di conoscenza interpersonale: le persone hanno luoghi, occasioni di business e sociali per frequentarsi.

Generalmente si danno del tu e gli incontri seguono un calendario ben preciso: il Meeting Ambrosetti a Cernobbio, la Relazione del Governatore della Banca d’Italia, l’Assemblea della Confindustria, le riunioni dell’Aspen Institute, il World Economie Forum a Davos in Svizzera, qualche apparizione a Capri per il convegno dei Giovani Imprenditori, il Meeting di Rimini. L’analisi delle 400 biografie facilita la conoscenza dell’élite economica: l’età media, il genere, l’area geografica di nascita, le competenze possedute, gli incarichi ricoperti da ciascun individuo. Ho escluso dal perimetro dell’analisi i vertici delle multinazionali e in generale delle aziende straniere perché i loro comportamenti sono guidati da logiche e modelli culturali differenti. Infatti la durata della loro vita attiva sarà regolata dalle politiche, restrittive, della casa madre e del network di appartenenza.

Naturalmente la Corporate Italia si mescola e interagisce con gli attori della business community più ampia.

L’età media è di 65,84 anni, ben superiore all’età media di 43,5 della popolazione adulta italiana. Il calcolo dell’età mediana, eliminando le code estreme più giovani e più anziane della distribuzione, porta a un numero non dissimile, 65 anni, segno di una relativa omogeneità. Persino, la politica è più giovane dell’é1ite economica. Il premier, Matteo Renzi, ha 39 anni, il capo del Nuovo Centrodestra, Angelino Alfano, 43, il segretario della Lega, Matteo Salvini, 40, l’ex premier Enrico Letta, 47. I CEO delle aziende Fortune, le più grandi del pianeta, nel 2013 avevano un’età media di 55 anni. Nello stesso anno le aziende più importanti della Borsa di Londra (le FfSE 250) dichiaravano per i loro CEO un’età media di 52 anni. In linea con i nostri dati, lo studio annuale sulla governance di Assonime – Emittenti Titoli 2013 conferma che gli amministratori esecutivi, quelli con deleghe per la gestione, delle aziende quotate italiane hanno un’età media di 59 anni e sono più anziani degli omologhi di altri mercati.

Le generazioni Un modo pratico di leggere gli orientamenti degli individui che formano la Corporate Italia è quello di classificarli secondo le generazioni attive di appartenenza. La generazione connota un gruppo di individui di età simile e i cui membri hanno sperimentato un evento storico importante entro un periodo di tempo definito, normalmente ventiventicinque anni. Significativo nel nostro caso che non siano visibili esponenti della generazione Y (nati cioè dopo il 1981). Ricostruiamo il succedersi delle tre generazioni presenti nella Corporate Italia adattando la famosa classificazione di William Strauss e Neil Howe: la Generazione dei Fondatori, i Baby Boom, la Generazione X, citando di ognuna solo alcuni rappresentanti.

• Esponenti della Generazione dei Fondatori; 1925-1945 È la generazione di coloro che hanno attraversato la seconda guerra mondiale; le icone sono la radio, la moto, il jazz, Frank Sinatra; il film di riferimento è Via col vento; si è formata sul lavoro con una forte propensione al risparmio e all’accumulazione per il lungo termine; ha sperimentato la guerra fredda e il blocco ideologico; è caratterizzata da stile direttivo e animata da un forte senso etico del lavoro.

Guido Rossi, 1931, avvocato e dirigente d’impresa.

Sandro Buzzi, 1933, imprenditore, presidente di Buzzi-Unicem.

Remo Checconi, 1933, dirigente del mondo cooperativo, presidente di Coop Liguria.

Giorgio Armani, 1934, stilista e imprenditore.

Benito Benedini, 1934, dirigente e imprenditore, presidente di Fondazione Fiera e del Sole 24 Ore.

Suor Giuliana Galli, 1935, vicepresidente della Compagnia San Paolo di Torino.

