ALEXANDER PAYNE (2013) E’ IL REGISTA DI NEBRASKA— TRAILER IN ITA E RECENSIONE DI CARLO XEROFOLINI PER ONDACINEMA

 

 

Nebraska – Uscita : 16 gennaio 2014 Un film di Alexander Payne. Con Bob Odenkirk, Bruce Dern, Will Forte, Stacy Keach, Devin Ratray. In Storia, woody Grant ha tanti anni, qualche debito e la certezza di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Ostinato a ritirare la vincita in un ufficio del Nebraska, Woody si avvia a piedi dalle strade del Montana. Fermato dalla polizia, viene ‘recuperato’ da David, figlio minore occupato in un negozio di elettrodomestici. Sensibile al desiderio paterno e dopo aver cercato senza successo di dissuaderlo, decide di accompagnarlo a Lincoln. Contro il parere della madre e del fratello Ross, David intraprende il viaggio col padre, assecondando i suoi capricci e tuffandosi nel suo passato. Nel percorso, interrotto da soste e intermezzi nella cittadina natale di Woody, David scoprirà i piccoli sogni del padre, le speranze svanite, gli amori mai dimenticati, i nemici mai battuti, che adesso chiedono il conto. Molte birre dopo arriveranno a destinazione più ‘ricchi’ di quando sono partiti.

 

 

UNA BELLA RECENSIONE!  http://www.ondacinema.it/film/recensione/nebraska_payne.html

 

Nebraska

CAST & CREDITS

cast:
Will Forte, Stacy Keach, June Squibb, Bruce Dern

regia:
Alexander Payne

distribuzione:
Lucky Red

durata:
110′

produzione:
Bona Fide Productions

sceneggiatura:
Bob Nelson

fotografia:
Phedon Papamichael

scenografie:
J. Dennis Washington

montaggio:
Kevin Tent

costumi:
Wendy Chuck

musiche:
Mark Orton

Nebraska

di Alexander Payne

drammatico, Usa (2013)

 di Carlo Cerofolini

Voto: 7.0
 

Non c’è alcun dubbio sul fatto che una delle caratteristiche principali del cinema di Alexander Payne sia quella di essere “defilato” e poco propenso a dare nell’occhio. Una constatazione che, lungi dall’esaurire la complessità di una poetica ricca e stratificata, contiene il pregio di modulare lo sguardo dello spettatore rispetto a una materia sfuggente, quasi inerte nella sua implacabile evidenza, e affidata nel suo divenire a piccoli e quasi impercettibili scarti emotivi, simili a quelli che trapelano con fatica dallo sguardo sospeso e lontano di Woody Grant, l’anziano protagonista di “Nebraska”, ultimo film di Payne, presentato in concorso nell’edizione appena conclusa del Festival di Cannes. Prima di quel volto, su cui il regista tornerà con insistenza nel corso della storia, si impone la visione di un’America a doppia velocità, che Payne ci presenta in campo lungo nella sequenza d’apertura, con la modernità in continuo divenire sintetizzata dalle macchine che si succedono indifferenti e sfreccianti lungo la statale percorsa a passo claudicante dall’anziano signore chiamato a rappresentare l’altra faccia del paese, quella destinata a rimanere indietro rispetto al nuovo che avanza.

Per rappresentarla Payne si affida al sogno di una vincita impossibile, e alla convinzione di Woody Grant di averla realizzata dopo aver letto il volantino di una lotteria del Nebraska. Deciso a riscuoterne il premio, Grant si mette in viaggio in compagnia del figlio David che vorrebbe approfittare dell’occasione per conoscere meglio l’attempato genitore.
Se la trama di “Nebraska” ricalca nella struttura on the road precedenti famosi del cinema americano, come quelli di “Una storia vera” (1999) di David Lynch, e “A proposito di Schmidt” (2002) dello stesso Payne, in cui il motivo del viaggio si trasforma nel congedo esistenziale di personaggi avanti con gli anni, e allo stesso tempo diventa la ricognizione sullo stato di salute del paese, bisogna dire che il bollettino del “capitano” Payne non è dei più confortanti. Girato in un bianco e nero elegante e pulito, “Nebraska” si dipana attraverso una serie di quadretti esistenziali e di situazioni singolari (memorabile la scena in cui Grant, insieme al fratello che li ha raggiunti, decide di saldare l’antico torto patito dal genitore facendolo però pagare alle persone sbagliate) ambientate a Hawtorne, cittadina natale del protagonista, dove, in un’immersione agrodolce e vagamente maliconica, Woody si ritrova a tu per tu con parenti dimenticati e amici di gioventù. Una situazione apparentemente idilliaca, che Payne si diverte a sabotare con intarsi invisibili ma efficaci nel denudare alcuni dei miti della cultura americana: dall’istituzione familiare, dipinta come un luogo anaffettivo e disturbante – basti pensare alla petulante consorte di Woody, sempre pronta a lamentarsi e a parlare male degli altri – al sogno americano, depotenziato per il fatto di sapere che il biglietto vincente esiste solo nella testa del protagonista, e sbeffeggiato attraverso la fascinazione dei compaesani di Woody, ignari della verità e disposti a dimenticare le antiche ruggini pur di condividere le fortune del figliol prodigo, per non dire della virilità machile, annichilita da rapporti inesistenti (quello di David, lasciato dalla compagna a inizio film) o totalmente disastrosi, come accade al protagonista, sposato a una donna che forse non ha mai amato.

La bravura di Payne è quella di mantenersi in equilibrio tra il riso e il pianto, e di riuscire con tocco lieve e delicato a far emergere una poetica del quotidiano illuminata dal riscatto di un’umanità donchisciottesca, mortificata e poi risollevata, come capita a Woody in una delle ultime sequenze, quando, demoralizzato dalla consapevolezza della mancata vincita, si ritrova poco dopo, rinfrancato e felice, alla guida della jeep che il figlio gli regala per compensare lo smacco. Con l’automezzo al posto del cavallo, e Woody nella parte John Wayne, “Nebraska” fa anche in tempo a omaggiare il cinema e in particolare il western, con l’uomo che sfila lungo la via principale di Hawtorne, sotto lo sguardo ammirato e incredulo dei suoi cittadini. 

Interpretato da un Bruce Dern formato actor’s studio, impegnato in un ruolo che sarebbe piaciuto ai registi della sua generazione, “Nebraska” è un meccanismo perfetto ma non per tutti. L’assenza di glamour degli attori ma anche dell’argomento, il ritmo pacato e quasi immobile, la comicità deadpan alla maniera di Jim Jarmusch, e infine un’ambientazione laterale e periferica sono una miscela poco adatta alla grande platea. Siamo certi però che, imitando le vite dei suoi personaggi, anche quella del film troverà il modo di emanciparsi da premesse così fosche. Magari durante la notte degli Oscar, magari nella categoria del migliore attore protagonista.

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