MARTIN BUBER : STORIE E LEGGENDE CHASSIDICHE – MONDADORI, I MILLENNI, 2008 + LAURA MINCER, UNA RECENSIONE PER L’INDICE DEI LIBRI

 

 

 

 

Storie e leggende chassidiche

 Martin Buber

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Traduttore: A. Lavagetto, G. Bemporad, E. Broseghini
Editore: Mondadori
Collana: I Meridiani
Anno edizione: 2008
In commercio dal: 16 settembre 2008
Pagine: CLXXXII-1309 p., Rilegato
80 euro, prezzo pieno

Intorno alla metà del Settecento, Israel ben Elieser, ii Baal-schem, fondò in Ucraina occidentale un movimento mistico-popolare che diede vita a comunità nelle quali le antiche norme e consuetudini rinascevano a vita nuova grazie alla consapevolezza che qualsiasi azione, anche la più consueta, se fatta con purezza, contribuisce alla santificazione del mondo. Nelle comunità chassidiche – racconterà lo stesso Buber- “non c’è separazione tra fede e opere, fra morale e politica: un solo regno, un solo spirito, una sola realtà”. Di questa tradizione Buber si scopre erede e testimone, chiamato a raccogliere un’eredità spirituale fino allora trasmessa per via orale e a darle forma scritta: la fedeltà di Buber al testo originale si fonda su una forte consonanza spirituale col movimento chassidico, consonanza che gli permette di creare un testo nuovo, di riscrivere radicalmente la narrazione tradita. Forte è perciò l’autorialità di questi testi: “le storie che avevo accolto in me dovevo raccontarle traendole da me, così come il vero pittore accoglie in sé le linee del modello e crea la figura autentica traendola dalla memoria formante”; “quanto più cresceva l’autonomia, tanto più profondamente conoscevo la fedeltà”.

 

 

 

Laura Mincer

“Non riesco a ricordarmi, né c’è chi sappia dirmi, se fu quel nostro giovane Rabbino a portare a scuola La leggenda del Ba’al-Shem Tov di Martin Buber, oppure per quale altra via quel libro sia caduto come la manna dal cielo  a farmi sognare una patria dell’anima nelle énclave chassidiche dell’Europa Orientale”: così Giacoma Limentani ricorda, nel romanzo La spirale della tigre, le sue prime letture buberiane, ancor prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Si trattava allora dell’edizione proposta da due grandi protagonisti dell’ebraismo italiano, Mosè Beilinson e Dante Lattes, apparsa nel 1925. Se quella prima traduzione rimase allora quasi senza seguito (nel nostro paese furono pochissimi in quella generazione ad appassionarsi di chassidismo), altrettanto non si può dire dei volumi seguenti, apparsi già dopo la guerra, in una temperie completamente mutata. In particolare Racconti dei Chassidim, pubblicati da Longanesi nella traduzione di Gabriella Bemporad nell’ormai lontano 1962,

 

e riproposti da Garzanti nel 1979 con una fulminante introduzione di Furio Jesi, hanno certamente contribuito al nascere prima e all’affermarsi poi della moda per l’ebraismo e in particolare per lo Ostjudentum, ancora ben diffusa nel nostro paese. In parte interno a tale interesse, si conferma anche in tempi recenti lo straordinario successo editoriale dell’opera di Buber in Italia: dal 2000 a oggi, fra ristampe e nuove edizioni, le traduzioni del filosofo viennese contano ben venti posizioni. A queste molte pubblicazioni si aggiunge ora finalmente un’edizione completa degli scritti chassidici, tema centrale e costante della sua ricerca filosofica e letteraria. Il prestigioso volume dei “Meridiani” comprende Le storie di Rabbi Nachman (1906), La leggenda del Baalschem (1908), La mia via al chassidismo (1918), I racconti dei chassidim (1949), e il finale Esposizione del chassidismo (1963). Ogni testo è corredato da un’introduzione di Andreina Lavagetto, nota germanista e studiosa di Kafka, che ha curato l’intero progetto editoriale e che firma altresì il fondamentale saggio introduttivo Buber: i libri chassidici. Com’è benemerita consuetudine dei “Meridiani”, il volume è corredato da una dettagliata bibliografia, anch’essa a cura di Lavagetto, e da un’assai estesa Cronologia redatta da Massimiliano De Villa.