Marco Vitale, 1935, economista e amministratore, Vitali & Associati.

Gian Marco Moratti, 1936, imprenditore, presidente della Saras.

Giovanni Rana, 1937, imprenditore, presidente di Rana Pastificio.

Sergio Erede, 1940, avvocato e amministratore, fondatore dello studio Bonelli Erede Pappalardo.

Angelo Provasoli, 1942, accademico e dirigente d’impresa, presidente di RCS.

• Esponenti della Generazione Baby Boom, 1946-1964 Questa generazione è il risultato dell’incremento demografico del dopoguerra; le nuove icone sono la televisione, la radio a transistor, l’automobile; il film di riferimento è Easy Rider, ha avuto una formazione universitaria; dirige senza autoritarismo; è rispettosa dei valori esistenti come la famiglia, la società, il lavoro.

Marco Drago, 1946, imprenditore, presidente di De Agostini.

Luca Cordero di Montezemolo, 1947, imprenditore, presidente della Ferrari.

Michele Carpinelli, 1948, seni or partner dello Studio legale Chiomenti.

Gianfelice Rocca, 1948, imprenditore, presidente di Assolombarda e Techint.

Raffaele Bonanni, 1949, sindacalista; segretario generale della CISL.

Francesco Gianni, avvocato, 1951, fondatore di Gianni Orrigoni & Grippo Cappelli.

Antonio Patuelli, 1951, banchiere e politico, presidente dell’ABI.

Diego Della Valle, 1953, imprenditore, presidente di Tod’s.

Luigi Consiglio, 1955, consulente, presidente di GEA.

Renzo Rosso, 1955, stilista e imprenditore, presidente di Diesel.

Guido Tabellini, 1956, accademico e amministratore.

Paolo Basilico,,1957, banchiere, presidente di Kairos.

Bernhard Scholz, 1957, consulente e manager, presidente della Compagnia delle opere.

Elisabetta Oliveri, 1963, dirigente, direttore generale di Fabbri Vignola, CDA di ATM, Snam, Espresso.

Enrico Vitali, 1963, commercialista, senior partner dello Studio Tremonti, Vitali, Romagnoli, Piccardi.

Alessandro Benetton, 1964, presidente di Benetton Group.

Andrea Illy, 1964, presidente di Illycaffè e di Altagamma.

• Esponenti della generazione X, 1965-1981 Una generazione piccola, dopo la bolla demografica precedente; ha difficoltà a occupare ruoli importanti per la concorrenza delle precedenti due; è critica nei confronti dei valori e dell’assetto sociale esistente; il film di riferimento è E. T. l’extraterrestre, tecnologica, comincia a utilizzare il personal computer e il walkman; aperta alla società, pragmatica.

Marina Berlusconi, 1966, dirigente, presidente di Mondadori.

Anna Maria Artoni, 1967, imprenditrice, vicepresidente di Artoni Group, componente del Comitato privatizzazioni del MEF.

Enrico Laghi, 1969, accademico e dirigente, presidente di Beni Stabili.

Claudia Parzani, 1971, avvocato, presidente di Valore D, partner di Linklaters LLP.

Davide Serra, 1971, banchiere, presidente di Algebris Investments.

Antonella Mansi, 1974, imprenditrice, presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.

Roberto Moncalvo, 1981, presidente di Coldiretti.

I banchieri, un ‘anzianità necessaria? • I vertici delle principali banche italiane Piero Melazzini, 1930, presidente della Banca Popolare di Sondrio.

Giovanni Bazoli, 1932, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo.

Giuseppe Vita, 1935, presidente di Unicredit.

Piero Giarda, 1936, presidente del Consiglio di sorveglianza della Banca Popolare di Milano.

Giovanni De Censi, 1938, presidente del Credito Valtellinese.

Gianni Zonin, 1938, presidente della Banca Popolare di Vicenza.

