MICHELE SOLDAVINI, VIVERE CON MENO ENERGIA. COME CI COLPISCE LA RAPPRESAGLIA RUSSA — LIMESONLINE

 

LIMESONLINE DEL 8 AGOSTO 2022
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VIVERE CON MENO ENERGIA. COME CI COLPISCE LA RAPPRESAGLIA RUSSA

 

 

Carta di Laura Canali – 2022

 

Il gas russo è l’arma per punire l’Europa dell’appoggio all’Ucraina, infliggendole un trauma socioeconomico. Dalla decurtazione dei flussi via Nord Stream al disseccamento della direttrice ucraina, l’ammanco è ormai esteso. Ci abitueremo alla crisi?

 

di Michele Soldavini

 

 

Pubblicato in: LA GUERRA GRANDE – n°7 – 2022

1. L’intera Europa può precipitare davvero nel caos? Dal punto di vista energetico (somministrazione di energia elettrica, gas naturale e derivati petroliferi a imprese e famiglie) il caos è già tra noi – semplicemente in un dosaggio che da «moderato» passa al livello di «medio» e minaccia il «severo».


Il prezzo giornaliero dell’energia elettrica in Italia in questi primi sette mesi del 2022 è stato superiore in media del 426% allo stesso periodo degli ultimi nove anni. Vanno fatti i dovuti distinguo rispetto agli altri paesi europei, visto che l’Italia sconta alcuni nodi irrisolti:

la configurazione della rete elettrica nazionale,

la dislocazione sbilanciata della capacità rinnovabile,

le necessità di import da Francia e Svizzera. 

 


Tuttavia, l’aumento esorbitante del costo dell’elettricità – «mattoncino» fondamentale che compone e sorregge il nostro benessere acquisito quanto le nostre necessità di base – coinvolge tutta l’Europa.

Il prezzo all’ingrosso del gas naturale sulla Borsa di riferimento in Europa, il TTF olandese, è schizzato del 485%. Del «mattoncino» elettrico il gas è ingrediente fondamentale: non tanto e non solo per il suo effettivo peso sul mix di fonti, quanto per il modo in cui determina la formazione del suo prezzo.

Inoltre, nei suoi usi diretti il gas è pilastro di alcuni processi industriali pesanti – tra cui metallurgia, chimica (compresi i fertilizzanti), cartaria – e fonte diretta di riscaldamento degli edifici in parte d’Europa: in media nell’Unione Europea per il 39%, in rapporto variabile con altre fonti a seconda dei paesi 1.


È quindi naturale che il tema monopolizzi i media tradizionali (col rischio di una copertura imprecisa) e impantani i social network in un imperversare di bile senza sbocchi. Chi scrive fa parte di un team di presidio costante dei mercati energetici (e di tutte le notizie che li riguardano) per la consulenza capillare a decine di grandi installazioni industriali in tutta Italia. Facendosi portavoce immeritato di chi lavora nel settore, assistere a tutto ciò – e agli sforzi concitati degli organismi decisionali per parare alcuni degli effetti più avversi di questa crisi – continua a trasmettere frustrazione e sbigottimento, pur a oltre cinque mesi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.


La domanda è centrale, nevralgica: questi aumenti insostenibili, tali da schiacciare le nostre imprese e sconvolgere i conti pubblici a suon di enormi sussidi-tampone, sono causati dalla Russia? Se la risposta è affermativa – e sostanzialmente lo è – ciò significa che il nostro coinvolgimento nella guerra ucraina non si limita al rifornimento militare di Kiev, ma ci vede vittime di una guerra «ibrida» la cui arma principale è lo storico rifornimento di gas naturale (e petrolio, carbone) all’Europa.

 


Questo non implica che non siano vere due ulteriori constatazioni di carattere generico. In parte, l’esplosione dei prezzi covava e manifestava i primi forti sintomi (con due impennate anomale a ottobre e soprattutto a dicembre 2021) prima della guerra, per una serie di concause endogene ed esogene al mercato: concorrenza asiatica sul gnl (gas naturale liquefatto), scarso riempimento degli stoccaggi, crescente finanziarizzazione delle Borse dell’energia.