L’opera di Buber, la sua riscrittura del materiale chassidico (ovvero di storie e leggende che “così come ci sono pervenute, sono confuse, prolisse di forma assai poco nobile”, come egli stesso annota senza mezzi termini nella prefazione al Nachman) va inserita, come fa presente la curatrice, all’interno di un articolato progetto di rinascita ebraica che, agli inizi del Novecento, coinvolgeva studiosi ebrei di tutta l’Europa centro-orientale. In particolare, Lavagetto sottolinea il contrastato ma fertile rapporto di Buber con lo scrittore e critico Micha Josef Berdyczewski e la collaborazione con il più giovane Shemuel Yosef Agnon, futuro premio Nobel per la letteratura, suo unico interlocutore nell’opera di trascrizione e antologizzazione dei racconti chassidici. Nella ricerca di possibili strade per l’elaborazione di un patrimonio culturale ed etico in grado di equipaggiare gli ebrei nel difficile incontro con la modernità, lo scopo di Buber si delinea esplicitamente come la creazione del mito dell’ebraismo incorrotto dell’Europa centro-orientale; va peraltro ascritto sostanzialmente a suo merito che tale mondo sia entrato stabilmente a far parte del patrimonio culturale europeo. La narrazione di questo mito deve presentarsi come “salda e coerente”; a essa devono poter attingere sia il lettore ebreo che quello tedesco. Sono molte le concessioni al rigore filologico e storico necessarie a questa elaborazione; credo che storicamente la più nefasta sia stata la sua teorizzazione della progressiva “degenerazione” del chassidismo, che molto ha contribuito a cristallizzare una visione cupa e grottesca di tale movimento in tempi moderni.

Uno dei fili rossi che uniscono i numerosi e approfonditi apparati critici presenti nel volume è ovviamente il contrasto che separa Buber da Scholem, ovvero l’inconciliabilità fra storicismo e riscrittura romantica. È una (piacevole) sorpresa la recente palinodia di Steven T. Katz, già irriducibile critico di Buber, riportata da Lavagetto nella prefazione a Esposizione del chassidismo: “Buber, e non Scholem – ha scritto Katz nel 2006 è forse giunto più vicino a comprendere il vero segreto del chassidismo come fenomeno vivente”. Pur senza nulla togliere al valore di un’opera molto meritoria, va annotata quella che ne costituisce forse l’unica pecca, ovvero la trascrizione dei termini ebraici e yiddish e dei numerosi toponomi, generalmente polacchi e ucraini. È infatti un peccato che non si sia provveduto da una parte a un adeguamento dell’antica trascrizione tedesca fatta da Buber, riproposta immutata nelle traduzioni, e che nei testi critici si sia optato per la traslitterazione scientifica dall’ebraico, coinvolgendo anche termini ormai entrati nell’uso corrente, e riportati da un vocabolario della lingua italiana come lo Zingarelli, rendendoli di ardua lettura e sottolineandone anche graficamente una completa estraneità dal contesto linguistico italiano. È una scelta che avrebbe forse lasciato perplesso lo stesso Buber, che tanto agognava elaborare per i tedeschi e per gli ebrei tedeschi un linguaggio letterario bello e fluido, in cui, come notava Sander L. Gilman, “si esprimessero le differenze ma anche le somiglianze fra la percezione del mondo ebraica e quella tedesca”, un “linguaggio ponte” che, grazie alle sue qualità estetiche, rendesse accettabile l’alterità ebraica ai tedeschi, e che agli ebrei offrisse una patria o almeno un ancoraggio all’interno della lingua tedesca; un messaggio, questo, che avrebbe potuto mantenersi inalterato anche nella trasposizione in altre lingue.

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