Ennio Doris, 1940, presidente di Banca Mediolanum.

Tommaso Cartone, 1942, amministratore delegato del Banco di Desio e della Brianza.

Pierfrancesco Saviotti, 1942, amministratore delegato del Banco Popolare.

Maurizio Sella, 1942, presidente del Gruppo Banca Sella.

La situazione non cambia se guardiamo alle fondazioni bancarie che possiedono tuttora uno straordinario patrimonio nonostante gli acciacchi provocati dalla crisi. Gli organigrammi stratificati di consigli e commissioni appaiono una foresta pietrificata: l’età elevata e la lunga permanenza dei vertici nell’incarico sono spesso evidenziati dai media senza che ciò produca alcun effetto, Citiamo alcuni casi per riportare il problema alla mente del lettore.

Giuseppe Guzzetti, classe 1934, dal 1997 è presidente della Fondazione Cariplo, la maggiore delle fondazioni bancarie il cui patrimonio è stimato in sei miliardi di euro. La scadenza della carica è prevista nel 2019 quando avrà 85 anni.

Dino De Poli, classe 1929, presidente della Fondazione Cassamarca, già presidente della Cassa di Risparmio della Marca Trevigiana nel 1987, è stato confermato sino al 2018, quando sarà ottantanovenne.

Giuliano Segre, classe 1940, è presidente della Fondazione di Venezia dal 1992, quando è stata creata, dopo essere stato presidente della Cassa di Risparmio omonima. Sono ventuno anni di ininterrotta presenza al vertice.

L’anzianità non è solo dei banchieri La tenure, la permanenza in una carica, è una categoria particolarmente sorvegliata nel governo delle organizzazioni anglosassoni in ossequio a una cultura fondata su checks and balances, i famosi controlli e contrappesi. I rischi impliciti di una lunga permanenza al vertice di un’impresa o di un’istituzione sono intuitivi: il restringersi delle possibilità d’azione, l’inevitabile formarsi di «cerchi magici», il prevalere di interessi parziali su quelli collettivi. In Italia, come abbiamo detto, gli incarichi durano a lungo, oltre i tre anni normali del singolo ciclo di vita di un consiglio di amministrazione. Il Rapporto Assonime 2013 indica in sei anni la durata media in carica degli amministratori e in nove anni quella dei consiglieri esecutivi: una prassi confermata nelle imprese pubbliche, il che smentisce la diffusa credenza che i cambiamenti politici siano causa di rotazione dei manager. Leggendaria è storia di Franco Pecorini (1941) che gestì la società pubblica Tirrenia per ventisei anni, indifferente allo scorrere dei governi, ben diciannove durante la sua gestione, e alle perdite della compagnia, sino al commissariamento nel 2010. Il suo coetaneo, Maurizio Prato, vanta numerosi incarichi nel gruppo IRI, direttore dell’Agenzia del Demanio, Grandi Stazioni, Alitalia, al vertice di Fintecna, posseduta dalla Cassa Depositi e Prestiti, e dell’Istituto Poligrafico dello Stato. I membri dell’ élite entrano ed escono dalle cariche e dai consigli di amministrazione vantando IIn palmarès di incarichi economici, culturali, sociali. Luigi Abete, una vita da presidente (Giovani imprenditori, Confindustria, Assonime) è ora al vertice di BNL dal 1998, e ha mantenuto il ruolo dopo l’acquisizione della francese BNPl’aribas, Turiddo Campaini, nato nel1940, dal 1973 è presidente di Unicoop Firenze, un gigante della cooperazione: diecimila dipendenti, tre miliardi di fatturato, un milione di soci. Membro dal 2003 del CDA di Monte dei Paschi di Siena, banca dove la sua organizzazione aveva fatto un rilevante e infelice investimento, si è dimesso dalla carica nel 2013. Ma la tendenza alla stabilità è visibile ‘anche nelle strutture non aziendali. Qualche esempio.