Mosca ha saputo scientemente e con perizia prima adattarsi a tale contesto, aiutarlo e incrementare i profitti 2; poi, a ostilità deflagrate e nell’imbarazzo della debole prova di forza messa in atto sul campo militare, alimentarlo deliberatamente per restare a galla nella tempesta di sanzioni economiche e finanziarie.


Secondo: se la Russia ha approfittato di un contesto di crisi già avviata per prenderne il controllo e muoverci guerra sul piano delle commodities, è anche perché una serie di vulnerabilità note e di défaillances mai affrontate strategicamente dall’Ue viziavano e viziano il nostro sistema energetico. Tra esse, primarie sono state l’applicazione di logiche di puro mercato alla gestione degli stoccaggi di gas per l’inverno, la troppo lenta autorizzazione di nuova capacità rinnovabile, l’anomala distribuzione dei rigassificatori per il gnl tra i diversi paesi europei, l’ingenua e baldanzosa virata 3 verso il disinvestimento da nuova capacità estrattiva upstream (o anche solo dal mantenimento della attuale) senza seri ragionamenti sui tempi tecnici di una svolta di questo tipo.

 


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


 

2. Le tribune mediatiche sono affollate di voci pronte a puntare i fari sui torti e stigmatizzare le prese di coscienza tardive, invocando rapidi colpi di spugna. Anche sulle colonne misurate del Sole-24 Ore si scrive: «L’invasione dell’Ucraina, scattata il 24 febbraio, poteva essere prevista in anticipo. L’Europa, invece, si è ritrovata nuda. La crisi del gas, a ben vedere, era già scoppiata prima» 4. Ciò non corrisponde né alla verità politica né alla verità dei mercati prima del 24 febbraio 2022.


Anche solo limitandosi alla settimana precedente il 24 febbraio, i moniti estremamente circostanziati dei servizi statunitensi e britannici sulla valenza aggressiva degli enormi spiegamenti di mezzi ai confini russo e bielorusso – che non rifluivano nei ranghi dopo le imponenti esercitazioni, come invece annunciato dagli alti vertici militari – erano accolti con scetticismo negli ambienti informati e con dileggio sui media 5. L’imminenza dell’invasione russa dell’Ucraina (addirittura indicata come probabile per il 16 febbraio) era stata sostanzialmente smentita anche da Volodymyr Zelens’kyj, mentre nel paese si stava già producendo una fuga di capitali da parte degli investitori, una fuga «fisica» degli oligarchi che controllavano gran parte dell’economia, un’interruzione dei flussi turistici e una chiusura di fatto dello spazio aereo (la maggior parte delle compagnie non era già più assicurata per il sorvolo dell’area). Anzi, proprio per questo Zelens’kyj, chiedeva addirittura la condivisione delle informazioni di intelligence alla base degli allarmi, o altrimenti di non innalzare i toni.


Allargando il campo alle requisitorie contro il decennio precedente, contro gli assunti stessi dell’intera èra Merkel e della gestione degli approvvigionamenti energetici europei, è estremamente facile stigmatizzarne la miopia ex post, dimenticandosi che nessuno tra gli analisti credesse seriamente che in tale sistema allignassero i rischi geopolitici poi deflagrati con tale portata. C’erano voci critiche tra i partner dell’Europa orientale, ma nessuno da Tallinn a Sofia arrivava concretamente a mettere in forse le basi della sostanziale dipendenza europea dai fossili russi e dal gas in particolare. Al contrario quasi tutti, dalla Polonia ai baltici, fino agli scandinavi e ai falchi di Londra e Washington (questi ultimi solo per quanto riguarda il petrolio), accettavano la Russia come parte nevralgica e insostituibile del mix, senza spasmodici tentativi di cambiare lo status quo o piani nel cassetto per un grande decoupling dal rapporto con il Cremlino.


Il dibattito infuriava semmai attorno all’ampliamento di questo rapporto, esemplificato dal progetto Nord Stream 2, la nuova conduttura gemella di Nord Stream.

L’infrastruttura appariva sensata dal punto di vista dei fondamentali, non priva di ragioni commerciali e inserita nel solco dei rapporti cordiali tra l’ala non militare delle élite putiniane e le cancellerie che più gravita(va)no attorno a Berlino, ma era fortemente osteggiata da Washington, da Varsavia e da Kiev.

