Alcune poesie di Mariella Mehr ( di lei, subito dopo ) dal link sotto di cui ringraziamo Silvia Leuzzi, l’autrice, dove trovate anche un commento alle poesie–

 

 

da :

LA SEPOLTURA DELLA LETTERATURA–

https://www.lasepolturadellaletteratura.it/mariella-mehr-poesie/

 

 

 

 

Mettimi tra i centri,
come fossi una di loro
ancora incolume, non fuoco sulfureo
nient’altro che un istante sconosciuto.
Liberami dalla fame di memoria
spediscimi lontano senza messaggi
una volta almeno per la durata di una fitta al cuore
come la storia del fiore di nessuno.
Appoggia bene il tuo piede,
lungo le mie linee della vita
la pietra lucida ti serba rancore.
Le mie mani, una treccia di fiato,
non sanno niente dell’affidabilità
di radici con un domicilio,
derubate di ogni terra
conducono una vita d’aria.
Provvista di speciali garanzie,
che nessuno capisce, non
la mia ombra, non il mio
cuore, oggetto ritrovato,
così mi consegno, ancora goffa
a piedi migranti.

 

 

Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
e una fresca presa di sale
impregna il tuo sguardo.

Di me nessuno vuol sapere,
di chi io sia la spezia
e di quale amore la durata.

Spesso canta il lupo nel mio sangue
e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.

Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno
a tagliarmi i capelli.

Mi annido in briciole straniere
e sono a me parola sufficiente.
Effimero, mi dico,
perché presto cesserà ogni annidare,

e scorre via il resto di ogni ora.

 

 

Poco ha a che fare con gli esseri umani
l’aridità della luna.
Eppure è lì che fiorisce
la verbena del cuore dalle rovine della luce,
il giallo pozzo a carrucola dal fuoco lontano.

Per giorni e giorni ho corso nella neve,
non mi sono riscaldata
e nessuno ha mantenuto la parola
quando la mia si è infranta sul passo
e sul rossore iracondo del cielo.
Quando il silenzio ha mutato il mio piede in pietra.

Neve, dunque, neve e carne
in cui nessun canto soffia la vita,
che porterebbe me all’aridità della luna
oppure – anche questo -, che potrebbe essere redenta
dai coltelli, come ultima consolazione.

Ero leggera come un uccello
con le penne d’oro, un segno nel vento serale
e avvolta nello stupore del bambino.
La mia bocca è passata oltre questo tempo felice,
non vuole imparare a vedere, quando il giorno la interroga
e cerca di afferrare un sorriso.

Anche gli angeli, ora, sono diventati ciechi.

 

 

Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.

Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.

Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce.

 

 

 

Guardiamo separati nel mondo
ognuno incatenato alla sua ora
le nostre mani toccano una costellazione
per l’ennesima volta senza conseguenze
Nebbia avvolge quell’altrove senza sponde
nebbia si appoggia sulla mia spalla
diventa pesante, più pesante, diventa pietra
Una sola parola captata origliando
voglio estrapolarla e conservarla
perché resti indietro una ferita aperta
per mia consolazione, una strada dentro il domani
Bastava la speranza? E allora sperate con me
tutti voi soccombenti
Spera anche tu
cuore mio
un’ultima volta

 

 

 

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