Giorgio Ambrogioni, nato a Grottaferrata nel 1948, entra in Federmanager nel 1975, e ne è presidente dal 2008, riconfermato nel 2011 per un triennio. L’organizzazione rappresenta e tutela i dirigenti industriali italiani e i dirigenti pensionati. È attiva in particolare nell’assistenza sanitaria integrativa: il FASI, 263.000 aderenti, è il più grande fondo categoriale di assistenza sanitaria europea e nella previdenza integrativa; poi c’è il Previndai, con oltre 60.000 dirigenti in servizio iscritti. Opportunamente la federazione ha fissato un limite di due mandati, e perciò la sua carica non potrà essere rinnovata.

Luigi Angeletti, nato nel 1949 a Greccio (RI), vicino alla chiesa eremitica di san Francesco; entra nel sindacato nel 1975 e diventa segretario provinciale della UILM. Viene eletto segretario generale della UIL il13 giugno 2000: circa 1.900.000 iscritti secondo i dati 2011. Dalla sua elezione la CGIL hacambiato tre segretari generali (Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani, Susanna Camusso), e altrettanto è accaduto nella CISL (Sergio D’Antoni, Savino Pezzo tta, Raffaele Bonanni). Membro del Consiglio nazionale dell’ economia e del lavoro, Angeletti è un ospite abituale dei talk show televisivi. Ha annunciato il ritiro dalla carica per la fine del 2014.

Marco Venturi, classe 1947, nato a San Pietro a Maida in provincia di Catanzaro, è presidente di Confesercenti dal 1998, dirigente dal 1975. Rappresenta 350.000 piccole medie imprese nei settori del commercio, turismo, servizi artigianato e industria.

Carlo Sangalli, detto Carluccio, nato nel 1937 a Porlezza (CO) , dal 1997, cioè da diciassette anni, è presidente della Camera di commercio industria agricoltura e artigianato di Milano, un ricco ente autonomo di diritto pubblico.

Nel 2012 è stato confermato per un altro quinquennio: terminerà il mandato all’età di 80 anni. Affianca a questo ruolo la presidenza degli 800.000 associati Confcommercio dal 2006. Ha inanellato sette legislature nel parlamento dal 1968 al 1994.

Antonio Marzano è nato nel 1935 ed è presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dal 2005. Il primo incarico pubblico risale al 1960-1962: esperto coordinatore della Commissione per la relazione generale sulla situazione economica del paese.

Giovanni Puglisi, nato nel 1945, è rettore dell’Università IULM a Milano dal 2001, ed è stato confermato per il periodo 2010- 2015. Vicepresidente e consigliere delegato della stessa università; presidente della Commissione nazionale Italiana dell’usssco: presidente della Fondazione Università IULM; presidente della Fondazione Banco di Sicilia.

Infine, l’Università Bocconi occupa uno spazio troppo importante nella Corporate Italia (e non solo) per essere trascurata dalla mia analisi. Il ruolo dell’ateneo è centrale per la preparazione di futuri capiazienda che si ritrovano nella potente associazione Alumni, per gli scambi a livello scientifico e per gli incarichi nei consigli di amministrazione e nelle commissioni governative. L’età media delle tre figure di vertice (presidente, vicepresidente, amministratore delegato) è di 77 anni. Abbassa la media la figura del rettore Andrea Sironi, classe 1964. La conferma istituzionale della Bocconi e l’apice della sua influenza hanno coinciso con il conferimento dell’incarico di governo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al professor Mario Monti, nato nel 1943, per guidare un governo dei tecnici. Terminato l’incarico, il Professore ritorna a sedere sulla poltrona di presidente del CDA, carica che ricopre dal 1994 (in precedenza era rettore) .

Il vicepresidente Luigi Guatri, nato nel 1927, che svolgeva la supplenza durante l’esperienza di governo del presidente, è tornato a svolgere il compito di vicepresidente. L’amministratore delegato, Bruno Pavesi, una lunga esperienza manageriale alle spalle, è nato nel 1941.