Chi scrive ne ha illustrato tutte le ragionevolezze (e i limiti) in più occasioni, anche su queste colonne 6, interpretando il nocciolo della letteratura e delle opinioni rappresentative tra gli analisti di mercato e gli enti di ricerca più reputati (Oies, Platts, Icis tra gli altri). Gli eterni malumori contro l’opera erano stati ricomposti a luglio 2021 nell’accordo raggiunto tra Angela Merkel e Joe Biden, che archiviava le potenziali sanzioni americane contro il gasdotto (già sospese temporaneamente a maggio), mentre Berlino accettava di farsi carico di un fondo di un miliardo di dollari destinato all’Ucraina per la «decarbonizzazione e la maggior sicurezza del suo sistema energetico».

In realtà, per assicurare Kiev sulla probabile perdita dei fondamentali introiti generati dalle tariffe sul transito del gas russo, una volta che Gazprom avesse veicolato dal Baltico ciò che fino ad allora transitava per il territorio ucraino.

 


I lavori di costruzione di Nord Stream 2 sono ufficialmente terminati il 7 settembre 2021. Nessuna molecola di gas è mai stata consegnata attraverso un’infrastruttura tecnicamente pronta a farlo. Prima si attendevano i tempi di certificazione da parte dell’Autorità di rete tedesca (il Bundesnetzagentur), già molto diluiti sul finire dell’autunno dietro pretesti giuridici e sullo sfondo delle montanti tensioni geopolitiche; poi, dopo il 24 febbraio, l’infrastruttura sfavillante è diventata ferrovecchio.


Carta di Laura Canali - 2020

Carta di Laura Canali – 2020


Il senno di oggi ci dice che chi scrive aveva torto sotto svariati profili nel 2018 o nel 2021, che le obiezioni polacche e ucraine erano più che fondate, che gli analisti più fini erano a oceani di distanza da un’interpretazione del futuro di Gazprom come partner affidabile 7 e che l’intera «èra Merkel» era fondata su errori di giudizio destinati ad apparire quali ingenuità madornali.

Quanto fosse fuori dalla concezione degli operatori la possibilità di un’invasione dell’Ucraina, con la conseguente rescissione del matrimonio energetico più solido e rodato d’Europa, ce lo dicono anche le acque stagnanti che il mercato del gnl attraversava ancora attorno alla metà del 2021.


Il gnl, fungibile via nave e liberamente destinabile a seconda degli incentivi dati dal suo prezzo nei diversi hub continentali, era ed è considerato la principale alternativa in grado di colmare una parte non trascurabile del vuoto lasciato da Mosca. Anzi, i cultori del complotto indicano proprio l’interesse bottegaio degli Usa a venderci il loro, dimenticandosi ogni fondamentale del settore. Un anno fa il timore era semmai la mancanza di operatori privati americani disposti a impegnarsi nello sviluppo e nella commercializzazione di forniture a lungo termine, che si ripercuoteva sull’accesso al credito con l’aumento dei pozzi shale ai minimi termini e diversi progetti portuali bloccati in Texas, Oregon e British Columbia. I prezzi prospettici non erano allettanti, gravati dall’inizio del phasing out (= eliminazione graduale ) verde in Europa e dall’eccesso di offerta minacciata dai piani d’espansione faraonica della produzione in Qatar (+40% fino a raggiungere 110 milioni di tonnellate annue entro il 2026 e 126 entro il 2027, dalle 77 attuali): più che sufficiente al crescente appetito della Cina e della parte di Asia che stava avviandosi all’addio al carbone.


Oggi il gnl è balsamo al centro di una rete fiorita in poche settimane tra investimenti rispolverati, piani remoti non più in forse e una serrata diplomazia in ordine più o meno sparso da parte dei paesi europei. Non è un caso che in poche settimane Claudio Descalzi, Mario Draghi, Luigi Di Maio, Roberto Cingolani e persino Sergio Mattarella si siano dati il cambio nelle esotiche capitali equatoriali di Mozambico, Angola e Repubblica del Congo. L’invasione ha fatto anche sì che gli ultimi arrivati alla torta dei fossili possano sperare di godersi la propria «bonanza», dopo diversi anni di investimenti internazionali incerti fra i target di decarbonizzazione dei paesi occidentali sempre più incisivi, le prove di tassonomia green sui progetti strategici europei, le autolimitazioni delle majors portate in tribunale dalle ong per i cambiamenti climatici in atto 8 e le restrizioni dell’accesso a linee di credito secondo princìpi Esg.
( nota- I criteri ESG (environmental, social and governance) sono criteri di valutazione dell’impegno di un’azienda secondo tre dimensioni – ambientale, sociale e di governance –, che danno la misura di quanto essa sia sostenibile e responsabile.)


