Alessandro Ferrucci e Stefano Mannucci, IL FATTO DEL 1-04-2018 — IO E MIO PADRE JANNACCI

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO, 1-04-2018

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Io e mio padre Jannacci

Il figlio Paolo – Cinque anni fa moriva a Milano uno dei grandi della musica italiana: “E per fortuna oggi il pubblico lo sta capendo”

A un certo punto Paolo Jannacci si ferma, resta in silenzio, sospira, è dispiaciuto nel dover specificare qualcosa di (forse) bizzarro per gli altri, quasi deludente, ma per lui normale: “Mio padre non parlava mai della sua infanzia, dei primi successi, degli anni Sessanta, delle sue esperienze da chirurgo. La storia di noi due l’abbiamo costruita sul presente e giocata con il futuro, il resto contava poco; solo negli ultimi tempi sono trapelati dei flash e sempre nel rispetto di un atteggiamento riservato e silenzioso. E lo capisco”.

Enzo Jannacci è morto il 29 marzo di cinque anni fa, le immagini del suo funerale ancora rilasciano reali brividi per i volti trasfigurati dei presenti: da chi è cresciuto con le sue canzoni, con il cabaret; quindi gli ex ragazzi del Derby, Renato Pozzetto e Paolo Rossi in prima fila, poi chi è stato operato da lui in versione chirurgo; chi ci ha suonato, da Adriano Celentano a Morgan, fino al figlio Paolo che quando trattiene le lacrime corruccia la bocca esattamente come suo padre.

Qual è oggi la percezione collettiva di Enzo Jannacci?

In questi ultimi tempi, intorno alla sua storia, è scattato un processo strano ed emozionante: papà ha acquisito maggiore risonanza, si è compreso il suo valore; si parla di lui con toni profondi e tutto ciò mi lusinga molto…

Lei sembra stupito.

Un po’: quando era in vita non ho percepito in pieno un simile affetto, se non in eventi eccezionali; mentre oggi non riesco neanche a seguire tutte le proposte legate alla sua storia.

Perché questo “scoppio ritardato”?

In parte a causa dello stile di papà, certi suoi messaggi erano un po’ dolorosi, a volte stridenti; era faticoso condividerne la linea poetica e sociale: alcuni brani riguardano il suo vissuto riflesso nella vita attiva.

Pugni nello stomaco.

Alcune canzoni era complicato ascoltarle e assimilarle con facilità. Il bello è che se ne rendeva conto, ma quando arrivavano i complimenti, i classici attestati di stima, girava per casa e con il sorriso diceva: “Mi dicono che sono bravo, ma qui non si monetizza un cazzo”.

Insomma, capiva la non sempre facile “digeribilità”.

Eccome. Magari lo vedevo riflettere davanti a un foglio, alzava lo sguardo e subito dopo arrivava il suo “oddio che ho scritto”. Così ci impegnavamo nel creare brani semplici, allegri e felici; poi alla fine tornavamo sopra le strofe e inseriva il momento di riflessione. Capita oggi pure a me, di nuovo, con le mie canzoni.

Cosa pensava quando lo vedeva lavorare?

Ne ammiravo la genialità pura, la capacità di affrontare la poetica senza porre limiti: è riuscito a toccare corde che vibrano nel tempo, e alla fine non importa se non ha monetizzato, non era quello il vero parametro, il vero parametro è quello che sta accadendo oggi intorno alla sua storia.

Negli anni Settanta si è favoleggiato di contrasti tra Enzo e De André per la musica di “Via del Campo”…

Posso sfatare questo mito: l’accordo tra loro è arrivato con una facilità abissale, è bastata una telefonata e tutto si è risolto; Fabrizio è stato uno dei suoi punti di riferimento, esattamente come Paolo Conte. Tutti artisti cresciuti a Milano dentro le stanze della Ricordi (storica casa discografica), e si ispiravano alla musica francese di quel tempo, Brassens e gli chansonnier.

Provava invidia per i successi altrui?

Lui? Impossibile. Ricordo ancora i nostri viaggi in macchina: piazzava nel mangianastri una cassetta di Adriano Celentano e si esaltava; più che altro sentiva il rimorso per non essere riuscito in pieno a veicolare la sua ricerca nella chiave adeguata.

Lei, Paolo, è cresciuto circondato dalla Milano del Derby…

Quando ero piccolino sono passati tutti da casa, da Diego Abatantuono a Cochi e Renato (portati al Derby dallo stesso Jannacci); per me era normale, neanche me ne rendevo conto, erano amici di papà, persone con le quali sorridere e creare; a volte si organizzavano in salotto e provavano gli sketch. Solo da adulto ho capito la magia di quei momenti.

Verità o leggenda: suo padre amava girare con un vecchio Sì della Piaggio.

Lo chiamava “il motorino vivente”. Non partiva sempre, papà ci parlava, lo incitava, quasi cercava di convincerlo a mettersi in moto. E poi era modificato…

In che senso?

Gli aveva cambiato il motore, montava un cento con compressore e doppia accensione: un bolide con la marmitta silenziata per evitare i controlli; una volta ha accelerato troppo e troppo presto, si è impennato e lui si è ribaltato a terra.

Jannacci spericolato.

Aveva la fissa per i motori potenti, ma temeva di avermela contagiata, così quando sono diventato grande mi ha regalato un’enorme e vecchia Volvo color carta da zucchero: era un trattore; una sera mi hanno tamponato: alla mia macchina solo un graffio, mentre quel poveraccio ha distrutto la sua.

Un padre molto riservato.

