FATTI CHE PER UNA PARTE DELLA NOSTRA UMANITA’ FANNO PARTE DEL QUOTIDIANO—SENZA SOLLEVARE IL VELO (PERCHE’ NON NE SIAMO CAPACI) SULLE VIOLENZE COSIDDETTE PSICHICHE O MENTALI CHE UCCIDONO IN SORDINA E CHI RESTA, UNO O PIU’, SONO EROI, VITTIME DEL MATTO/ ESILIATO DI TURNO

Sei in: Archivio > la Repubblica.it > 2006 > 03 > 14 > 
ROMA – Ha pugnalato a morte il figlio, ricoverato in ospedale, gravissimo, dopo un tentativo di suicidio. Due coltellate, una al torace e una alla gola, davanti agli occhi degli infermieri di turno al reparto di rianimazione del San Camillo. «L’ ho fatto solo per lui, per non vederlo più soffrire, povero figlio mio. Voleva suicidarsi, io l’ ho aiutato a morire» ha mormorato Luciana Sillasi, 74 anni, afflosciandosi tra le braccia degli agenti della mobile, che si sono precipitati sul posto. Inutile l’ intervento chirurgico in extremis per Carmine Verticchio, 49 anni, rappresentante di prodotti farmaceutici, sposato e padre di due ragazzi di 16 e 18 anni: l’ uomo è morto in sala operatoria un’ ora più tardi. Una storia atroce, ricostruita dagli uomini di Eugenio Ferraro, capo della sezione omicidi, che hanno interrogato per ore la madre assassina e la moglie della vittima. Ex tossicomane e malato di Aids, Carmine Verticchio era stato ricoverato diverse volte, in passato, per problemi fisici e mentali. «Due settimane fa era venuto per una visita psichiatrica e prendeva degli psicofarmaci potentissimi» ricorda, sconvolta, una dottoressa. Una famiglia segnata dal dolore: il padre, Olivo, è gravemente malato di Alzheimer e, da oltre un anno, non esce da una clinica e un fratello della vittima è in carcere. «Luciana era ridotta a una larva – dicono gli inquilini del palazzo di via Cesena, a San Giovanni dove la donna abitava da oltre trent’ anni- tutta la famiglia pesava su di lei, non ce la faceva più. Ha 74 anni ma ne dimostra novanta, povera donna. Il figlio era uno spettro, magrissimo, aveva perso tutti i denti e non aveva più la forza di lavorare». Mercoledì 8 marzo, Carmine Verticchio, in preda a una crisi di depressione, tentò di togliersi la vita lanciandosi dalla finestra del suo appartamento, al terzo piano di un palazzo di via di Bravetta 258. L’ uomo si schiantò su una cancellata e riportò terribili lesioni interne. «Aveva l’ addome completamente squarciato» ricorda un infermiere. Subito dopo il ricovero, i medici dovettero amputargli la gamba destra ma riuscirono a salvargli la vita. «Era cosciente, anche se stordito dai farmaci e indebolito dalla perdita di sangue- spiega il primario, Giuseppe Nardi – tra qualche giorno sarebbe stato trasferito in un reparto di medicina. Qui in rianimazione venivano a trovarlo, regolarmente, la madre e la moglie. Nessuno dei familiari è mai caduto preda di crisi di disperazione o aggressività. E’ stata una cosa totalmente imprevedibile». Il reparto di rianimazione, al piano terra, è un corpo separato dell’ ospedale, chiuso da invalicabili porte scorrevoli che lasciano passare solo pochissime persone, dove i familiari dei degenti possono entrare solo uno alla volta, per qualche minuto, dopo aver indossato un camice e le soprascarpe monouso. Gli altri congiunti devono accontentarsi di guardare i degenti attraverso un vetro. Luciana Sillasi aveva premeditato l’ omicidio del figlio e, due giorni fa, aveva comprato un coltello da cucina che aveva nascosto in borsa. La donna, verso le 17, andata a trovare il figlio assieme alla nuora che è uscita prima. Vedendo che la suocera si attardava, la donna ha deciso di tornare a casa da sola. Pochi minuti dopo, Luciana Sillasi si è avvicinata al letto dove il figlio giaceva, intubato e stordito dai medicinali e lo ha accoltellato. Poi, tra le urla degli infermieri, si è consegnata a una guardia giurata di servizio al reparto. «Gli hanno fatto del male, povero figlio mio» ha urlato mentre i poliziotti la portavano via. «Carmine aveva provato a togliersi la vita ma non c’ era riuscito, l’ amore mio – ha singhiozzato più tardi nell’ ufficio del capo della mobile Alberto Intini – all’ ospedale gli avevano anche tagliato una gamba: ma come avrebbe potuto vivere in quelle condizioni?».
MASSIMO LUGLI
14 marzo 2006 sez.
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2 risposte a FATTI CHE PER UNA PARTE DELLA NOSTRA UMANITA’ FANNO PARTE DEL QUOTIDIANO—SENZA SOLLEVARE IL VELO (PERCHE’ NON NE SIAMO CAPACI) SULLE VIOLENZE COSIDDETTE PSICHICHE O MENTALI CHE UCCIDONO IN SORDINA E CHI RESTA, UNO O PIU’, SONO EROI, VITTIME DEL MATTO/ ESILIATO DI TURNO

  1. Donatella scrive:

    Altro che tragedie greche! Se si pensa ad un dolore così insopportabile, da parte del figlio e della madre, ci si smarrisce. E la solitudine in cui vive questo dolore inenarrabile ci interroga su quale dovrebbe essere il sentimento di umanità, di umana pietà e solidarietà.

  2. Roberto scrive:

    ma non ci si interroga mai o troppo poco sul perchè queste persone vengono lasciate sole. poi ci si piange sopra a tragedia avvenuta, ma quello è solo l’epilogo: la tragedia è quotidiana. I CSM a Roma e in tutto il lazio ( ma penso in tutta Italia) sono sovraffollati con personale dimezzato rispetto alle necessità ed ai programmi roboanti.
    Poi le tragedie che sono solo l’apice.
    Sono il lato più oscuro della sanità.
    Purtroppo finchè non ci troviamo coinvolti sono troppi (tantissimi) i dolori che affliggono quel mondo accanto a noi e che noi nono vediamo.

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