Gli esempi fatti (tra i tanti possibili) contribuiscono a dimostrare che nessuno riteneva plausibile quanto poi accaduto.


3. Il preconcetto implicito anche dopo l’inizio della guerra e almeno fino a inizio giugno era che nessun livello di escalation diplomatica tra Stati Uniti, Europa e Russia avrebbe coinvolto il nocciolo del commercio di materie prime tra quest’ultima e l’Occidente. Su tale commercio si reggeva la riedizione della mutua distruzione assicurata che sembrava aver perso smalto e centralità sul piano militare rispetto all’epoca della guerra fredda. Declinato dal punto di vista commerciale il concetto si reggeva su solide basi di «interdipendenza dei bisogni»: se il fossile russo è al centro del fabbisogno energetico europeo, la Russia è caratterizzata dal nanismo economico nella stragrande maggioranza delle produzioni ad alto valore aggiunto e dalla monocoltura fossile, pilastro dell’erario statale.


Con il passare delle settimane però il concetto di «nocciolo» è andato riducendosi sempre più fino a comprendere i soli flussi di gas naturale che sarebbero continuati a scorrere, pur sui livelli scarsi degli ultimi mesi del 2021, mentre via via entravano nel perimetro degli embarghi gli acquisti di altre commodities. Il fatto che i membri dell’Ue, con tutti i distinguo del caso, siano riusciti ad accordarsi sul phasing out in brevissimo tempo di carbone e petrolio russi può stupire in positivo, visto che evitarne gli effetti deleteri sarà quasi impossibile. Viceversa, le resistenze e l’indisponibilità a mettere in discussione il ben più centrale approvvigionamento di gas illustra quanto frenetiche e tremendamente complesse siano state le trattative intercontinentali su una tematica così centrale.


Per quanto riguarda il carbone a uso termoelettrico, il bando completo è stato deciso nel quinto pacchetto di sanzioni di fine marzo e scatta dal 10 agosto. Nell’avvicinarsi a tale data, le scorte di carbone russo presenti nei porti europei sono aumentate vistosamente. Per quanto riguarda il greggio e i derivati (soprattutto diesel), l’accordo in seno all’Ue è arrivato un po’ a sorpresa nella notte del 31 maggio confermando l’esenzione «temporanea» per gli oleodotti (a partire dal principale, Družba) in ragione dell’eccessiva dipendenza di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca dall’import russo.

L’embargo copre quindi solo i prodotti trasportati su petroliera, che valgono comunque circa i due terzi dell’import europeo – fino al 90% se Polonia e Germania rinunceranno, come annunciato, ai flussi via ramo settentrionale del Družba entro fine 2022. Nel blocco nascevano però le prime disparità di trattamento difficilmente giustificabili: si pensi alla raffineria di Priolo in Sicilia, al 100% rifornita da Lukojl via nave, nonché al prezzo a sconto del greggio ricevuto dalle raffinerie centroeuropee. La variante russa Urals è infatti scambiata stabilmente a sconto tra i -30 e i -35 $/b sul brent e secondo l’ungherese Mol i margini di risparmio sono «alle stelle» 9.

 


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Per quanto riguarda il metano si era invece ben lontani da tali (seppur imperfetti) compromessi, nonostante i continui e giustificati rimproveri da parte di Zelens’kyj. Per volontà di Mosca le consegne del gas hanno così iniziato a suddividersi in «sostituibili» e «insostituibili» (come tali percepite dai mercati), mentre l’Europa non ha saputo fare altro che subire passivamente i contraccolpi di tali scelte.


Ad aprile e a maggio a tenere banco sulla stampa e nelle cancellerie è stata la necessità di salvaguardare i flussi «intoccabili» verso Germania e Italia. Cercare la sponda di Bruxelles mentre i rispettivi campioni nazionali si assoggettavano all’escamotage dei doppi conti in rubli presso Gazprombank 10 senza violare la lettera delle sanzioni è stato francamente indecoroso, negli stessi giorni in cui si scoprivano fosse comuni ed esecuzioni arbitrarie a Buča e negli altri sobborghi di Kiev. Tutto l’affaire Gazprombank assumeva connotati grotteschi e Putin riportava una vittoria tattica (proteggendo peraltro il tasso di cambio) mentre chi rifiutava il gioco e voltava le spalle alla revisione unilaterale dei contratti (Polonia, Bulgaria, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Lituania) si vedeva sospendere le consegne. Naturalmente questi paesi potevano permettersi tali sospensioni nell’immediato, eppure si è trattato di scelte sofferte e la sostituibilità (specie per Varsavia 11) non è tuttora garantita.


Nulla di tutto ciò è riuscito però a mettere in guardia i governi europei, già avviluppati dai lacci dell’inflazione alle stelle, dal carattere distruttivo e apertamente muscolare della mossa russa avvenuta nella seconda settimana di giugno: la riduzione del 60% dei flussi alla Germania via Nord Stream. Formalmente, Gazprom ha decurtato le consegne perché non si è vista restituire la turbina di una stazione di compressione del gasdotto inviata in Germania e da lì in Canada per manutenzioni effettuate da Siemens Energy. Secondo la versione russa sarebbero state le sanzioni canadesi a causare il blocco, per questo Gazprom ha notificato a Uniper (il maggiore importatore tedesco) la force majeure sui «volumi passati e presenti» mancanti all’appello.

 


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Il gas venuto meno non può essere dirottato sulla via bielorusso-polacca di Jamal-Europe, a secco da mesi sia per le consegne dirette a Varsavia (cessate a fine aprile per il rifiuto di pagare in rubli) sia per i transiti verso la Germania, in negativo da dicembre 2021 (la Polonia importa da ovest) 12. Né tali flussi possono tornare «in positivo», visto che nel frattempo il Cremlino ha sanzionato il gestore del tratto polacco (EuRoPol). Il gas potrebbe essere solo dirottato via Ucraina, la rotta paradossalmente più costante (pur ai minimi di sempre) anche dopo il deflagrare della guerra. Tuttavia, a causa del conflitto uno dei due valichi russo-ucraini è stato chiuso 13. Gazprom ha inoltre annunciato un immotivato taglio delle consegne all’Italia, principale beneficiaria finale dei flussi via Ucraina – consegne già vicine ai minimi per i meritori sforzi di diversificazione nei primi mesi del 2022 in favore di Algeria, Nord Europa, Azerbaigian e gnl. In diverse occasioni tra metà giugno e metà luglio solo parte dei volumi attesi giornalmente da Eni sono arrivati.

 


Tra il 10 e il 21 luglio i flussi via Nord Stream sono stati addirittura azzerati, pur se a causa di una manutenzione annuale da tempo calendarizzata. In seguito sono stati riattivati, ma solo parzialmente (40%). Si attendono ora le prossime scelte del Cremlino, con Putin che ha già dichiarato come eventuali nuovi intoppi su altre due turbine in procinto di manutenzione potrebbero far precipitare i volumi sotto il 20%.


 

È chiaro che in un sistema ove gli interscambi tecnologici cruciali per le manutenzioni ordinarie sono congelati dalle sanzioni e il gnl, soggetto alla concorrente domanda asiatica e a incidenti come il recente incendio al terminal di Freeport in Texas, è centrale, bastano uno o due eventi per creare nuove e imprevedibili spirali nei prezzi. Questa estrema vulnerabilità potrebbe accompagnarci almeno fino alla fine dell’inverno 2022-23.

A raffreddare le quotazioni potrebbe intervenire un aggravarsi degli indicatori macroeconomici con conseguente distruzione della domanda, ma è uno scenario che nessun governo vuole affrontare. Nei limiti del possibile il nocciolo dei consumi verrà salvaguardato, ma in caso di azzeramento permanente di Nord Stream i decisori dovranno compiere scelte di razionamento molto dolorose.

 


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4. Da parte russa il principio d’interdipendenza è deformato e spinto all’azzardo. La scommessa sullo shock energetico e inflattivo che, se non arginato adeguatamente da governi e banche centrali, minaccia di devastare l’Occidente è basata sulla prospettiva di ridimensionamento dell’output fossile russo )  e di resa futura al potere monopsonistico ( = un solo acquirente di fronte ad una pluralità di venditori ) dei grandi acquirenti asiatici, specie (nell’ordine) Cina e l’India 14.


La Russia mai potrà permettersi un’interruzione permanente delle forniture rimanenti perché i suoi giacimenti in Siberia occidentale (il quadrante artico di Jamal, di più recente e promettente sfruttamento; l’areale declinante di Nadym-Pur-Taz che rifornisce il corridoio centrale ucraino) sono privi di infrastruttura abile a portare il gas in Cina e tali rimarranno per diversi anni.


Putin dichiarava già prima della guerra che la Russia dispone di «nuove soluzioni» per rifornire la Cina di «ulteriori 10 mld/m3 di gas e di nuovi volumi di petrolio». Gazprom e la cinese Cnpc avevano quindi siglato un accordo di lunghissimo periodo che prevede l’aumento a 48 mld/m3 annui del gas fornito alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia 1.

Per avere un termine di paragone, tra novembre 2020 e novembre 2021 la Russia ha rifornito l’Europa (Turchia compresa) per un totale di 179 mld/m3 di gas, su un consumo continentale di 547 mld/m3: quasi un terzo.

L’unico gasdotto esistente verso la Cina (Power of Siberia 1) si rifornisce dai campi nella Jacuzia ma presto verrà collegato alla regione di Irkutsk: si passerà così dagli attuali 10,5 mld/m(2021) a 38 mld/m(2024) e poi a 48 mld/m3, non prima del 2025. 


Tutt’altra questione è il progetto Power of Siberia 2 da 50 mld/m3 annui nominali, che andrebbe a pescare nella regione di Jamalo-Nenec da cui originano i gasdotti che arrivano in Germania. Il suo completamento rimane in programma per il 2030, data recentemente confermata dal governo di Ulaanbaatar, con cui Mosca ha chiuso le contrattazioni per i diritti di transito. Per quanto riguarda i gasdotti esistenti e l’orizzonte di quelli fattibili, la Cina non è dunque assolutamente in grado di porsi in competizione con i volumi europei almeno per alcuni anni dopo il 2025, anche ammettendo un’accelerazione delle tempistiche. Le due aree di estrazione che riforniscono oggi Cina ed Europa distano migliaia di chilometri e senza infrastrutture restano due universi separati. Fino ad allora, i volumi di export verso Pechino saranno pari a 1/10 o al più a 1/4 dell’import europeo pre-guerra.


In questi mesi, una volta riempiti gli stoccaggi interni molti giacimenti russi dovranno essere «tappati». Gli stoccaggi russi sarebbero già pieni all’81% (il 20% in più rispetto alla media quinquennale del periodo) e mantenendo i ritmi produttivi del 2021 si arriverebbe all’orlo delle scorte già a metà agosto, sicché fino a un terzo della produzione di settembre dovrà essere tenuta rinchiusa in giacimento. Per quanto Mosca preferirebbe procedere a un rallentamento estrattivo graduale (dal -16% sul 2021 registrato a giugno al -20% estivo), si andrebbe comunque incontro a un concreto rischio di danni permanenti agli impianti estrattivi, specie i più datati nella regione di Nadym-Pur-Taz.


 

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Putin punterebbe al combinato disposto di riduzione dei flussi, impennate dei prezzi e recessione per seminare zizzania tra i governi europei e indurli, per via del trauma socioeconomico, a tenere una posizione meno favorevole all’Ucraina. Il calcolo di breve termine incastrerebbe la sperata accelerazione dell’avanzamento militare sul campo (almeno per quanto riguarda la conquista dell’intera oblast’ di Donec’k) e la restrizione degli invii di armamenti sofisticati (come i missili a lungo raggio Himars) che rischiano di spostare l’ago della bilancia a favore di Kiev, specie se il morale ucraino dovesse trarre giovamento dalla riconquista di Kherson. Su questo altare al momento Mosca sembra disposta a sacrificare parte non marginale del futuro gas naturale estraibile, come dimostra l’inasprimento tattico nel passaggio dal ricatto dei rubli al pretesto della turbina.


 

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In Europa, la moltiplicazione dei rischi e dei prezzi sembra provocare incrinature sempre più vistose. C’è forte disaccordo tra i paesi membri sul piano d’emergenza presentato dalla Commissione il 20 luglio. Al centro delle critiche di Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro, Ungheria e Polonia c’è l’uniformità del mandato di riduzione del 15% della domanda di gas europea di qui a marzo 2023, tassello fondamentale per riuscire a parare i colpi dei russi insieme ovviamente alla diversificazione delle forniture. Il target provvisorio apparirebbe cucito «su misura» della Germania, a prescindere dai singoli panieri di provenienza del gas, dai livelli di riempimento delle scorte e dalle responsabilità storiche dell’èra Merkel nel consentire questo stato di cose.


 

Ha del clamoroso la visita del ministro degli Esteri ungherese a Mosca, cui Budapest ha chiesto forniture aggiuntive di gas rispetto a quelle già accordate sul lungo periodo ancora a settembre 2021 (4,5 mld/m3 annui per quindici anni), ammettendo l’impossibilità di un rapido decoupling ( = allontanamento ) dal gas russo. La posizione ungherese appare isolata in seno all’Ue e alla Nato, eppure è il più evidente tra numerosi segni d’insofferenza. La leadership di Berlino, che si ritrova in un’inedita posizione di vulnerabilità rispetto all’Europa mediorientale in tema energetico, appare sempre più sbiadita.


 

Il crinale su cui la «militarizzazione dell’energia» ci proietta è quello dell’autolesionismo. Per l’Europa la posta in gioco è quella tipica di economie di guerra. Ci ritroviamo con poche alternative in un contesto orfano da alcuni mesi del valore della de-escalation e ne stiamo iniziando a pagare le dure conseguenze: nell’ossatura delle nostre produzioni di beni e servizi, nei vantaggi comparati su scala internazionale, nei nostri bisogni e comportamenti più intimi visceralmente costruiti su un benessere energetico sovrabbondante. Tenendo conto anche del progressivo manifestarsi della grave crisi climatica 15 e del fatto che difficilmente la Russia si disgregherà, potrebbe trattarsi della questione geopolitica più difficile da gestire dal secondo dopoguerra.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Note:

 

1. Biomasse (legna e pellet), teleriscaldamento, elettrificazione, alternative fossili (heating oil, carbone). Il peso del gas sul riscaldamento è massimo nei Paesi Bassi, nel Regno Unito e in Italia, ingente in Germania, moderato in Francia, modesto in Spagna e nullo nei paesi scandinavi.

2. Gli stoccaggi più vuoti erano quelli controllati o partecipati da Gazprom in Germania, Austria, Paesi Bassi e Repubblica Ceca.

3. Ancora a maggio 2021, in preparazione della Cop-26 di Glasgow, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) aveva di fatto intimato la cessazione dei nuovi investimenti in qualsiasi idrocarburo a partire dal 2022, unica possibilità per raggiungere l’obiettivo net zero entro il 2050. Gli investimenti globali sarebbero dovuti passare dagli attuali 575 miliardi di dollari annui a 110, con l’upstream meramente delegato al mantenimento dei pozzi esistenti o già in via di sviluppo. Un anno dopo, la stessa Iea sensibilizzava l’Europa sulla necessità di moltiplicare gli investimenti in idrocarburi non russi.

4. R. Bongiorni, «Prezzi del gas saliti dell’800%. Così l’energia è la nuova arma russa contro l’Occidente», Il Sole-24 Ore, 9/7/2022.

5. C. Panella, «La farsa di successo. La verità è che Putin ha messo in mostra le debolezze dell’Occidente», Linkiesta, 17/2/2022.

6. M. Soldavini, «Perché Mosca e Berlino raddoppiano il gasdotto baltico», Limes, «Essere Germania», n. 12/2018, pp. 245-257; M. Soldavini, «L’ultimo miglio. La saga infinita di Nord Stream 2», Limes, «Occidenti contro», n. 9/2020, pp. 213-222; M. Soldavini, «Nord Stream 2 o la rivoluzione (mancata) del mercato del gas», Staffetta Quotidiana, 7/9/2021.

7. Non manca chi ricollega a contrapposizioni interne agli apparati del regime la fine tragica e misteriosa che ha accomunato quest’anno almeno sei manager o ex tali collegati a Gazprom. Cfr. C. Mui, «Another Russian business executive with ties to Gazprom has been found dead», Fortune, 6/7/2022.

8. Si pensi alla storica sentenza di un tribunale olandese del maggio 2021, con cui è stato intimato a Royal Dutch Shell di abbattere le emissioni più di quanto avesse già pianificato di fare. L’obbligo sarebbe del 45% al 2030 ma includendo tutte le emissioni connesse alla provenienza e agli usi finali dei prodotti di Shell «dal giacimento al benzinaio» (dette anche emissioni Scope 3), quindi di fatto un allontanamento immediato dalle attività su cui la multinazionale si fonda.

9. Per Cina e India è una manna; per i conti russi un’emorragia; per gli europei un tragico svantaggio comparato.

10. Che per non violare le sanzioni dell’Ue prevede per gli acquirenti europei come Eni, Uniper, Engie o OMV di «dichiarare conclusi» i propri impegni in merito alla transazione al momento del versamento in euro o in dollari presso il proprio conto in Gazprombank, senza formalmente avere a che fare con la Banca centrale russa (sanzionata) nel processo di conversione in rubli operato dall’istituto russo «in un secondo momento». In tale contesto la mera apertura del «doppio conto» su cui poi Gazprombank rideposita l’ammontare convertito non costituirebbe violazione.

11. La Polonia ha importato nel 2021 circa 18 mld/m3 di gas sui circa 23,5 mld/mche ha consumato. Di essi circa 13 mld/m3 provenivano dalla Russia (73%). Dei sei paesi che hanno subìto la sospensione delle consegne altri vantavano percentuali di dipendenza maggiore, ma nessuno si avvicina a questi volumi. Salva Varsavia il fatto che il gas sia comunque marginale rispetto al carbone sia per la generazione di energia termoelettrica sia per il riscaldamento domestico.

12. Il taglio dei flussi su questa via (o meglio, la mancata prenotazione di capacità) era stato tra i fattori che avevano spinto alla prima impennata dei prezzi a dicembre 2021, insieme all’impasse del processo di certificazione di Nord Stream 2 e al crollo degli arrivi di gnl nei porti europei causa boom della domanda asiatica.

13. Citando il prelievo indebito di gas da parte dei separatisti di Luhans’k, il Tso ucraino ha interrotto il transito al valico di Sokhranovka (a nord di Luhans’k), che trasporta circa un terzo del gas russo che attraverso il gasdotto Brotherhood-Sojuz entra in Europa a Velke Kapusany (Slovacchia). Rimane attivo e ampiamente sottoutilizzato il transito principale a Sudža (regione di Sumy), il cui confine è controllato dagli ucraini dopo la ritirata russa di aprile.

14. Il consenso a riguardo è vasto. Cfr L. Hyman, W. Tilles, «Russia’s Invasion of Ukraine Is a Catastrophe For Its Oil Industry», oilprice.com, 21/3/2022. 

15. L’ondata di caldo estrema e duratura ha messo in grave difficoltà il sistema elettrico in numerosi paesi europei, esacerbando i prelievi per raffreddamento degli edifici e costringendo a interrompere l’attività del parco di centrali nucleari francese e svizzero. In Francia, dove per un calendario di manutenzioni ordinarie e straordinarie oltre metà della capacità disponibile è fuori servizio, si aggiunge danno al danno. Rte e Edf hanno ottenuto esenzioni per poter scaricare nei fiumi Garonna e Rodano acqua di raffreddamento dei circuiti a temperatura superiore alle normative ambientali in vigore. L’Autorità di sicurezza nucleare sottolinea che una situazione simile si era verificata solo nel 2006 e nella terribile estate del 2003. In Italia il caldo estremo si innesta su una situazione di siccità prolungata che ha fatto calare del 40% la generazione idroelettrica e che influisce sui prelievi di acqua dai fiumi a scopo di raffreddamento nelle centrali a turbogas, che devono fermarsi (hanno chiuso in tutto o in parte tre centrali lungo il Po per un totale di 2,4 GW di capacità).

Pubblicato in: LA GUERRA GRANDE – n°7 – 2022

 

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