Non ci ha mai raccontato la sua vita, l’ho conosciuto solo attraverso il suo pensiero e gli atteggiamenti che manteneva rispetto agli altri. L’esempio contava più delle parole. Solo negli ultimi anni si è lasciato andare su qualche ricordo, dei flash, racconti estemporanei della sua adolescenza a Lambrate, come il suo amico che ogni sera si incollava la Vespa per tre piani, e la chiudeva in casa per il timore che la rubassero. O i salti della sua banda da un balcone all’altro, con il rischio di precipitare di sotto. I giochi da matti dei tempi subito dopo la guerra.

Adolescenza non vissuta nel benessere.

Proprio no, e forse per questo, da bambino, un pomeriggio decise di creare una piscina in casa; sigillò con lo stucco tutto il bagno, aprì i rubinetti e alla fine allagò le scale dell’intero condominio.

Ha dichiarato: “L’umore di mio padre influenzava tutti”.

Sia quando era in alto, che in basso… Possedeva un’energia fortissima, mista alla spensieratezza, in particolare da giovane. Con l’età era diventato più serio, e mi domandava: “Come sono?”. E io: “Tranquillo, sempre lo stesso, solo un po’ più lento”. Questa risposta la ripeteva a tutti.

Torniamo a verità o leggenda: ha partecipato ai primi trapianti di cuore della storia.

Non l’ho mai capito: per certo ha lavorato negli Stati Uniti, e lo dico solo perché in casa ho il certificato che attesta la sua specializzazione, ma riguardo alla sua esperienza in Sudafrica al seguito di Christiaan Barnard (celeberrimo chirurgo), non so neppure se sia andato lì davvero.

Enzo Jannacci genitore.

Molto severo ed esigente, non gli interessava il voto scolastico, era più concentrato sulla persona; poi da artista arrivava a manifestare emozioni attraverso reazioni forti, magari perché non arrivavo a soluzioni musicali convincenti.

Una sua frase-certezza.

Diceva: “Sono quelli che svolgono lavori umili a far girare il mondo”, e aggiungeva: “E non chi paga o ha ruoli direttivi”.

Enzo e Dario Fo.

Reverenza assoluta, da figlio innamorato. Quando Dario chiamava, lui mollava tutto e correva. Sempre. “Si va e non si discute, si va e si sta zitti”. E cosa fate? “Si crea”.

Lo accompagnava?

A volte, e mi trovavo immerso in un linguaggio a due, una sintonia non comune dove uno parlava e l’altro ascoltava, azione e reazione; palleggiavano con parole, concetti, ricordi, battute, attualità. Poi Dario confrontava il tutto con le informazioni storiche, e improvvisavano come dei guitti formidabili. Ogni tanto Franca (Rame) passava e mi portava un biscotto, uno di quelli grandi.

Giorgio Gaber.

Suo fratello. Dopo anni che non si vedevano ho accompagnato papà da lui, dovevano parlare di un brano o di un tour. Quando si sono finalmente incontrati sono tornati in un attimo alle dinamiche del liceo, quella parentesi di lontananza non aveva intaccato la loro complicità, quelle dei Due Corsari del rock. Al funerale di Giorgio papà non riuscì a dire nulla. Era il primo giorno della sua pensione, neanche se ne accorse.

Suo padre non amava la “montagna perché non aveva il tram”.

L’esistenza, quella reale, era ed è il tram, non gli uccellini. Non voleva fuggire dalla vita di tutti.

Il suo insegnamento.

L’esigenza di mantenere un atteggiamento rispettoso per se stessi e gli altri, ed era un valore che gli aveva trasmesso il padre. Per questo soffriva quando vedeva gli immigrati morire in mare, ogni volta si lamentava: “Prima salvi l’uomo e poi capisci come risolvere il problema”.

Ha mai sentito l’esigenza di scalare suo padre, come se fosse una montagna?

Da subito, nonostante i contrasti dell’adolescenza, abbiamo deciso di completarci, tentando di valorizzare le nostre rispettive capacità, tanto che ho prodotto i suoi ultimi lavori. Una volta l’ho pure spinto a cantare un brano che non voleva…

Quale?

Musical. La prima volta che l’ha eseguita in pubblico, alla fine ha ricevuto il magro applauso di quattro persone. Si è girato e mi ha fulminato: “Che ti avevo detto?”. Ma dopo un periodo di rodaggio i suoi fan l’hanno capita.

Com’era condividere il palco con lui?

Ogni volta comprendevo la sua grandezza. Mi bastavano venti secondi per vederne la magia.

Come si manifestava?

Senza alcun accordo tra noi, partiva l’improvvisazione ed era pura essenza di arte: noialtri lo lasciavamo esprimersi, ci beavamo delle note, ne assorbivamo le evoluzioni. Io ero felice. Avevo davanti a me un genio, avevo davanti mio padre.

(Enzo Jannacci cantava: “Io e te, io e te che ridevamo, io e te che sapevamo, tutto il mondo era un bidone da far rotolare… sì perché, la bellezza dei vent’anni è poter non dare retta a chi pretende di spiegarti l’avvenire, e poi il lavoro e poi l’amore…”)

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1 risposta a Alessandro Ferrucci e Stefano Mannucci, IL FATTO DEL 1-04-2018 — IO E MIO PADRE JANNACCI

  1. Donatella scrive:

    Nessuno, secondo me, ha cantato la bellezza struggente e la solitudine assoluta che è Milano, come lo ha fatto Jannacci, con tragica ironia, con mite tragedia, con la forza delle erbe selvatiche . La sua poesia nasceva da un cuore assurdo,che lui si ostinava a curare negli altri, con il bisturi , con le parole, con il suo stesso essere dolce e apparentemente e sinceramente strampalato. Una bomba di poesia e realtà.

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