Una modesta presenza femminile Nonostante la legge sulle quote rosa sia reclamizzata, i suoi effetti hanno appena lambito la stanza dei bottoni.

Fanno eccezione alcune donne a capo dell’azienda di famiglie. La più importante è Diana Bracco, presidente e amministratore delegato del gruppo omonimo, una multinazionale che opera nel settore della salute, un fatturato di oltre un miliardo di euro, il 68 per cento sui mercati esteri, 3000 dipendenti. A questo ruolo la Bracco affianca la presidenza di Expo 2015 Spa e l’incarico di commissario generale di sezione per il Padiglione Italia. Vicepresidente di Confindustria con delega per Ricerca e Innovazione, fa anche parte del consiglio della Camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato di Milano. Dal giugno 2005 al giugno 2009 è stata presidente di Assolombarda e, prima ancora, presidente di Federchimica.

Pochissime sono, al contrario, le presenze femminili tra i capiazienda non appartenenti alla famiglia di controllo.

Spicca Monica Mondardini, dall’aprile 2013 amministratore delegato della CIR, la holding controllata dai De Benedetti. Ha assunto il ruolo in precedenza ricoperto da Rodolfo De Benedetti, a sua volta nominato alla presidenza.

Altro elemento che accomuna i membri italiani della business community, oltre l’età, è la provenienza. L’80 per cento di loro è nato nel Nord Italia e comunque sono solo italiani. I milanesi sono egemoni, seguiti da una nutrita rappresentanza del Nord-Est e da una presenza romana. Caratteristiche rivelatrici della cultura prevalente dell’impresa italiana sono i pochi stranieri presenti nei consigli di amministrazione, una percentuale inferiore al 6 per cento, e la rarità di capi azienda stranieri: una composizione del management che stride con la globalizzazione e ostacola le ambizioni delle imprese. L’apertura dei posti di responsabilità ad altre culture costituisce un passaggio non rinviabile per il progresso del sistema Italia. Le eccezioni peraltro confermano i vantaggi di un processo virtuoso: un manager con una prospettiva internazionale aiuta l’impresa a muoversi con maggiore disinvoltura nei mercati, così come le aziende con strategie globali sviluppano la capacità di attrarre manager stranieri.

Ricerche più accurate potrebbero migliorare il campione e approfondire le conclusioni, ma l’immagine di fondo non muterebbe. Gli studi disponibili e l’opinione degli esperti confortano le risultanze e l’ipotesi che il ricambio generazionale sia una priorità per il paese. Convergente con le nostre evidenze è la ricerca su un perimetro più ampio, circa 6000 individui, estratti dalla pubblicazione «Who Who’s» di Carlo Carboni in Élite e classi dirigenti in Italia: «Carente nella guida del paese, tutta maschile, centro-nordista, invecchiata, con vistosi problemi di ricambio, forte nell’auto-legittimarsi ma debole in competenza: ecco come appare [I’élite]». Anche la ricerca condotta da Coldiretti-Università di Calabria nella primavera del 2012 ha fotografato lo stesso problema, estendendo la diagnosi all’intera classe dirigente italiana: i banchieri e i vescovi della chiesa cattolica erano al primo posto per età, 67 anni, seguiti da membri del governo, dai professori universitari e dai dirigenti delle partecipate statali. La media generale era 59 anni. E infine l’interessante conclusione dell’Osservatorio permanente sul potere dell’Eurispes ancora nel 2012: «Il potere legato al mondo dell’economia è un potere maschile rappresentato nel 91,6% dei casi da uomini e solo nell’8,4% da donne.

Di più, ne sono praticamente esclusi i giovani, dal momento che nell’80% dei casi è in mano agli ultracinquantenni, in un terzo addirittura agli ultrasessantacinquenni».

 

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *